LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. CENICCOLA Raffaele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 6336/2016 R.G. proposto da:
North East Services s.p.a., in amministrazione straordinaria, in persona del Commissario Straordinario pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via F. Cesi n. 21, presso lo studio dell’Avvocato Patrizia Parenti, che la rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato Bruno Inzitari, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Cassa Centrale Banca – Credito Cooperativo del Nord Est s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Giuseppe Ferrari n. 11, presso lo studio dell’Avvocato Ignazio Castellucci, che la rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato Filippo Sartori, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto del Tribunale di Treviso depositato il 20/1/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/11/2021 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.
RILEVATO
Che:
1. Cassa Centrale Banca – Credito Cooperativo del Nord Est s.p.a. (d’ora in avanti evocata in breve come Cassa Centrale) affidava a North East Services s.p.a. (d’ora in avanti evocata in breve come NES), con due contratti (a cui aderivano, conferendo all’uopo specifico mandato a Cassa Centrale, diverse Casse Rurali Trentine e Banche di credito cooperativo del Veneto e del Friuli) stipulati in data 13 luglio 2011, l’incarico di gestire i servizi relativi alle attività di prelievo, trasbordo, scorta trasporto, custodia, contazione, trattamento e consegna valori.
2. A seguito dell’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria di NES, Cassa Centrale, qualificandosi come proprietaria, chiedeva al giudice delegato – fra l’altro e per quanto qui di interesse – la restituzione dell’ammontare delle giacenze di moneta metallica prelevate dalle sue filiali e allocate presso il caveau di *****, per il complessivo importo di Euro 930.327,90, o, in subordine, la restituzione delle monete per pari importo ovvero, in via ulteriormente subordinata, l’ammissione del credito al passivo in sede privilegiata.
Il giudice dichiarava inaccoglibile la domanda “per l’avvenuta confusione delle materialità, circostanza che non permette l’attribuzione della titolarità del denaro contante ai diversi soggetti che avanzano pretese nei confronti di NES”, e, di conseguenza, ammetteva il credito dell’istante al passivo per Euro 930.327,90, al netto del credito della procedura pari a Euro 21.900.
3. Avverso questo provvedimento proponeva opposizione Cassa Centrale chiedendo che fosse disposta la restituzione delle monete consegnate e giacenti presso il caveau di *****, per il complessivo importo di Euro 930.327,90, o, in subordine, in ipotesi di avvenuta confusione delle materialità con il patrimonio di NES, l’ammissione al passivo del medesimo importo in prededuzione ovvero, in ulteriore subordine, in chirografo.
Il Tribunale di Treviso riteneva che il contratto intervenuto fra le parti, a prescindere dalla sua qualificazione come contratto di appalto comprensivo delle diverse operazioni da compiersi oppure quale deposito regolare di cose fungibili per ciascuna delle attività previste, non fosse comunque idoneo all’acquisto della proprietà delle monete affidate, poiché la loro consegna era avvenuta senza trasferimento di tale diritto, che era rimasto in capo alla mandante in qualunque fase dei servizi resi.
La conservazione del contante alla rinfusa, che era stato trattato nella sua materialità quale oggetto dell’attività d’impresa di North East Services s.p.a. e non come bene fungibile ed era stato conservato separatamente in ben determinati depositi senza mai entrare in confusione con il patrimonio della compagine poi dichiarata insolvente, aveva determinato – a giudizio del collegio dell’opposizione – una commistione tra i denari appartenenti ai diversi clienti, con la formazione di un nuovo bene di proprietà comune, frutto dell’aggregazione di singoli beni e soggetto alla disciplina prevista dall’art. 939 c.c., comma 1, secondo periodo.
Ciascuno dei clienti, a seguito del formarsi di una comunione indivisa avente a oggetto quanto rinvenuto in tutte le sale conta, aveva perciò diritto a ottenere la restituzione di quanto affidato in proporzione con quanto rimasto.
