Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.191 del 05/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10733/2020 proposto da:

Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata, in persona del Direttore pro tempore, Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

D.L.O., F.M., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della minore D.L.G., Gruppo 6 G.D.O.

S.r.l., R.V., S.D., Unipolsai Assicurazioni S.p.a.;

– intimati –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di PALERMO, del 06/03/2020;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/12/2021 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA;

lette le conclusioni scritte, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art.

23, comma 8-bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 176 del 2020, del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa DE RENZIS Luisa, che chiede che la corte di cassazione accolga il ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. – L’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati dalla criminalità organizzata e il Ministero dell’economia e delle finanze hanno proposto l’azione di responsabilità del socio, ai sensi dell’art. 2476 c.c., comma 3 e art. 2407 c.c., per i danni cagionati alla società contro gli ex amministratori ed ex sindaci della Gruppo 6 G.D.O. s.r.l., le cui partecipazioni sociali erano state confiscate in danno dei soci in relazione a reati di criminalità organizzata.

La predetta agenzia ha chiesto, altresì, il risarcimento del danno in proprio favore, con riguardo al pregiudizio non patrimoniale alla reputazione.

2. – Nel costituirsi in giudizio, i convenuti hanno chiesto la “chiamata in causa” degli stessi attori, al fine di proporre avverso i medesimi – reputati corresponsabili o responsabili esclusivi dei danni – una domanda di c.d. manleva.

Autorizzata la chiamata, l’Agenzia nazionale ed il Mef hanno depositato ulteriore comparsa di risposta.

3. – Nel corso del giudizio, con ordinanza del 29 gennaio 2020, il giudice istruttore del Tribunale di Palermo, sezione specializzata per l’impresa, ha ravvisato un “conflitto d’interessi” tra “l’interesse della società e quello dei convenuti in regresso”, con conseguente “incompatibilità dell’Avvocatura dello Stato a difendere l’ANABC e MEF”, assegnando un termine per la nomina, in relazione alle pretese in regresso, di un “difensore proveniente dal libero foro”.

4. – Gli attori hanno ivi chiesto al giudice di provvedere alla revoca di tale provvedimento, segnalandone l’illegittimità.

Con ordinanza del 6 marzo 2020, il giudice istruttore del Tribunale di Palermo ha respinto l’istanza di revoca della propria ordinanza istruttoria del 29 gennaio 2020 e fissato il “termine per rimuovere la situazione di incompatibilità riscontrata con tale ordinanza sino alla prossima udienza che fissa per il 7.7.20, ore 9,00”.

5. – Contro questa seconda ordinanza, e “per quanto possa occorrere” di quella del 29 gennaio 2020, l’Agenzia nazionale ed il Ministero dell’economia e delle finanze hanno proposto ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., sulla base di due motivi.

Non svolgono difese gli intimati.

Con istanza depositata il 18.10.2021, i ricorrenti hanno chiesto una celere trattazione del ricorso, posto che in data 26 luglio 2021 il Tribunale di Palermo ha dichiarato la contumacia delle ricorrenti nel procedimento r.g. n. 8670/18, ritenendo le amministrazioni, quali convenute in regresso, non legittimamente rappresentate in giudizio dall’Avvocatura dello Stato.

6. – Il Procuratore generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso. I ricorrenti hanno depositato anche la memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi. Le ricorrenti censurano, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 70,92,101 e 111 Cost., R.D. n. 1611 del 1933, artt. 1, 5, 43, per eccesso di potere giurisdizionale, essendo il provvedimento impugnato abnorme, in quanto del tutto atipico e non soggetto ad altra forma di impugnazione, onde tale nullità provoca un vizio radicale del provvedimento, denunziabile in ogni tempo, sia per mezzo di un’impugnazione, sia anche con azione autonoma e col ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost..

Infatti, ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 1 e D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 114, comma 2, l’Avvocatura dello Stato ha il “patrocinio obbligatorio” sia dell’Agenzia, sia del Ministero dell’economia e delle finanze, attori in giudizio; laddove l’art. 43 R.D. cit., nel prevedere il “patrocinio autorizzato”, riguarda solo eccezionalmente le amministrazioni pubbliche non statali e gli enti sovvenzionati o vigilati, onde esso, neppure in via analogica, come invece ritenuto nella ordinanza impugnata, è applicabile al caso in esame.

