Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.198 del 05/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22334/2017 proposto da:

Fallimento n. ***** della ***** S.r.l. in Liquidazione, in persona del curatore avv. G.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Aquileia n. 12, presso lo studio dell’avvocato Morsillo Andrea, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

P.C., D.C., elettivamente domiciliati in Roma, Via Cola di Rienzo n. 149, presso lo studio dell’avvocato Gonnella Giulio, che li rappresenta e difende, unitamente all’avvocato Spalma Alessio, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3497/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 07/10/2021 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 25 maggio 2017 la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza n. 1232/2009 del Tribunale di Tivoli, depositata il 26.08.2009, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dal Fallimento ***** s.r.l. in liquidazione nei confronti di P.C., titolare del 50% delle quote nonché amministratrice della società fallita, e del figlio D.C., titolare dell’altro 50% delle quote della predetta società.

Il giudice di secondo grado ha evidenziato che, posto che sarebbe stato onere del fallimento precisare da quale specifico comportamento gestorio dell’amministratrice successivo al verificarsi della causa di scioglimento fosse derivato un danno alla società, nel caso di specie le allegazioni della curatela si erano palesate del tutto generiche e non precisate sotto il profilo degli specifici atti di gestione compiuti e della loro idoneità a generare ulteriore debito aziendale.

In ordine alla posizione di D.C., la Corte d’Appello ha osservato che gli addebiti mossi dal fallimento riguardavano l’attività propria dell’amministratrice e non del socio, che non aveva la responsabilità della gestione societaria.

Ha proposto ricorso per cassazione il Fallimento ***** s.r.l. in liquidazione affidandolo a tre motivi.

P.C. e D.C. hanno resistito in giudizio con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione alla mancata osservanza del principio dell’inversione dell’onere della prova.

Espone la curatela che se è pur vero che, in linea di principio, spetta al curatore dimostrare il singolo atto gestorio compiuto, il danno ed il nesso eziologico tra condotta e danno, vi e’, tuttavia, un’inversione dell’onere della prova in caso di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, che trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare che l’amministratore che non consenta la ricostruzione dei movimenti contabili della società a causa della violazione da parte dello stesso degli obblighi di legge possa trarre vantaggio dalla propria condotta illecita.

Nel caso di specie, la documentazione contabile rinvenuta dal curatore (elenco fornitori, stato patrimoniale e conto economico relativi al 31.12.2006, senza consegna dei documenti e libri sociali obbligatori) era del tutto inidonea a dimostrare i singoli atti gestori, il danno ed il nesso di causalità, come del resto accertato dal consulente tecnico d’ufficio nominato in secondo grado. Tale circostanza non è stata minimamente presa in considerazione dal giudice d’appello, che inoltre non ha tenuto conto che, come allegato in atto di citazione, la società aveva continuato ad operare dopo il verificarsi della causa di scioglimento, generando nuovi debiti insorti tra il maggio 2005 e i primi mesi 2006, con violazione del dovere di continuare la gestione della società al solo fine della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, come prescritto dall’art. 2486 c.c..

2. Con il secondo motivo è stato dedotto l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e, in particolare, la mancata disamina dei fatti decisivi volti a dimostrare la responsabilità del socio D. a norma dell’art. 2476 c.c., comma 7.

Espone la curatela che il giudice d’appello non ha considerato che il socio aveva omesso l’esercizio dei poteri di controllo nei confronti della madre, prendendo parte attiva alla gestione societaria ed alle scelte di amministrazione, desumendosi ciò dalla ristrettissima base familiare della società (madre e figlio unici soci) e dal fatto che la gestione della società era familiare, essendo il D. unico collaboratore e non essendovi mai stati dipendenti.

3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 2485 e 2486 c.c., per non avere la Corte d’Appello ritenuto l’amministratrice responsabile nonostante l’insorgenza di una causa di scioglimento ed il compimento di comportamenti gestori non atti alla mera tutela del capitale sociale.

