LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19578/2018 proposto da:
Clan Celentano S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Monte Zebio n. 24, presso lo studio dell’avvocato Lombardi Leopoldo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Rizzi Antonella, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
– contro SCF S.r.l., già Consorzio Fonografici, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Alcide De Gasperi n. 21, presso lo studio dell’avvocato Samarughi Cedric, rappresentata e difesa dall’avvocato Mangiafico Claudio, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1810/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il 09/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/06/2021 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 1810/2018 pubblicata il 9-4-2018 e notificata il 20-4-2018 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’impugnazione proposta da SCF s.r.l., già SCF Consorzio Fonografico, nei confronti del Clan Celentano s.r.l. del lodo rituale arbitrale del 21-2-2017, con il quale, in parziale accoglimento delle domande di SCF s.r.l., era stato accertato il credito di detta parte di Euro 128.177,69, iva compresa, alla data di avvio del procedimento arbitrale e per l’effetto era stato condannata Clan Celentano s.r.l. al pagamento in favore di SCF s.r.l. della suddetta somma, oltre interessi dalla data di domanda di arbitrato. La Corte d’appello ha ritenuto che: a) non fosse rilevante, ai fini della competenza del Collegio arbitrale, il fatto che Clan Celentano s.r.l. non fosse socia di SCF s.r.l., ma il fatto che la domanda azionata dinanzi agli arbitri riguardasse solamente il contratto di mandato e la clausola compromissoria in esso contenuta, essendo il contratto di mandato, e non lo Statuto, l’unica fonte regolatrice il rapporto giuridico tra le parti; il richiamo contenuto nel mandato allo Statuto del Consorzio era infatti finalizzato solo a disciplinare aspetti specifici dell’attività del mandatario e singoli aspetti dei rapporti interni tra mandante e mandatario, come per l’appunto la ripartizione dei compensi, oggetto del giudizio, ma non a regolare il rapporto contrattuale tra le parti, senza, perciò, derogare alla clausola compromissoria contenuta nel contratto di mandato del 2013, altrimenti restando detta ultima clausola priva degli effetti, contro la volontà delle parti che l’avevano stipulata; b) l’azione fosse rientrante nell’ambito della clausola arbitrale, perché era di natura contrattuale il titolo a base del credito (diritto, nascente dal contratto di mandato, alla restituzione delle somme versate come acconti provvisori in misura superiore ai crediti maturati in via definitiva), non essendo rilevante che SCF s.r.l. avesse inizialmente qualificato la propria azione come ripetizione dell’indebito; c) fosse inammissibile, ai sensi dell’art. 817 c.p.c., u.c., il motivo di nullità del lodo con cui Clan Celentano s.r.l. lamentava l’esorbitanza della pronuncia dalla Convenzione d’arbitrato in quanto la pretesa creditoria era fondata sull’estratto conto dei conguagli riferiti dal 2001 al 2012 ed era stata pertanto azionata la clausola compromissoria contenuta nel contratto di mandato del 2013 e non le clausole contenute nei contratti del 2001 e del 2004, non avendo Clan Celentano s.r.l. mai sollevato dinanzi al Collegio Arbitrale alcuna contestazione sulla clausola compromissoria attivata in giudizio da SCF s.r.l. in relazione ai contratti di mandato precedenti a quello sottoscritto nel 2013; d) fosse infondato il motivo di nullità del lodo ex art. 829 c.p.c., comma 1, n. 9, per avere il collegio arbitrale assicurato, nel corso del giudizio, il rispetto del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., nello svolgimento della CTU, essendo la decisione sul punto censurato il risultato di una valutazione discrezionale e di merito, che spettava al Collegio stesso e il cui esercizio non incideva sul contraddittorio; e) non fosse contraddittoria la motivazione del lodo, atteso che consentiva di ricostruire il ragionamento logico-giuridico e la ratio decidendi della decisione, da pag. 6 a pag. 9 del lodo, in maniera perfettamente lineare.
2. Avverso quest’ultima sentenza Clan Celentano s.r.l. (di seguito per brevità Clan) propone ricorso, affidato a otto motivi, nei confronti della SCF s.r.l. (di seguito per brevità SCF), che resiste con controricorso.
3. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis.1 c.p.c.. Le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via pregiudiziale la ricorrente chiede che sia esaminata d’ufficio da questa Corte la questione relativa alla carenza di legittimazione attiva di SCF e alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di consorziati e mandanti di SCF, da ritenersi litisconsorti necessari ex art. 102 c.p.c., poiché, a fronte delle restituzioni delle somme dovute dall’attuale parte ricorrente, detti consorziati e mandanti avrebbero diritto di conseguire una maggiore quota di incassi per ogni singolo anno di competenza dal 2002 al 2010.
2. La questione pregiudiziale è inammissibile sotto entrambi i profili prospettati.
2.1. Per quanto concerne il difetto di legittimazione attiva, è ben vero che anche la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa (Cass. S.U. 2951/2016), ma la questione deve costituire comunque oggetto di un motivo di ricorso per cassazione, avendo il giudizio di legittimità come oggetto la sentenza impugnata (art. 360 c.p.c., comma 1), e non certo la materia del contendere.
Nella specie, la questione di difetto di legittimazione attiva viene proposta, per contro, non con un motivo di ricorso, bensì come eccezione rilevabile d’ufficio, e per la prima volta in cassazione, ed è peraltro espressa in forma generica e dubitativa, sostenendo la ricorrente, circa la titolarità del rapporto controverso, che si tratterebbe di un credito di tutti i consorziati pro quota, la cui base potrebbe essere variata negli anni. Ne consegue che solo con una disamina nel merito e dei presupposti fattuali ora allegati, non risultanti dagli atti di causa, potrebbe pervenirsi ad un eventuale accoglimento o rigetto, sicché la questione, così come formulata, è radicalmente inammissibile in sede di legittimità.
2.2. Quanto al correlato profilo del litisconsorzio necessario, la non integrità del contraddittorio è rilevabile, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento e, quindi, anche in sede di giudizio di legittimità, nel quale la relativa eccezione può essere proposta, anche per la prima volta, nel solo caso in cui il presupposto e gli elementi di fatto posti a fondamento della stessa emergano ex se dagli atti del processo di merito, senza la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriori attività; in tal caso, tuttavia, la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l’onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l’esistenza, ma anche quello di indicare gli atti del processo di merito dai quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione (Cass. 19751/2011; Cass. 25305/2008; Cass. 3688/2006).
Nella specie l’eccezione – peraltro sempre proposta non come motivo di ricorso – è del tutto generica, essendo limitata alla deduzione della necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri consorziati e mandanti del Consorzio SCF.
3. Con i primi tre motivi, che possono esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, la società ricorrente denuncia: i) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, nn. 1, 4 e 5, anche per mancanza del requisito di cui dell’art. 823 c.p.c., n. 5, per avere gli arbitri deciso una controversia rispetto alla quale erano incompetenti, in quanto la pretesa azionata (restituzione di compensi per diritti dei produttori fonografici corrisposti a Clan in acconto e risultati in eccesso in base ai successivi conguagli) non rientrerebbe nell’ambito applicativo della clausola compromissoria di cui al contratto di mandato stipulato tra le parti, ma in quello dello Statuto di SCF, che prevede la competenza del Tribunale di Milano, e ciò in forza del richiamo allo Statuto medesimo contenuto nel contratto di mandato; ii) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il vizio di omessa pronuncia, di motivazione omessa e al contempo apparente, nonché la violazione degli artt. 112,132 e 118 disp. att. c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso la motivazione in punto di incompetenza arbitrale, motivato in modo incomprensibile sotto il profilo logico-giuridico e inconciliabile con il dato documentale relativo alle fonti normative del rapporto inter partes, nonché omesso di spiegare quando e come possa trovare applicazione la previsione di competenza del giudice ordinario di cui allo Statuto SCF; iii) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di merito omesso di considerare anche lo Statuto come fonte negoziale, come da giurisprudenza richiamata in ricorso, nonché omesso l’esame del fatto storico, documentato, del ricorso da parte di SCF al tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 30 dello Statuto, quale condizione di procedibilità dell’azione arbitrale.
4. I motivi sono inammissibili.
4.1. Le censure involgono – come eccepito dal controricorrente questioni di merito, risolvendosi in una sostanziale – ed inammissibile – richiesta di rivisitazione della materia del contendere, pur sub specie della violazione di legge e del vizio di motivazione. Occorre ribadire che è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando il ricorrente, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. n. 8758/2017). Infatti, con il ricorso per cassazione anche se proposto con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – la parte non può, invero, rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass., 07/12/2017, n. 29404; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 02/08/2016, n. 16056).