Il giudice ha inteso, con la impugnata decisione, sostituirsi alla parte nella scelta del suo difensore, imponendo la nomina di un avvocato del libero foro: tuttavia, il R.D. n. 1611 del 1933, art. 1, dispone che la rappresentanza in giudizio delle amministrazioni dello Stato spetti all’Avvocatura, innanzi a tutte le giurisdizioni e senza necessità di speciale mandato.

Proprio l’assenza di un mandato evidenzia il compito indefettibile ed insostituibile dell’Avvocatura dello Stato, la quale garantisce il perseguimento dell’interesse pubblico in modo unitario.

Nel caso di specie, invece, il giudice, che è chiamato a decidere la causa, non avrebbe potuto sostituirsi all’amministrazione ed affermare da chi farla rappresentare, con grave violazione delle regole del giusto processo ed invasione della sfera della p.a. e del legislatore.

Con il secondo motivo, le parti ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 81,106,166 e 167 c.p.c., in quanto la “chiamata in causa” per proporre domande riconvenzionali contro gli attori è del tutto abnorme, essendo questi già parti del processo, tanto è vero che il termine per le domande riconvenzionali, previsto dall’art. 166 c.p.c., sino a venti giorni prima dell’udienza di comparizione (tenutasi il 5 ottobre 2018), era ormai decorso, dovendo ex art. 167 c.p.c., comma 2, il convenuto proporre le domande riconvenzionali entro il medesimo termine, a pena di decadenza, rilevabile d’ufficio.

Ne’ la notificazione di un preteso “atto di chiamata in causa”, avvenuta il 29 ottobre 2018, avrebbe potuto veicolare una tardiva domanda riconvenzionale.

Inoltre, l’interesse degli attori, lungi dall’essere incompatibile, come sarebbe necessario, in ipotesi di conflitto di interessi nella difesa di più persone, collima con quello della società, contrariamente a quanto affermato dal giudice istruttore, essendo l’Agenzia divenuta socia unica per effetto della confisca definitiva dal 17 ottobre 2013.

Costringere le amministrazioni pubbliche a conferire mandato ad un avvocato del libro foro, altresì, comporterebbe indebite spese per l’erario e violazione del R.D. n. 1611 del 1933, art. 1, che impone la difesa in capo all’Avvocatura dello Stato; e il R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 69, u.c., T.U. sulla contabilità generale dello Stato, pone tra le amministrazioni statali anche le Agenzie da esso istituite, pur se dotate di personalità giuridica, mentre il D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 114, comma 2, c.d. codice antimafia, estende l’applicazione di detto art. 1 all’Agenzia ricorrente.

2. – Inammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost.. Il ricorso è inammissibile.

Il giudice di merito, in applicazione dell’art. 182 c.p.c., ha ritenuto di ravvisare un “difetto di rappresentanza” processuale in capo agli attori, nella veste di asseriti “chiamati in causa”, ritenuto ciò all’esito della verifica d’ufficio della regolarità della costituzione delle parti ed avendo invitato le pubbliche amministrazioni in causa alla nomina di un avvocato del libero foro.

Tanto il giudice ha sancito, nell’ambito del governo del processo innanzi a lui pendente.

Ma le ordinanze istruttorie, assunte dal giudice ai fini del regolamento e della disciplina del procedimento, sono sempre revocabili e modificabili dal giudice stesso, nonché dal collegio, organo nella specie competente alla decisione dell’azione di responsabilità, quale Tribunale per le imprese.

Si tratta, dunque, di un provvedimento, per quanto errato o gravemente errato, sempre modificabile e revocabile dal giudice che lo ha emesso, che non passa in giudicato e non assume una stabilità idonea ad integrare la nozione di definitività, presupposto per il ricorso per cassazione.

L’inserimento del provvedimento ordinatorio all’interno del processo a cognizione piena ha la conseguenza che il suo risultato sarà sempre ridiscutibile nell’ambito del giudizio di cognizione, ai sensi del disposto dell’art. 178 c.p.c., comma 1.

Invero, nel corso o certamente all’esito di quel giudizio, potrà essere rivalutata la situazione del dedotto conflitto d’interessi nel processo, mediante attribuzione del potere di rilevarlo e di porvi rimedio all’unico organo che possa idoneamente deciderne, ossia lo stesso giudice del processo.

