LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14020/2017 proposto da:
Laboratorio Analisi Guidonia S.r.l., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Vincenzo Ambrosio n. 4, presso lo studio dell’avvocato Bellomi Alessandro, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Unione di Banche Italiane S.p.a., incorporante per fusione la Banca Popolare di Ancona S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via degli Scipioni n. 232, presso lo studio dell’avvocato Maccarone Francesco, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 3023/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 05/11/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.
FATTI DI CAUSA
1. – In data 21 aprile 2006 Laboratorio di Analisi Guidonia s.r.l. ha evocato in giudizio Banca Popolare di Ancona s.p.a. esponendo di essere titolare di un conto corrente assistito da apertura di credito; l’istante ha lamentato la capitalizzazione degli interessi passivi e l’applicazione di un interesse determinato in base agli usi su piazza.
Nella resistenza della banca, e a seguito di esperimento di consulenza tecnica contabile, la causa è stata decisa con l’accertamento di un credito del correntista di Euro 46.127,71, “da liquidarsi con pari valuta e con obbligo per la banca di riaccredito e con interessi dalla domanda”.
2. – Banca Popolare di Ancona ha interposto gravame.
Il giudizio di impugnazione, in cui si è costituita la società Laboratorio di Analisi Guidonia, si è concluso con sentenza resa il 13 maggio 2016 dalla Corte di appello di Roma. Con tale pronuncia, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, il giudice distrettuale ha condannato l’appellante alla restituzione di quanto indebitamente percepito, nella misura di Euro 46.127,71 “da liquidarsi con obbligo di riaccredito, oltre agli interessi legali della domanda al soddisfo”. Per quanto qui rileva, la Corte di merito ha osservato come la locuzione “con pari valuta”, contenuta nella sentenza di primo grado, non si prestasse ad essere interpretata nel senso di una rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat e che, comunque, se tale fosse stata la corretta esegesi dell’espressione impiegata dal giudice di prime cure, la decisione, sul punto, sarebbe risultata certamente errata e non sorretta da idonea motivazione. Ha evidenziato che il debito restitutorio cui era tenuto la banca integrava un’obbligazione di valuta, onde maturava interessi al tasso legale, salva la prova del maggior danno che l’attrice in primo grado non aveva fornito. Ha osservato, in particolare, che le deduzioni della società appellata quanto al ricorso all’affidamento concesso per poter onorare le proprie obbligazioni nei confronti della banca risultavano essere “totalmente generiche e comunque non sufficientemente argomentate e sviluppate in primo grado, nemmeno con una richiesta di ampliamento dei quesiti da formulare al CTU”, e che, del resto, la stessa parte appellata aveva ammesso di aver formulato la domanda di rivalutazione monetaria solo in sede di precisazione delle conclusioni.
3. – Avverso detta pronuncia Laboratorio di Analisi Guidonia ha proposto un ricorso per cassazione di quattro motivi. Con proprio controricorso, contenente un’impugnazione incidentale basata su di un solo motivo, ha resistito Unione di Banche Italiane s.p.a., quale società incorporante Banca Popolare di Ancona. Sono state depositate memorie; in quella di parte controricorrente si è dato atto che Unione di Banche Italiane è stata incorporata da Intesa Sanpaolo s.p.a..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – La banca controricorrente ha pregiudizialmente eccepito l’inesistenza o la nullità del ricorso per cassazione di controparte, siccome notificato a soggetto, la Banca Popolare di Ancona, che all’epoca si era estinto per effetto della fusione per incorporazione in Unione di Banche Italiane.
La deduzione va disattesa.
Spiega la controricorrente che la fusione per incorporazione ha avuto luogo il 2 febbraio 2017: quindi dopo la pubblicazione della sentenza di appello.