In forza di questi argomenti il tribunale accoglieva la domanda di rivendica per Euro 273.074,36 – “nei limiti della quota proporzionalmente spettante al richiedente su quanto rinvenuto”, tenuto conto del rapporto fra quanto affidato e il totale di quanto avrebbe dovuto essere custodito da NES s.p.a. per tutti i clienti alla data di avvio della procedura -, disponendo l’ammissione allo stato passivo, in chirografo, per il credito residuo di Euro 657.253,54.
4. Ricorre per cassazione avverso questa pronuncia NES s.p.a. in amministrazione straordinaria al fine di far valere quattro motivi di impugnazione, ai quali resiste con controricorso Cassa Centrale.
Le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
CONSIDERATO
Che:
5. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1178,1378 c.c., art. 1465 c.c., comma 3 e art. 1277 c.c., “per aver (il Tribunale: n.d.r.) ritenuto sussistente il requisito di rivendicabilità in relazione a una somma di denaro”, nonché la violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 93,103,52 e 111, “per aver qualificato come diritto di proprietà costituente titolo per rivendica il diritto alla ricezione di una somma di denaro, costituente obbligazione generica e fungibile, quale l’obbligazione avente oggetto una somma di denaro determinata nel suo ammontare numerico”.
In tesi di parte ricorrente il giudice di merito avrebbe erroneamente ammesso una domanda di rivendica senza avvedersi che una simile richiesta non poteva essere rivolta rispetto a cose fungibili non più individuabili ed era ammissibile solo con riguardo a diritti reali su beni, mobili e immobili, individuati per specie, mentre per le cose di genere era configurabile soltanto un diritto di credito per il tantundem.
L’azione di rivendica sarebbe, infatti, connaturale al diritto di proprietà ed avrebbe per presupposto il fatto che il titolare del diritto sia privato del possesso della cosa, mentre su una somma di denaro non sarebbe configurabile una controversia sulla proprietà o sul possesso.
6. Il motivo non è fondato.
6.1 In merito all’esperibilità dell’azione di rivendica L. Fall., ex art. 103, rispetto a cose fungibili esiste un orientamento della giurisprudenza di questa Corte (si vedano in proposito Cass. 352/1999, Cass. 12718/2001, Cass. 10206/2005, Cass. 9623/2010, Cass. 30894/2017, Cass. 1891/2018) che, facendo richiamo a due pronunce non recenti (Cass. 1200/1984 e Cass. 4262/1990), ritiene inammissibile la domanda di rivendica L. Fall., ex art. 103, perché una simile richiesta presuppone la proprietà della cosa rivendicata, mentre per le cose fungibili non si avrebbe trasferimento della disponibilità materiale del bene senza trasferimento della proprietà; nel contempo non sarebbe neppure possibile alcuna specifica individuazione dell’oggetto della domanda di recupero, poiché la naturale consistenza dei beni fungibili consentirebbe una loro indicazione solo per genere e, di conseguenza, la configurabilità soltanto di un diritto di credito.
Questo approdo è stato però superato, criticamente, dal diverso opinamento di altre decisioni (cfr. Cass. 10031/1997, Cass. 4943/1999 e Cass. 7878/2006) che hanno invece ritenuto la domanda di rivendica ammissibile anche rispetto a beni fungibili, perché il passaggio di proprietà in favore di chi riceve gli stessi non è conseguenza indefettibile della consegna e dipende della facoltà di servirsene.
A questo secondo filone interpretativo – per il vero mai motivatamente contrastato dalle decisioni che, anche in epoca successiva, hanno ritenuto di aderire, acriticamente, al primo orientamento – questa Corte ritiene di dover dare continuità.
6.2 L’equivoco di fondo in cui cade la tesi che propugna l’impossibilità di rivendicare beni fungibili sta nel ritenere che una simile domanda sia funzionale alla restituzione dei medesimi beni consegnati e già appartenenti al depositante, cosa che sarebbe incompatibile con la peculiare natura del bene.