Al giudice della causa di merito il legislatore ha attribuito, formulando l’art. 182 c.p.c., il potere-dovere di valutare e decidere – in considerazione non soltanto della piena cognitio di tutte le posizioni soggettive confluite nel processo ed unicamente dallo stesso acquisibile ed acquisita, ma altresì della non meno esclusiva competenza di garante della legittimità del processo mediante la verifica anche d’ufficio della regolare costituzione del contraddittorio sulla sussistenza, oppure no, dell’eventuale “vizio che determina la nullità della procura al difensore”, con l’assegnazione del termine.

Il provvedimento impugnato è diretto non già ad attribuire o negare un bene della vita, ma ha ad oggetto, così come la prima ordinanza del 29 gennaio 2020, la rappresentanza tecnica in giudizio del soggetto, posto che, ad avviso del Tribunale, i soggetti rappresentati ed odierni ricorrenti si sarebbero trovati in conflitto di interessi con la società.

Si tratta dunque di ordinanza in funzione meramente strumentale ai fini del singolo processo, sempre revocabile e modificabile ad opera del giudice, avvedutosi dell’errore.

Onde l’ordinanza non è suscettibile di acquistare forza di giudicato, né esplicito, in ordine alla pretesa di ravvisare un conflitto di interessi, né implicito, in ordine alle questioni valutate e decise quali presupposti logici necessari di quella.

Inoltre, qualsiasi opinione abbia espresso il giudice istruttore, decidendo in ordine ad una questione di conflitto d’interessi nel processo prospettatagli nel corso della trattazione della causa, le relative determinazioni ex art. 178 c.p.c., non vincolano le decisioni del collegio.

Ne’ può dirsi, nella specie, che si tratti di un’actio nullitatis, posto che è all’interno del medesimo processo in corso che, anche mediante sottoposizione della questione al collegio, la situazione va risolta.

3. – Principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c.. Il Collegio reputa di pronunciare ai sensi dell’art. 363 c.p.c., implicando la controversia rilevanti questioni di diritto societario e processuale, sulle quali è necessario fornire indicazioni nomofilattiche.

3.1. – L’azione proposta innanzi al Tribunale di Palermo è stata intrapresa dall’Agenzia nazionale e dal Ministero dell’economia e delle finanze ai sensi degli artt. 2476 e 2407, cui rinvia l’art. 2477 c.c., comma 4, per gli atti di mala gestio compiuti in violazione degli obblighi della carica ed omessa vigilanza.

Le quote sociali sono pervenute all’amministrazione pubblica a seguito della confisca dei beni dei soci, divenuta definitiva dopo la condanna penale, con intestazione dell’intera partecipazione societaria nella Gruppo 6 G.D.O. s.r.l. in capo allo Stato, dunque divenuto socio pubblico a seguito della confisca definitiva. Si tratta non di una ipotesi di un ordinario intervento dello Stato nell’economia, ma ope legis ed “imposto” nell’ambito delle misure di repressione della criminalità organizzata di stampo mafioso, le quali prevedono la confisca definitiva e la gestione delle partecipazioni da parte dell’Agenzia.

3.2. – Come si è già osservato (cfr. Cass., ord. 4 marzo 2021, n. 6068), la legislazione antimafia ha predisposto un coacervo di misure, di natura penale ed amministrativa, di contrasto al crimine organizzato, a tutela dell’ordine pubblico economico e della libera concorrenza tra le imprese, ai sensi dell’art. 41 Cost..

Il complesso delle norme antimafia “mira ad isolare le imprese vicine agli ambienti della criminalità organizzata, togliendo loro la linfa data dai guadagni, con l’esclusione dal settore economico pubblico, in particolare nella contrattualistica, e dai finanziamenti pubblici” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 20 gennaio 2020, n. 452; id., 5 settembre 2019, n. 6105), mediante la “sottrazione del bene al “circuito economico” di origine, per inserirlo in un altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzavano il primo” (Corte Cost. 19 ottobre 2012, n. 234; Corte Cost. 23 febbraio 2012, n. 34; Corte Cost. 8 ottobre 1996, n. 335, sulla ratio della disciplina).

La normativa evidenzia il rilievo dell’influenza delle organizzazioni mafiose sull’attività d’impresa, nella duplice veste della c.d. contiguità soggiacente o della c.d. contiguità compiacente, in quanto essa possa, anche in modo indiretto, esserne condizionata o agevolare le attività criminose (Cass. pen., sez. V, 2 luglio 2018, n. 34526), costituendo simili condotte che permeano il tessuto economico non solo un pericolo per la sicurezza pubblica e l’economia legale, ma “soprattutto un attentato al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè, quel fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona” (Cons. Stato, sez. III, 20 gennaio 2020, n. 452).