Come già rilevato da questa Corte, il principio dell’ultrattività del mandato alla lite, per cui il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato, si applica anche quando, avvenuta la cancellazione della società dal registro delle imprese successivamente alla emissione della sentenza d’appello e in pendenza del termine per proporre ricorso per cassazione, non ne sia possibile, per tale ragione, la sua declaratoria, né il procuratore della società estinta abbia inteso notificare l’evento stesso alla controparte, sicché quest’ultima, legittimamente, può notificare alla società, pur cancellata ed estinta, il ricorso per cassazione presso il domicilio del suddetto difensore (Cass. 27 luglio 2015, n. 15724).
2. – Il primo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di controversia, nonché la nullità per assoluto difetto di motivazione, o per motivazione apparente o perplessa; lamenta, altresì, la violazione dell’art. 1224 c.c. e dell’art. 112c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4. Rileva la ricorrente che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la domanda di risarcimento del maggior danno era stata formulata nella citazione di primo grado e quindi precisata all’atto di rassegnare le conclusioni definitive. Si spiega che era stata richiesta, in via subordinata, la rivalutazione monetaria almeno a far data della domanda e che si era inoltre formulata istanza per l’espletamento di un supplemento di consulenza tecnica d’ufficio al fine di addivenire al corretto conteggio degli interessi e della rivalutazione successivi alla detta domanda: tali richieste – si deduce – erano state poi reiterate in appello.
Il secondo mezzo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, oltre che degli artt. 1362 e 1365 c.c.. Assume l’istante che il giudice di appello avrebbe erroneamente qualificato la domanda di maggior danno mancando di verificare se essa fosse stata ritualmente proposta fin dall’atto di citazione, non considerando la piena ammissibilità di una eventuale emendatio consistente nella richiesta di riaccredito sul conto corrente delle somme con valuta alla data della domanda giudiziale, al fine di consentire un pieno ristoro del maggior danno, pienamente dimostrato dalla circostanza per cui il medesimo conto era ancora in essere alla data della decisione, e omettendo di ammettere, da ultimo, il richiesto supplemento di consulenza tecnica volto ad accertare la misura del lamentato pregiudizio.
Col terzo motivo viene lamentato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di controversia, oltre alla nullità per assoluto difetto di motivazione, o per motivazione apparente o perplessa; ci si duole altresì della violazione dell’art. 1224 c.c. e dell’art. 112c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4. La ricorrente deduce che le richieste subordinate aventi ad oggetto, nel merito, la rivalutazione monetaria e, in via istruttoria, l’espletamento un supplemento di consulenza tecnica al fine di conteggiare interessi e commissioni successivi alla domanda erano state proposte all’udienza di precisazione delle conclusioni dell’11 novembre 2010 ed erano state reiterate nella comparsa di risposta d’appello. La sentenza impugnata è censurata per non avere la Corte di merito – che aveva oltretutto mosso all’appellata “l’infondato rimprovero di non aver richiesto un ampliamento dei quesiti da sottoporre al CTU” – preso in considerazione dette domande.
Il quarto motivo contiene una doglianza di violazione e falsa applicazione degli artt. 183 e 184 c.p.c.; prospetta, inoltre, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di controversia e la nullità per assoluto difetto di motivazione, o per motivazione apparente, o per motivazione perplessa; oppone, infine, la violazione dell’art. 1224 c.c. e dell’art. 112c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4. Sostiene la ricorrente che le variazioni puramente quantitative del petitum sono sempre consentite in quanto, se non alterano i termini sostanziali della controversia e non introducono nuovi temi di indagine, non comportano violazione del principio del contraddittorio, né menomazione del diritto di difesa dell’altra parte. Nella fattispecie avrebbe quindi dovuto ritenersi ammissibile una modificazione della domanda iniziale consistente nel riaccredito della somma con valuta alla data della citazione. Si sostiene che il giudice distrettuale, sul punto, avrebbe fatto cattiva applicazione dell’art. 1224 c.c.; inoltre lo stesso avrebbe omesso di pronunciarsi su tutta la domanda e sarebbe incorso nel denunciato vizio motivazionale.