E tale impossibilità di distinzione del bene fungibile determinerebbe il suo passaggio nella proprietà di chi lo riceve, con obbligo di restituzione dell’equivalente.
In questa prospettiva la rivendica, dovendo essere funzionale “alla restituzione proprio di quei pezzi monetari originariamente consegnati”, sarebbe inesperibile laddove non vi sia alcuna possibilità di ricevere le stesse, identiche monete consegnate in entrata e dovrebbe essere esercitata domandando non una somma di denaro indicata per il suo importo numerico, ma precisando la pezzatura e fornendo ogni indicazione utile all’individuazione dei denari reclamati. L’assunto non trova però conforto nel dato normativo dell’art. 1782 c.c. – secondo cui “se il deposito ha per oggetto una quantità di denaro o di altre cose fungibili, con facoltà per il depositario di servirsene, questi ne acquista la proprietà…..” – che espressamente fa discendere l’acquisto della proprietà del denaro o delle cose fungibili dall’attribuzione al depositario della possibilità di servirsene. Dunque, come giustamente già osservava Cass. 10031/1997, “il passaggio della proprietà dal depositante al depositarlo non costituisce una conseguenza indefettibile della fungibilità delle cose depositate, poiché tale effetto si realizza solo se al depositario è concessa (anche) la facoltà di servirsi di tali beni nel proprio interesse: in tal caso il deposito viene ad assolvere anche una funzione di credito nell’interesse del depositarlo e questo spiega perché a tale contratto si applichino, in quanto compatibili, le norme sul mutuo (art. 1782 c.c., comma 2).
E’ perciò la conformazione concreta del titolo che regola la consegna del bene e non la natura fungibile dello stesso a determinare il passaggio di proprietà in capo al depositario.
Ove non sia pattuita la facoltà d’uso (o non sia espressamente previsto dalla legge il passaggio della proprietà, come avviene nel caso dell’art. 1834 c.c.), il deposito del denaro o di altre cose fungibili non può che avere natura regolare e il depositario, impossibilitato a servirsi della cosa depositata a mente dell’art. 1770 c.c., comma 1, non ne diventa proprietario, in mancanza della condizione necessaria perché l’acquisto avvenga.
La natura fungibile del bene non è di ostacolo poi alla restituzione, che deve avvenire – secondo l’art. 1766 c.c. – “in natura”, dizione che va intesa nel senso che il depositario non è tenuto a restituire proprio le stesse cose (idem corpus) ma cose dello stesso genere, qualità e quantità.
Ciò in quanto le precipue caratteristiche della fungibilità rendono irrilevante riferire la proprietà individuale a cose determinate, dato che nel novero dei beni fungibili – che pondere, numero, mensura consistunt e si caratterizzano per poter essere sostituiti indifferentemente con altri di identica quantità e genere – non vi è un interesse ad averne proprio uno in particolare.
Ed è proprio la mancanza di un qualsiasi tornaconto a ricevere in restituzione proprio l’identico bene di genere consegnato che fa sì che allo scopo di descrivere – come previsto dalla L. Fall., art. 93, comma 3, n. 2 – la res rivendicata nella sua specifica e precisa individualità sia sufficiente che la rivendica del bene fungibile rimasto nella proprietà dell’istante indichi il genere, la qualità e la consistenza delle cose consegnate a titolo di deposito regolare, non passate in proprietà del depositario e delle quali questi è tenuto alla restituzione “in natura”.
6.3 Il decreto impugnato accompagna “l’inquadramento della domanda”, in termini di inidoneità dello stesso all’acquisto della proprietà dei beni consegnati, all’esame, immediatamente successivo, della questione relativa “alla pretesa confusione che renderebbe impossibile la restituzione delle materialità”.