In tale ambito, de’tta normativa prevede, quale misura di prevenzione, il sequestro dei beni, ivi comprese le partecipazioni societarie che ne facciano parte (D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 20), con la successiva confisca delle medesime, quando la persona non possa giustificarne la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo, in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego (D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 24).

L’art. 416-bis c.p., commi 1 e 2, dispone, a sua volta, che chiunque prenda parte ad un’associazione di tipo mafioso sia punito con la reclusione da dieci a quindici anni, prevedendo maggiori pene per chi tali associazioni promuova, diriga od organizzi. Il comma 7 della disposizione stabilisce che, nei confronti del condannato, sia “sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego”. La fattispecie contempla la confisca definitiva, quale misura di sicurezza reale in presenza della sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 240 c.p., caratterizzata dalla sua obbligatorietà ex lege.

L’ordinamento positivo distingue tra la confisca quale misura di sicurezza reale e la confisca quale misura di prevenzione patrimoniale. Secondo la ricostruzione dell’istituto, si tratta di un provvedimento ablativo dei diritti del condannato e di tutti i diritti gravanti sul bene confiscato, ricostruzione che sta alla base degli orientamenti, sia in sede civile che in sede penale, di questa Corte (in tal senso, Cass. 30 novembre 2018, n. 30990).

Si è già chiarito come l’acquisto, da parte dello Stato, di un bene sottoposto alla misura di prevenzione della confisca ex L. n. 575 del 1965, ha, dopo l’entrata in vigore L. n. 228 del 2012, natura originaria e non derivativa (Cass. n. 30990/18; Cass. n. 12586/17; Cass., s.u., n. 10532/13).

Al riguardo, il legislatore positivo ha stabilito, all’art. 104-bis disp. att. c.p.p., comma 1-quater (comma inserito dal D.Lgs. 10 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 3, lett. a, n. 2 e successivamente sostituito dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, art. 373, comma 1, lett. b,), che ai casi di confisca di beni per i delitti di cui all’art. 51 c.p., comma 3-bis – dunque, anche per il delitto ex art. 416-bis c.p. – si applichino le disposizioni previste dal D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, in materia di amministrazione e destinazione dei beni: “In tali casi l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata coadiuva l’autorità giudiziaria nell’amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati, fino al provvedimento di confisca emesso dalla corte di appello e, successivamente a tale provvedimento, amministra i beni medesimi secondo le modalità previste dal citato D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159”.

Il che conferma la natura dell’attribuzione allo Stato della titolarità dei beni, avvenga essa per sequestro e confisca di prevenzione, o per confisca quale misura di sicurezza reale dopo la sentenza definitiva di condanna. E’ il medesimo effetto che si produce in caso di espropriazione, ove l’acquisto della proprietà è a titolo originario, non verificandosi nessun fenomeno successorio, né a titolo universale né a titolo particolare (fra le altre, v. Cass. 2 maggio 2011, n. 9643); attesa la natura della confisca penale, l’effetto è tanto più giustificato, trattandosi di atto col quale lo Stato acquisisce senza corrispettivo i beni, a fini di contrasto alla criminalità.

La confisca costituisce, quindi, un modo di acquisto della proprietà a titolo originario (pur quando la specifica disciplina possa prevedere alcune forme e tecniche di tutela del creditore munito di garanzia reale sul bene confiscato), con la conseguente applicabilità della relativa disciplina.

3.3. – In virtù della natura pubblicistica della confisca, per la cui adozione è negata qualsiasi discrezionalità, lo Stato succede ex lege nella titolarità dei beni, dopo l’accertamento del reato.

Si opera, mediante la confisca, la perdita in capo al condannato non solo dell’amministrazione e della disponibilità della partecipazione sociale, ma della proprietà di questa.

La condizione giuridica del bene confiscato muta, in ragione della “impronta rigidamente pubblicistica” che dovrà caratterizzare la condizione giuridica e la destinazione dei beni confiscati (Cons. Stato, sez. III, 5 febbraio 2020, n. 926; id., 31 ottobre 2019, n. 7474; id., 10 aprile 2019, n. 2364, con riguardo al D.Lgs. n. 159 del 2011, artt. 45,47 e 48; Cons. Stato, sez. IV, 14 gennaio 2011, n. 185; Cons. Stato 7 aprile 2010, n. 1990). Del pari, questa Corte ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie l’art. 2112 c.c. (Cass. 11 giugno 2018, n. 15085).