I riassunti motivi possono esaminarsi congiuntamente, siccome connessi, e sono fondati nei termini che si vengono a precisare.
Nell’atto di citazione la società attrice ebbe a domandare la condanna della convenuta alla restituzione di quanto indebitamente corrisposto dall’attrice, nella misura di Euro 45.570,39, o altra ritenuta di giustizia, “con rivalutazione monetaria (avuto riguardo alla natura di imprenditore commerciale rivestita dalla istante) ex art. 1224 c.c., a far data dagli esborsi ed interessi anatocistici sulle somme via via rivalutate” (cfr. ricorso per cassazione, pag. 5).
All’udienza di precisazione delle conclusioni avanti al giudice di primo grado, in data 11 novembre 2010, Laboratorio di Analisi Guidonia richiese la condanna della banca al riaccredito della somma indicata sul conto corrente, “con valuta al 27 aprile 2006, eseguendo poi il corretto conteggio di interessi e commissioni successivi a valere sui nuovi saldi così ottenuti” e, “in subordine, mediante pagamento diretto con interessi anatocistici e rivalutazione monetaria dalla domanda”; in via ulteriormente subordinata l’attrice domandò di “rimettere la causa sul ruolo, disponendo supplemento di CTU al fine del corretto conteggio di interessi e commissioni successivi alla domanda” (ricorso per cassazione, pag. 8).
La domanda avente ad oggetto il ricalcolo del saldo del conto corrente, previo accredito dell’importo di Euro 43.639,13, risulta estranea a quanto richiesto nell’atto di citazione; né la ricorrente assume che essa venne formulata nel rispetto delle preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c.. Poiché la stessa si pone in rapporto di alternatività con quella originariamente proposta (la quale, nelle richiamate conclusioni, è stata svolta – come si visto – in via subordinata), detta domanda non può, a rigore definirsi “nuova”: mette conto qui di richiamare l’insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui la vera differenza tra le domande “nuove”, implicitamente vietate – in relazione alla eccezionale ammissione di alcune di esse – e le domande “modificate”, espressamente ammesse, non sta nel fatto che in queste ultime le modifiche non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate -eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali -, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività (Cass. Sez. U. 15 giugno 2015, n. 12310, in motivazione; richiama tale principio Cass. 26 giugno 2018, n. 16807; in tema di domande gradate, nel senso che è consentito, nel giudizio introdotto con domanda di adempimento contrattuale, proporre nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento, qualora questa si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio: Cass. Sez. U. n. 13 settembre 2018, n. 22404 e, da ultimo, Cass. 9 febbraio 2021, n. 3127).
La detta domanda non rientra, dunque, tra quelle vietate in senso assoluto, realizzando, piuttosto, una modificazione della domanda originaria: modificazione in linea di principio ammessa ex art. 183 c.p.c., ove la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e la trattazione della medesima non determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali (Cass. Sez. U. 15 giugno 2015, n. 12310, cit.).
Ai fini che qui interessano è superfluo domandarsi se la modificazione del thema decidendum introdotto dalla domanda in questione si inscrivesse o meno nel perimetro tracciato dalle Sezioni Unite. Come si è appena detto, queste ultime si sono infatti occupate delle modifiche che è possibile apportare alla domanda originaria a norma dell’art. 183 c.p.c., mentre nella fattispecie si fa questione di una domanda introdotta all’udienza di precisazione delle conclusioni, ove era certamente precluso l’ampliamento del thema decidendum: è qui appena il caso di ricordare che, secondo quanto si legge nell’art. 189 c.p.c., alla detta udienza il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183 c.p.c.” (espressamente nel senso che le modificazioni della domanda ammesse in corso di causa soggiacciono alle preclusioni processuali previste dall’art. 183 c.p.c.: Cass. 21 novembre 2017, n. 27566; Cass. 31 luglio 2017, n. 18956).