Lo sviluppo del processo argomentativo evidenzia chiaramente come, secondo il collegio di merito, né il titolo che reggeva la consegna delle monete, né il modo con cui le stesse erano state prese in consegna e conservate consentissero di ritenere che la proprietà dei denari fosse passata in capo al depositario (o, se si preferisce, come la mancanza della facoltà di disporre delle monete non fosse stata poi superata e vanificata dalle modalità con cui le stesse erano state conservate, che erano state tali da impedire il passaggio di proprietà mantenendola in capo al depositante).
Questo secondo corno del ragionamento non può che essere vagliato tenendo presente – e fermo, stante l’insindacabilità del giudizio in questa sede di legittimità – l’accertamento di fatto compiuto dal Tribunale; accertamento secondo cui la conservazione della proprietà dei beni prevista dal titolo trovava giustificazione nella mantenuta separazione del denaro conferito da quello del depositario, in ragione della custodia dell’ammasso dei valori dei clienti all’interno di “ben determinati depositi”, dove “non sono mai entrati in confusione col patrimonio di NES”, e con l’accentramento finale in un unico caveau (venendosi così a formare quello che antica dottrina avrebbe definito come un “mucchio determinato”).
Siffatte modalità di conservazione delle monete consentivano la rivendica.
La rivendica delle cose di genere è infatti senz’altro possibile, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 4813/2011), ove, in assenza di un titolo comportante il trasferimento della loro proprietà, ci si trovi in presenza di un fatto idoneo a determinarne l’individuazione e ad impedirne la confusione nel patrimonio del fallito: si viene così a creare un’entità di riferimento materialmente riconoscibile e perciò separabile dalla massa indistinta dei beni del medesimo genere secondo le modalità riconosciute dal nostro ordinamento.
“Ne’ v’e’ ragione, per questo proposito, per trattare differentemente dalle altre (cose di genere) la “cosa” danaro” (Cass. 28097/2018).
Allo stesso modo non può reputarsi di ostacolo alla rivendica il fatto che le cose, pur mantenendo la netta separazione dai beni del depositario, siano state fisicamente mescolate insieme ad altre dello stesso genere appartenenti a differenti soggetti e non siano più riconoscibili nell’ambito del mucchio, distinto, in cui le stesse sono state raccolte.
Questa particolare forma di custodia non compromette l’individuazione, ma comporta semplicemente che la stessa venga predicata rispetto al raggruppamento isolato di beni in cui sono confluite le cose del depositante, mescolandosi con beni omogenei di altri ma mantenendo una propria singolarità d’insieme ben distinta dalla generalità dei beni della stessa natura.
Lo spostamento dell’individuazione dalle cose di genere appartenenti al depositante al gruppo isolato e distinto di beni omogenei in cui le stesse sono confluite implica soltanto che la restituzione sia assoggettata alle regole proprie di questo raggruppamento (come si dirà da qui a breve trattando della disciplina prevista dall’art. 939 c.c.).
7. Il secondo mezzo assume la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., per avere la decisione impugnata pronunciato oltre i limiti della domanda formulata dall’opponente: il Tribunale, a dispetto dell’implicito accertamento dell’inesistenza della res rivendicata all’interno del patrimonio della procedura, avrebbe operato, in violazione del principio di necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato, un arbitrario ed unilaterale adattamento proporzionale del credito fatto valere a una domanda di rivendica che poteva essere accolta soltanto per l’intero o per la parte rinvenuta, ma non in percentuale, tanto meno per una percentuale stabilita dallo stesso giudice dell’opposizione.
Il collegio di merito, nell’assumersi il compito di quantificare il denaro trovato nei caveaux e dell’ammontare delle somme che lì avrebbero dovuto essere custodite, avrebbe svolto incombenze che non gli competevano, tenendo conto peraltro di dati parziali e non decisivi, e nel contempo non avrebbe considerato un fatto decisivo e discusso fra le parti, costituito dall’assenza di monete metalliche nel caveau di *****.