Il bene confiscato – nella specie, la quota rappresentativa dell’intero capitale sociale – nella confisca antimafia passa, per legge, in proprietà dello Stato e viene, del pari in forza di norme imperative di legge, gestito mediante l’ANADC, Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, con compiti specifici.

Tale ente, istituito dal D.L. 4 febbraio 2010, n. 4, convertito con modificazioni dalla L. 31 marzo 2010, n. 50, ha personalità giuridica di diritto pubblico e svolge la funzione di ausilio nella gestione dei beni, di gestione temporanea e di gestione definitiva di essi, con il compito di curarne la destinazione finale (D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 110).

In particolare, diverse sono le fasi che caratterizzano la situazione dei beni, nell’ambito delle misure adottate dal giudice penale. Nella fase del sequestro preventivo, l’Agenzia si pone quale ausiliario del giudice, soggetto alle sue direttive, nel contempo provvedendo in proprio alla gestione del bene, onde viene parificata ad un amministratore giudiziario delle quote. Nella fase della confisca che segue alla pronuncia di primo grado, l’Agenzia del pari provvede quale gestore dei beni. Nella fase, infine, della confisca definitiva, quando il bene viene posto nella titolarità dello Stato, l’Agenzia conserva però i poteri di gestione e destinazione finale del bene.

Tutto ciò, avendo il legislatore ritenuto necessario un gestore nazionale e specializzato, munito di competenze professionali ed autonomia organizzativa, al fine della gestione efficiente del bene dinamico e non reputando sufficiente la gestione ordinaria propria di un patrimonio statico (come quella tipica dell’Agenzia del demanio).

Lo Stato, allora, interviene non già quale soggetto imprenditore, che si sostituisce al precedente titolare al fine della intrapresa economica nell’ambito di un ordinario scambio di titolarità azionaria, ma solo ed unicamente al fine di evitare la disgregazione del patrimonio aziendale, per il tempo necessario a che si realizzi una delle destinazioni prefissate dal legislatore. L’interesse tutelato e’, dunque, l’ordine pubblico: ciò che rende la proprietà dello Stato e la gestione dell’Agenzia differente dalla partecipazione dello Stato nell’economia con una holding pubblica.

In forza della legislazione antimafia, l’attribuzione in proprietà della partecipazione sociale, sia essa rappresentativa di tutto o solo di parte del capitale sociale, è coattiva e strumentale allo svolgimento dei delicati compiti illustrati.

Prescindendo dall’intreccio, nelle varie fasi, tra le funzioni di ausiliario del giudice penale e quelle di ente che provvede alla gestione e destinazione dei beni mediante atti amministrativi, dal punto di vista civilistico – che qui interessa, essendo senz’altro attratte alla sfera di giurisdizione ordinaria le azioni di responsabilità proposte contro gli amministratori e i sindaci della società – la posizione dell’Agenzia può dunque essere assimilata a quella di un gestore, mentre lo Stato è il socio ex lege.

3.4. – Ne deriva che, ove il socio pubblico agisca in responsabilità contro gli amministratori ed i sindaci della società, per fatti di mala gestio od omesso controllo, si tratta dell’azione sociale proposta dal socio, di cui all’art. 2476 c.c., comma 3.

Quanto ai sindaci, l’art. 2407 c.c., rinvia, con il suo comma 3, fra l’altro, alla disposizione dell’art. 2393-bis c.c., ossia ancora una volta all’azione sociale delle minoranze; per le s.r.l., dal loro canto, l’art. 2477 c.c., comma 4, prevede che, nel caso di nomina di un organo di controllo in tale tipo societario, “si applicano le disposizioni sul collegio sindacale previste per le società per azioni”.

In sostanza, per via del combinato disposto delle norme ricordate, il socio di s.r.l. può agire contro gli amministratori e i sindaci, in nome proprio ed in favore della società, ai fini del risarcimento del danno da essi cagionato al patrimonio di questa.