Espone la curatela che, come accertato dal giudice di primo grado, l’attività della società poi fallita nell’esercizio 2005 non è stata destinata a scopi meramente conservativi del patrimonio sociale, essendo state acquistate merci per un valore di Euro 578.364 e servizi (pubblicitari) per Euro 40.654,00, importo quasi doppio rispetto all’esercizio precedente, non pagate in gran parte. Peraltro, risultano al 31.12.2005 rimanenze di materie prime (magazzino) per Euro 230.112,00 che non sono state rinvenute dalla curatela, né risultano cedute alla società che il sig. D. ha intrapreso nel 2006 nei locali che ospitavano la società fallita.

3. Il primo ed il terzo motivo, da esaminarmi unitariamente, avendo ad oggetto questioni strettamente connesse, sono fondati nei termini di seguito illustrati.

Va premesso che, a norma dell’art. 2486 c.c., comma 1, al verificarsi di una causa di scioglimento della società e fino alla sua messa in liquidazione, gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale e, a norma del comma 2, gli stessi sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi per atti o omissione in violazione del precedente comma.

Dunque, le condizioni della azione di risarcimento danni nei confronti degli amministratori, riconducibile all’attività da essi posta in essere dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, sono il compimento, dopo tale evento, di atti di gestione non aventi una finalità meramente conservativa del patrimonio sociale (liquidatoria), il danno ed il nesso di causalità tra condotta e danno.

In ordine al primo requisito, va osservato che questa Corte ha specificamente affrontato la questione degli oneri di allegazione e probatori relativi alla violazione dell’obbligo dell’amministratore, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, di porre in essere solo operazioni di natura conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio nella pronuncia n. 2156/2015, nella quale è stato perentoriamente affermato che la sentenza che ponga a carico della curatela l’onere di dimostrare l’assenza della finalità liquidatoria degli atti posti in essere dagli amministratori incorre nella violazione del precetto legale sulla ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., ed è come tale censurabile in Cassazione per violazione di legge.

E’ stato, in particolare, osservato che la parte che agisce in giudizio (la curatela) ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuta, invece, a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria. Spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari.

Non vi è dubbio che il compimento da parte dell’amministratore, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, di atti non aventi una finalità liquidatoria dia luogo a quell’inadempimento astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento, prima condizione richiesta per l’affermazione della responsabilità dell’amministratore (Cass. S.U. n. 9100/2015).

Con riferimento agli altri due elementi (danno e nesso di causalità tra condotta dell’amministratore e danno), va osservato che questa Corte, già con la sentenza n. 17033 del 23/06/2008, aveva enunciato il principio di diritto secondo cui, in caso di azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società per violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni (a norma dell’art. 2449 previgente c.c.) – nozione che è speculare a quella di atto finalizzato alla conservazione del valore e del patrimonio della società a norma dell’attuale formulazione dell’art. 2486 c.c. – a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., non può liquidarsi il danno, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività, poiché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell’attività medesima, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.

Tale conclusione è stata ripresa dalla già richiamata sentenza delle sezioni unite n. 9100/2015, che, seppur in una fattispecie diversa (non riconducibile alla violazione degli obblighi di cui all’art. 2486 c.c.) in cui il giudice di merito aveva addossato all’amministratore l’intero deficit patrimoniale della società a causa del mancato rinvenimento delle scritture contabili (che avrebbe impedito la ricostruzione dei movimenti contabili), ha ribadito il concetto che non possono farsi gravare sull’amministratore quelle passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, dato che questa non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni costo legato all’esistenza della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate dalla cessazione dell’attività di impresa. Ciò posto, la sentenza n. 9100/2015, se, da un lato, non ha certo avallato quegli orientamenti giurisprudenziali (citati dalla curatela) diretti ad affermare, in ipotesi di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, il principio dell’inversione dell’onere della prova, dall’altro, ha statuito che, ove la mancanza (o irregolare tenuta) delle scritture contabili renda difficile per il curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c., e perciò chiedere al giudice di provvedere ad una liquidazione del danno in via equitativa.