8. Il motivo risulta in parte infondato, in parte inammissibile.
8.1 Si è già detto come sia sufficiente che la domanda di rivendica di un bene fungibile di proprietà dell’istante indichi il genere, la qualità e la quantità delle cose pretese, non necessitando invece di alcuna indicazione di tratti specificamente identificativi dei beni già consegnati, dato che la restituzione non deve avvenire tramite la riconsegna dei medesimi.
Ne discende che la rivendica di denaro non può che essere formulata in termini sostanziali di pretesa pecuniaria, seppur a titolo di richiesta di restituzione di somme rimaste in proprietà del richiedente piuttosto che di partecipazione al concorso in ragione di un’obbligazione pecuniaria esistente in capo al fallito.
Nessun vizio di ultrapetizione può perciò essere ravvisato nel provvedimento impugnato in questa sede, con cui il Tribunale, a fronte della richiesta di restituzione di denaro per Euro 930.327,90, ha accolto parzialmente la domanda di rivendica disponendo la restituzione di una quantità di denaro corrispondente a Euro 273.074,36.
8.2 La domanda di rivendicazione presentata ai sensi della L. Fall., art. 103, è volta, in linea generale, non a riconoscere il diritto dell’istante alla partecipazione al concorso (come accade invece per l’insinuazione del creditore del fallito, il quale vuole una corretta individuazione del suo diritto di credito e una soddisfazione dello stesso nel rispetto della par condicio creditorum), ma intende sollecitare una corretta individuazione del diritto di proprietà su beni che, in quanto appartenenti al ricorrente, al momento di avvio della procedura concorsuale erano soltanto nella disponibilità materiale del fallito ma non facevano parte del suo patrimonio e dunque non devono essere ricompresi nell’attivo concorsuale.
Nel caso di specie il tribunale ha accertato l’esistenza di un nuovo bene di proprietà comune formato dall’aggregazione dei singoli beni, ha ritenuto che non fosse applicabile il disposto dell’art. 939 c.c., comma 1, primo periodo e, di conseguenza, ha concluso, a mente del successivo periodo della norma, che “la proprietà della massa rinvenuta diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti a ciascuno” (pag. 16).
Ciò posto, risulta accertato che la procedura di amministrazione straordinaria abbia di fatto acquisito al proprio attivo i denari rinvenuti nei caveaux, dato che ha “provveduto all’immediato blocco di qualsiasi restituzione di somme, subordinando tale restituzione alla domanda di ammissione al passivo da formularsi nei modi e nei termini di cui al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 53 e L. Fall., art. 103” (pag. 14).
In questo modo NES, rifiutando la restituzione, ha negato il diritto di proprietà dei rivendicanti e, in coerenza con un simile contegno, ha sviluppato difese che nella sostanza individuavano nella procedura l’unico proprietario dei denari.
A fronte di una simile situazione deve essere riconosciuta al soggetto che assuma in sede concorsuale di essere comproprietario dei denari rinvenuti, come sopra accertato, la medesima tutela che l’ordinamento attribuisce in via generale al comproprietario, il quale ha diritto tanto di esercitare l’azione di rivendicazione nei confronti di chi assuma di essere proprietario esclusivo del medesimo bene, quanto di domandare lo scioglimento della comunione ex art. 1111 c.c..
Le due tutele convergono in sede fallimentare nella domanda di rivendica di cui alla L. Fall., art. 103, con la quale – anche ora, benché l’attuale testo della norma non faccia più riferimento, oltre che alla rivendicazione, anche alla separazione, come avveniva invece prima della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 5 del 2006 – il comproprietario è abilitato a contestare l’inclusione del bene nella massa attiva della procedura e chiederne la restituzione per la porzione di sua spettanza.
Il giudice delegato alla procedura, nel momento in cui ordina la restituzione del bene divisibile per quanto di spettanza, accoglie entrambe le pretese e dispone, in via implicita e correlata al riconoscimento del diritto di comproprietà, lo scioglimento della comunione e l’assegnazione del bene acquisito all’attivo in misura pari alla quota il cui l’istante è titolare.