Nella peculiare situazione di specie, in cui vi è stata confisca dell’intero capitale sociale come sopra ricordato, lo Stato-socio esercita l’azione di responsabilità sociale ex art. 2476 c.c., comma 3. Ed invero, la qualità di socio unico non impedisce allo Stato di assumere la posizione di socio attore, legittimato come tale dall’art. 2476 c.c., comma 3 – indipendentemente dalla percentuale di capitale posseduta – ad agire per i danni cagionati alla società.

Dal suo canto, l’azione dell’Agenzia, in talune evenienze concrete, sarà assimilabile a quella proposta da un amministratore, in nome e per conto della società, sempre ai fini della reintegrazione del patrimonio dell’ente.

L’art. 2476 c.c., contempla una fattispecie speciale di legittimazione concorrente e disgiuntiva della società e del socio in ordine alla medesima azione contro gli esponenti aziendali.

3.5. – Ne deriva che, ove gli esponenti aziendali, convenuti in giudizio con l’azione di responsabilità sociale del socio ex art. 2476 c.c., comma 3 e art. 2393-bis c.c., alleghino la corresponsabilità o la responsabilità esclusiva degli stessi soci attori, questi essendo già parti del giudizio non potranno tecnicamente esservi chiamati, ai sensi dell’art. 106 c.p.c..

Al contrario, ogni domanda – di accertamento della responsabilità esclusiva o della corresponsabilità, nonché di condanna – proposta nei loro confronti costituisce una domanda riconvenzionale, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., comma 2, da proporre a pena di decadenza nella comparsa di risposta.

Di conseguenza, ove sia stata – vuoi impropriamente autorizzata, vuoi operata spontaneamente – una chiamata in causa al fine di proporre contro le stesse parti attrici domande riconvenzionali, queste non mutano la loro natura.

Ne deriva, altresì, che ogni difesa in giudizio potrà legittimamente essere espletata dalle stesse parti attrici, mediante la difesa erariale, sin dall’inizio attuata con la proposizione della domanda a mezzo dell’Avvocatura dello Stato: sia a sostegno dell’azione di responsabilità sociale da esse proposta, sia quale difesa contro l’avversa pretesa di un coinvolgimento in corresponsabilità per i danni patiti dalla società.

Senza che, pertanto, nessun rilievo possa assumere poi la declaratoria di “contumacia” di una parte, invece nel processo presente: noto essendo che si tratta di pronuncia meramente dichiarativa, a tutela della parte stessa, che non costituisce uno status, ma si limita a dichiararlo. Onde poi, se tale accertamento si riveli fallace, la parte invece costituitasi, ossia presente nel processo, potrà esplicare normalmente tutte le sue difese, come se quella dichiarazione neppure vi fosse stata.

L’erronea dichiarazione di contumacia di una delle parti inciderà, piuttosto, sulla regolarità del processo e potrà eventualmente determinare un vizio della sentenza, deducibile in sede di impugnazione, ma solo a favore del soggetto erroneamente dichiarato contumace, qualora detta inopinata dichiarazione abbia provocato un pregiudizio allo svolgimento della sua attività difensiva (cfr. Cass. 27 febbraio 2020, n. 5408; Cass. 27 aprile 2006, n. 9649).

3.6. – Va, quindi, enunciato il seguente principio di diritto:

“In caso di azione sociale di responsabilità proposta, ai sensi degli artt. 2476 e 2407, cui rinvia l’art. 2477 c.c., comma 4, dal socio pubblico, a seguito della confisca in sede penale delle partecipazioni in una società a responsabilità limitata per reati di criminalità organizzata, la “chiamata in giudizio” della stessa parte attrice, operata dagli esponenti aziendali convenuti in giudizio, che ne alleghino la corresponsabilità per i danni cagionati alla società, non rientra nella fattispecie dell’art. 106 c.p.c., ma costituisce una domanda riconvenzionale, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., comma 2, da proporre, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta; di conseguenza, ove sia stata impropriamente autorizzata, o spontaneamente operata, una simile chiamata in causa della stessa parte attrice, la difesa in giudizio è pianamente espletata a mezzo della costituita Avvocatura dello Stato, sia a sostegno dell’azione di responsabilità sociale proposta dal socio pubblico, sia quale difesa contro l’avversa domanda riconvenzionale, non assumendo nessun rilievo l’assunta “dichiarazione di contumacia” della parte attrice, presente nel processo sin dal suo inizio”.

4. – In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

5. – Nulla sulle spese, non svolgendo difese gli intimati.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022

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