4.2. Nella specie, la Corte d’appello ha ritenuto, con motivazione adeguata (Cass. S.U. n. 8053/2014), che lo Statuto disciplini l’attività del mandatario sul piano generale, stabilendo i criteri per la ripartizione dei compensi, ma che i singoli e specifici rapporti tra le parti – come quello oggetto del presente giudizio – siano disciplinati esclusivamente dal contratto di mandato (precisamente tre contratti, 2001, 2004 e 2013). In buona sostanza, la Corte di merito ha rilevato che, anche avuto riguardo al tenore della clausola dello Statuto, come riportata a pag. 8 del ricorso, la materia del contendere non riguardava affatto la validità, interpretazione ed esecuzione dello Statuto, pur approvato da Clan e pur richiamato nel contratto solo ai fini della regolamentazione della ripartizione dei compensi, ma i crediti (restituzione di compensi per diritti dei produttori fonografici corrisposti a Clan in acconto e risultati in eccesso in base ai successivi conguagli) derivanti dai contratti di mandato, fonte dei rapporti tra le parti. Sul tentativo di conciliazione la Corte implicitamente conferma – considerando la relativa circostanza, il cui esame, quindi, non è stato omesso – l’assunto del collegio arbitrale, secondo cui tali conciliazioni ben possono prescindere da una previa pattuizione.
A fronte di tali motivate argomentazioni, la ricorrente intende rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dal giudice del merito, in ordine alla fonte negoziale della pretesa creditoria azionata (lo Statuto consortile e non i contratti di mandato) ed in ordine agli elementi fattuali (tentativo di conciliazione secondo lo Statuto) che si porrebbero a supporto della sua prospettazione, risolvendosi così le censure in un’impropria richiesta di rivisitazione del merito.
5. E’ infondato il quarto motivo, con il quale la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, nn. 1, 4 e 5, anche per mancanza del requisito di cui dell’art. 823 c.p.c., n. 5, nonché per violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto irrilevante la qualificazione di ripetizione d’indebito inizialmente data da SCF alla propria azione e qualificato come contrattuale il titolo posto alla base della domanda, che era stato individuato nel diritto avente fonte nel contratto di mandato.
5.1. Premesso che il giudice dell’impugnazione del lodo, condividendo il giudizio arbitrale sul punto, ha ritenuto – con valutazione in fatto incensurabile – che i tre contratti di mandato abbiano dato luogo ad un rapporto continuativo, il ragionamento della Corte d’appello secondo il quale la qualificazione giuridica di un’azione dipende dal titolo posto alla base della stessa, nel caso di specie i contratti di mandato, è immune da censure.
La Corte di merito ha affermato che i contratti in questione non giustifichino il riconoscimento dei compensi percepiti da Clan, attesi i saldi passivi dei conguagli che lo riguardano.
Orbene, l’azione di ripetizione di indebito, prevista dall’art. 2033 c.c., ha per suo fondamento l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una condizione risolutiva avveratasi. Essa va, pertanto, correttamente inquadrata nell’alveo contrattuale (Cass. 13207/2013; Cass. 4889/1979; Cass. 3314/2020), così come nella specie hanno fatto i giudici di merito.
6. Con i motivi quinto e sesto, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, la ricorrente denuncia: a) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 817 c.p.c., u.c., in rapporto con l’art. 829 c.p.c., comma 1, nn. 1, 4, 5 e 11, per avere SCF azionato la clausola compromissoria afferente al mandato del 2013 sebbene i crediti fossero riferibili a ripartizioni dal 2002 al 2010, sicché il lodo era stato pronunciato al di fuori dei limiti della convenzione di arbitrato, e su detta censura difettava la motivazione della Corte d’appello, che aveva ritenuto inammissibile il corrispondente motivo di nullità per non avere eccepito l’attuale parte ricorrente nel giudizio arbitrale l’esorbitanza delle domande di SCF dai limiti della convenzione di arbitrato; b) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello motivato in modo logicamente incomprensibile e solo apparente sulle contestazioni sollevate dall’attuale ricorrente circa l’ambito della clausola compromissoria del 2013 azionata.