E’ dunque ammissibile la domanda di rivendicazione del bene di proprietà comune di cui il rivendicante si assuma esclusivo proprietario in proporzione alla quota vantata; la determinazione della consistenza di tale quota costituisce poi una qualificazione della domanda, imprescindibile per il suo accoglimento, e non una sua alterazione.
8.3 Non è neppure possibile sostenere che il collegio dell’opposizione non abbia tenuto in adeguata considerazione, nel vagliare la domanda di restituzione di un ammontare di monete metalliche indicate per taglio e numero di pezzi, il fatto che presso il caveau di ***** non erano presenti monete metalliche alla data di apertura della procedura concorsuale.
La doglianza, infatti, non è accompagnata dall’indicazione del “come” e del “quando” un simile fatto storico fosse stato oggetto di discussione processuale tra le parti (Cass., Sez. U., 8053/2014); né è convenientemente illustrata la decisività del fatto di cui si denuncia l’omesso esame, ove si consideri che il Tribunale ha espressamente accertato (a pag. 14) che i valori rinvenuti erano stati da ultimo accentrati presso il caveau di *****.
9. Con il terzo motivo il decreto impugnato è censurato per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1367 c.c., “per aver interpretato il contratto come deposito regolare anche in mancanza di individuazione dei beni fungibili custoditi”, nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 1378,1177,1766 e 1782 c.c., “per avere il Giudice erroneamente applicato la disciplina del deposito regolare e della custodia di cose determinate rispetto a un contratto atipico con i caratteri dell’appalto di servizi” in cui l’obbligazione di custodia risultava accessoria e configurabile solo a seguito dell’individuazione dei beni fungibili oggetto del contratto.
Il tribunale, pur accertando che la fattispecie contrattuale era da ricondurre a un appalto di servizi, avrebbe contraddittoriamente attribuito valore predominante ed essenziale – a dire del ricorrente all’obbligazione di custodia e, di conseguenza, avrebbe ritenuto di applicare la disciplina del deposito regolare, trascurando di valutare adeguatamente la natura del bene oggetto del contratto.
Una corretta interpretazione del contratto avrebbe dovuto piuttosto valorizzare il suo vero elemento fondante, costituito dal servizio di lavorazione del contante (con trasformazione del denaro grezzo in denaro lavorato), rispetto al quale la custodia costituiva una prestazione meramente accessoria e comunque ipotizzabile in senso tecnico, ai sensi dell’art. 1177 c.c., soltanto in quelle fasi di gestione in cui il denaro fosse stato individuato ex art. 1378 c.c.; l’attività di NES non poteva invece ricondursi alla funzione del mero depositario, tenuto conto in particolare che la stessa non era tenuta a restituire in natura a Cassa Centrale il denaro raccolto presso le singole banche aderenti al servizio.
Oltre a ciò, il decreto impugnato avrebbe erroneamente ritenuto inapplicabile l’art. 1782 c.c., in materia di deposito irregolare, poiché, anche in caso di mancata previsione della facoltà d’uso, la permanenza della proprietà in capo al depositante verrebbe comunque meno ogniqualvolta i beni possano essere confusi con altri dello stesso genere del depositario; nel caso di specie l’attività di lavorazione del contante, come pure il potere di disposizione e consumazione esercitato sul medesimo da NES, avrebbe prodotto l’effetto traslativo e il mutamento del diritto reale su una res in un diritto di credito, rimanendo così preclusa l’applicabilità dell’art. 939 c.c., a un bene fungibile come il denaro e a un’attività di trasformazione quale quella esercitata da NES.
10. Il motivo risulta in parte infondato, in parte inammissibile.
Dagli argomenti in precedenza illustrati discende che il passaggio di proprietà in capo al consegnatario del denaro dipende dalla natura del contratto, per come accertata e qualificata dal giudice di merito, e dal contenuto dell’accordo negoziale funzionale al perseguimento della volontà delle parti.