La domanda principale svolta in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado era dunque inammissibile e tanto escludeva che la Corte di appello potesse prenderla in esame.
Diverse considerazioni si impongono per la pretesa avente ad oggetto la “rivalutazione monetaria (avuto riguardo alla natura di imprenditore commerciale rivestita dalla istante) ex art. 1224 c.c., a far data dagli esborsi” che, come si è visto, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, era stata avanzata con l’atto introduttivo del giudizio, per essere poi reiterata all’udienza di precisazione delle conclusioni e ribadita ex art. 346 c.p.c., nella comparsa di risposta di appello, ove venne ricordato che la richiesta di rivalutazione, che si giustificava avendo riguardo alla natura di imprenditore commerciale pacificamente rivestita dalla società istante, era stata già svolta nell’atto di citazione introduttivo del giudizio (cfr. ricorso per cassazione, pag. 11).
E certo, anzitutto, che la pretesa avesse puntualmente ad oggetto il risarcimento del maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2: ciò è reso palese dall’evocazione di tale articolo e dal riferimento, operato dalla società ricorrente, alla propria qualità di imprenditore commerciale: qualità che deve intendersi richiamata proprio allo scopo di valorizzare le modalità di impiego del denaro che fossero coerenti con essa.
Come è risaputo, con riguardo al risarcimento del maggior danno nelle obbligazioni pecuniarie, le Sezioni Unite di questa Corte hanno fissato, da tempo, il seguente principio: “Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale” (Cass. Sez. U. 16 luglio 2008, n. 19499). La novità di questo arresto si coglie nel superamento della suddivisione dei creditori in categorie: categorie cui erano in precedenza rispettivamente correlate presunzioni di una personalizzata modalità di impiego del denaro; il danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, è infatti ritenuto sussistente tutte le volte che il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali: è fatta però salva la prova (di cui è onerato il creditore) dell’esistenza di un danno superiore al differenziale tra il saggio di rendimento dei titoli di Stato e il tasso legale e la prova (da fornirsi dal debitore) di un danno che, per essere inferiore alla misura del saggio legale, implicherà la spettanza di un risarcimento la cui misura sarà segnata dall’interesse dovuto a norma dell’art. 1224 c.c., comma 1).
La Corte di appello avrebbe dovuto anzitutto apprezzare la tempestività della domanda di maggior danno svolta nella citazione di primo grado dall’odierna ricorrente per poi fare applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite: principi in cui, contrariamente a quanto ritenuto dalla banca (pagg. 12 s. del controricorso), non trova alcuno spazio l’onere di allegazione del creditore quanto alle modalità di impiego del denaro e a cui resta parimenti estraneo – salvo quanto si è detto con riferimento al superamento della presunzione di danno – un onere probatorio di quel medesimo contenuto.
3. – Col ricorso incidentale la sentenza impugnata è censurata per violazione dell’art. 112 c.p.c., oltre che per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di controversia e per nullità per assoluto difetto di motivazione. La ricorrente per incidente deduce di aver domandato, in appello, la condanna dell’appellata alla restituzione delle somme versate dando volontaria esecuzione alla pronuncia del giudice di primo grado. La somma è stata quantificata dall’appellante nell’importo interamente versato, pari ad Euro 24.510,10, ovvero nella minor somma di Euro 5.165,74, corrispondente al risarcimento dell’ulteriore danno derivante dalla svalutazione monetaria della somma oggetto di ripetizione. Lamenta la banca che su tale domanda, tempestivamente avanzata e riproposta all’udienza di precisazione delle conclusioni del 11 dicembre 2015, la Corte di appello aveva mancato di pronunciarsi.
Il motivo resta assorbito, stante l’accoglimento del ricorso principale.
4. – La sentenza impugnata va dunque cassata. La causa è rinviata alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, statuirà pure sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte;
accoglie il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022
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