7. I motivi sono infondati.
7.1. Occorre precisare che, per costante giurisprudenza di questa Corte a cui il Collegio intende dare continuità, in tema di arbitrato, invero, anche nel regime previgente al D.Lgs. n. 40 del 2006, configurandosi la devoluzione della controversia agli arbitri come rinuncia alla giurisdizione dello Stato, attraverso la scelta di una soluzione della controversia con uno strumento di natura privatistica, l’eccezione di difetto di potere decisorio in capo agli arbitri deve ritenersi propria od in senso stretto, in quanto avente ad oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo dell’esercizio della giurisdizione statale, con la conseguenza che va proposta dalle parti nei tempi e nei modi propri delle eccezioni di merito (ossia dinanzi agli arbitri) non rilevabili d’ufficio (Cass. 19283/2020; Cass. 5824/2019).
7.2. La Corte territoriale si è attenuta ai suesposti principi, poiché, dopo aver accertato che l’eccezione di difetto di potere decisorio in capo agli arbitri – per essere, secondo l’assunto di Clan, l’unico contratto in vigore del 2013, laddove le pretese azionate dal Consorzio erano anteriori perché relative al periodo 2002-2010 – non era mai stata proposta dinanzi agli arbitri, ha correttamente ritenuto tale eccezione preclusa in sede di impugnazione del lodo, ai sensi dell’art. 817 c.p.c..
Premesso che neppure il ricorrente allega di avere formulato l’eccezione di cui trattasi nel corso del giudizio arbitrale, non può sostenersi – contrariamente a quanto si assume in ricorso (p. 40) che la questione attenga alla potestas iudicandi degli arbitri, e non all’ambito oggettivo della clausola compromissoria, atteso che la competenza degli arbitri si determina proprio sulla base delle previsioni della convenzione d’arbitrato e delle domande proposte dalle parti, che non devono superarne il limite.
8. E’ inammissibile il settimo motivo, con cui il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando l’omessa decisione in merito all’impugnazione, proposta in via subordinata, del lodo per nullità per motivi di diritto, in applicazione della disciplina della nullità dell’arbitrato vigente ante riforma introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006, nell’ipotesi in cui la Corte d’appello avesse ritenuto azionate anche le clausole compromissorie afferenti ai contratti di mandato del 2001 e del 2004, e trascrive in ricorso le domande di impugnazione per violazione di norme di diritto proposte in appello.
8.1. Come affermato dallo stesso ricorrente, la Corte ha dichiarato assorbite tali questioni, per effetto della preclusione verificatasi sull’eccezione di difetto di potere decisorio in capo agli arbitri di cui si è detto nel paragrafo che precede, sicché il motivo è inammissibile non essendovi una soccombenza al riguardo (Cass. 28751/2017; Cass. 18677/2011).
9. E’ infondato e in parte inammissibile l’ottavo motivo, con cui la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 9, e dell’art. 101 c.p.c., per violazione del principio del contraddittorio, che assume essersi verificate nel giudizio arbitrale, sia durante la fase istruttoria e l’espletamento della CTU, sia successivamente.
9.1. In tema di giudizio arbitrale, la questione della violazione del contraddittorio deve essere esaminata non sotto il profilo formale ma nell’ambito di una ricerca volta all’accertamento di una effettiva lesione della possibilità di dedurre e contraddire, onde verificare se l’atto abbia egualmente raggiunto lo scopo di instaurare un regolare contraddittorio e se, comunque, l’inosservanza non abbia causato pregiudizio alla parte; ne consegue che la nullità del lodo e del procedimento devono essere dichiarate solo ove nell’impugnazione, alla denuncia del vizio idoneo a determinarle, segua l’indicazione dello specifico pregiudizio che esso abbia arrecato al diritto di difesa (Cass. 18600/2020).
Nel caso concreto la Corte d’appello ha motivatamente escluso la violazione del contraddittorio, implicitamente escludendo un vulnus al diritto di difesa. D’altronde per un verso la stessa ricorrente dà atto di aver potuto visionare gli atti (pag. 63 e 69 ricorso) e per altro verso non indica quale pregiudizio specifico, allegato nel giudizio di merito, abbia in concreto subito, risolvendosi la doglianza, in parte qua, in una mera riproposizione di questioni di merito esaminate dalla Corte territoriale.
10. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 10.200, di cui Euro200 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15%) e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022
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