Nel caso di specie il giudice di merito, nel qualificare il contratto, non si è spinto fino a scegliere fra “contratto di appalto comprensivo di tutte le diverse operazioni richieste” e “deposito regolare di cose fungibili per ciascuna delle attività richieste”, ma si è limitato a constatare che il negozio, comunque, “non era certamente idoneo all’acquisto della proprietà dei beni consegnati” (pag. 6).
Ciò per due concorrenti ragioni, in quanto: 1) l’attività di custodia costituiva il necessario presupposto per lo svolgimento di tutte le altre operazioni (di prelievo, trasporto, conta e trattamento di valori); 2) la consegna dei valori, stando alla volontà espressa dai contraenti, avveniva senza trasferimento della proprietà che “in qualunque fase dei servizi resi, rimaneva in capo alla Banca” (pag. 5), di modo che “l’affidatario non aveva titolo per acquistarne la proprietà” (pag. 6).
Dunque, a giudizio del collegio dell’opposizione la circostanza che il denaro consegnato dai clienti non venisse “in rilievo come bene fungibile, bensì come oggetto dell’attività di impresa di NES” e fosse “trattato nella sua materialità senza alcun riferimento al suo potere di acquisto”, tanto da essere custodito in ben determinati depositi e mai entrare in confusione con il patrimonio di NES, caratterizzava “la fattispecie differenziandola da qualsiasi altro caso in cui il denaro entra nel patrimonio del soggetto fallito” (pag. 14).
Una simile attività interpretativa non si presta a censure per violazione dei canoni ermeneutici.
E’ ben vero che il giudice di merito è chiamato a svolgere detta attività senza attribuire all’elemento letterale un assoluto carattere prioritario, poiché il richiamo nell’art. 1362 c.c., alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici contenuti all’interno del contratto (Cass. 16181/2017).
Pertanto, sebbene la ricostruzione della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell’interpretazione letterale delle clausole, assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi altresì conto del loro comportamento successivo (Cass. 20294/2019).
L’attività interpretativa svolta dal tribunale si è però attenuta a questi criteri, dato che il collegio dell’opposizione ha valorizzato l’elemento letterale (dei contratti di servizi conclusi fra Cassa Centrale e NES) ritenendolo coerente con la comune intenzione delle parti, evincibile dal nucleo fondante della struttura negoziale, e con la condotta tenuta in seguito dalle stesse.
La chiarezza e l’univocità della volontà comune dei contraenti ravvisate da collegio di merito, tali da consentire di escludere ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, faceva sì che l’operazione ermeneutica dovesse ritenersi utilmente compiuta senza che fosse necessario far ricorso ai criteri interpretativi sussidiari, il cui intervento si giustifica solo nel caso in cui siano insufficienti i criteri principali (Cass. 19357/2013).
E’ poi inammissibile ogni argomento che propugni l’avvenuta materiale mescolanza del patrimonio di NES con quello dei suoi clienti sulla scorta di una diversa ricostruzione in fatto della vicenda in esame, dato che il giudice di merito, con accertamento insindacabile in questa sede, ha escluso, con nettezza e reiteratamente, una simile evenienza.
E’ poi inammissibile ogni argomento che trovi fondamento su una diversa ricostruzione in fatto della vicenda in esame e propugni l’avvenuta materiale mescolanza del patrimonio di NES con quello dei suoi clienti, dato che il giudice di merito, con accertamento insindacabile in questa sede, ha escluso, con nettezza e reiteratamente, una simile evenienza.
Risulta altrettanto inammissibile ogni profilo di critica volto a manifestare un disaccordo con l’interpretazione offerta dal Tribunale, posto che l’attività ermeneutica è riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni normativi in materia o per vizio di motivazione.
11. Il quarto motivo di ricorso prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1378 e 1705 c.c., artt. 21 e 22 T.U.F. e art. 91 T.U.B., “per avere il giudice erroneamente interpretato la disciplina speciale della separazione patrimoniale prescritta per gli intermediari finanziari facendone applicazione al caso di specie pur avendone affermato l’inapplicabilità”, nonché l’omessa valutazione dei fatti decisivi, costituiti dall’assenza di individuazione del denaro presso le sale conta di NES” e dall’intervenuta sottrazione del denaro” presso le medesime.
In particolare, il tribunale, pur avendo riconosciuto che la normativa in tema di segregazione patrimoniale delle società di intermediazione mobiliare e delle fiduciarie non è applicabile per analogia al caso di specie, avrebbe comunque individuato dei patrimoni autonomi e fatto ricorso all’art. 939 c.c., sulla base di un assunto del tutto errato in fatto, non essendosi mai realizzata e/o mantenuta alcuna autonomia di patrimoni dei clienti rispetto al patrimonio di NES.
Il provvedimento impugnato – assume la ricorrente – avrebbe fatto erronea applicazione dell’art. 939 c.c., a una somma di denaro che, quale bene per antonomasia fungibile, non può cadere in comunione ove si confonda con altro denaro appartenente a chi lo riceve, né è passibile di rivendica ai sensi della L. Fall., art. 103.
Nel contempo il tribunale avrebbe errato nel non ritenere applicabile il disposto dell’art. 940 c.c., in quanto la trasformazione del denaro grezzo in moneta idonea a essere messa in circolazione, quale contante libero da falsi e logori, comportava l’acquisto da parte dell’artefice della res nova trasformata a titolo originario, con obbligo di risarcimento del danno per l’atto illecito con cui questi si era impadronito della cosa altrui.
12. Il motivo risulta in parte infondato, in parte inammissibile.
12.1 A seguito della qualificazione della volontà contrattuale il giudice di merito ha acclarato che “la conservazione dei valori alla rinfusa ha certamente determinato una commistione tra i valori dei diversi clienti” (pag. 13); tuttavia “i valori rinvenuti erano custoditi in ben determinati depositi e, anche dopo l’apertura della procedura, non sono mai entrati in confusione con il patrimonio di NES” (pag. 15 del provvedimento impugnato).
La conservazione dei valori alla rinfusa ha perciò interessato i valori dei diversi clienti, determinandone la materiale mescolanza; questa condizione, però, non ha mai coinvolto anche i beni appartenenti a NES.
A seguito di questo duplice accertamento in fatto, insindacabile in questa sede di legittimità, il tribunale ha correttamente applicato la disciplina in tema di commistione prevista dall’art. 939 c.c., dato che la norma trova applicazione nel caso in cui vi sia stata mescolanza di beni appartenenti a più persone “in guisa da formare un sol tutto” e, dunque, si sia creata un’aggregazione materiale di cose mobili confluite in unico raggruppamento all’interno del quale non sia possibile il loro discernimento, separabili senza notevole deterioramento.
“Sol tutto” che nel caso di specie era il risultato – stando all’accertamento compiuto dal giudice di merito – della conservazione alla rinfusa dei valori dei vari clienti all’interno dell’unico caveau in cui gli stessi erano stati accentrati.
12.2 La questione relativa alla riconduzione della fattispecie al disposto dell’art. 940 c.c., non risulta, da un esame del provvedimento impugnato e del motivo di ricorso, esser mai stata sottoposta al vaglio del collegio dell’opposizione.
Il che comporta l’inammissibilità di tale profilo di doglianza, posto che è principio costante e consolidato di questa Corte (cfr., fra molte, Cass. 7048/2016, 8820/2007, 25546/2006), che trova applicazione anche in materia di opposizione allo stato passivo (Cass. 22006/2017), che nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini e accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito (nel caso di specie l’accertamento dell’avvenuta trasformazione della materia altrui in una cosa nuova per opera dell’uomo).
13. In conclusione, in forza dei motivi sopra illustrati, il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 12.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 17 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022