E’ stato quindi enunciato il principio di diritto secondo cui è consentito l’utilizzo del criterio equitativo per la liquidazione del danno purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore, e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Esaminando a questo punto il caso di specie, va osservato che la Corte d’Appello di Roma, dopo aver premesso che è onere del fallimento precisare da quale specifico comportamento gestorio dell’amministratrice successivo al verificarsi della causa di scioglimento sia derivato un danno alla società, ha ritenuto che le allegazioni della curatela si erano palesate del tutto generiche e non precisate sotto il profilo degli specifici atti di gestione compiuti dall’organo di amministrazione e della loro idoneità a generare ulteriore debito aziendale.

In tal modo, la Corte d’Appello ha senza dubbio disatteso il principio (sopra illustrato) enunciato dalla sentenza di questa Corte n. 2156/2015 – cui questo Collegio intende dare continuità – non avendo considerato che, di fronte all’allegazione della curatela relativa al compimento, da parte dell’amministratore, successivamente al verificarsi della causa di scioglimento della società, di atti (aventi senz’altro natura negoziale) produttivi di nuovi debiti (per l’importo di Euro 400.000 nel periodo tra il maggio 2005 ed il gennaio 2006), sarebbe stato onere dell’amministratore provare che gli atti in oggetto non fossero espressione della normale attività di impresa, ma avessero una natura meramente liquidatoria.

D’altra parte, gli stessi controricorrenti (pagg. 27 e 28 del controricorso) hanno dato atto che la società ha acquistato anche nell’esercizio 2005 (quando si era già verificato l’azzeramento del capitale sociale) nuove merci destinate alla vendita e servizi pubblicitari destinati alla diffusione delle offerte commerciali, limitandosi ad osservare che comunque anche negli esercizi precedenti erano stati investiti i medesimi importi.

In proposito, va evidenziato come la deduzione dei signori P. – D., secondo cui dall’esame dei bilanci relativi agli anni precedenti al 2005 si evincerebbe che le operazioni contestate venivano compiute dalla società sistematicamente ogni anno, sia assolutamente inidonea ad evidenziare la natura meramente conservativa delle stesse, apparendo piuttosto idonea a suffragare la tesi della curatela secondo cui, nonostante si fosse verificata una causa di scioglimento della società, quest’ultima, noncurante, aveva continuato ad operare con le stesse modalità operative del passato.

5. Il secondo motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che, per accertare la responsabilità del socio, a norma dell’art. 2476 c.c., comma 7, è necessario che il suo comportamento si connoti in termini di “intenzionalità”, occorrendo fornire la prova della volontà del socio cogestore di porre in essere atti di amministrazione dannosi per la società, i soci o terzi o, quantomeno, della piena consapevolezza del socio della contrarietà dell’atto di gestione a norme di legge o dell’atto costitutivo o ai principi di corretta amministrazione, con la conseguente accettazione del rischio delle sue possibili conseguenze dannose.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello, con una valutazione di merito non sindacabile in sede di legittimità, se non a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha ritenuto il socio D. estraneo alla gestione societaria della fallita.

Peraltro, la ricorrente, con l’apparente deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha, in realtà, svolto censure di merito, in quanto finalizzate ad una diversa valutazione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello.

Infatti, in primo luogo, il giudice di primo grado era ben consapevole della base familiare della società fallita, avendo evidenziato nella parte narrativa della sentenza impugnata che il capitale sociale era diviso al 50% tra la sig.ra P. ed il figlio D.C..

Della circostanza che la gestione della società fosse stata sempre familiare e non vi fossero mai stati altri lavoratori dipendenti, così come della vendita al figlio del locale in cui si svolgeva l’attività aziendale, non vi è traccia nella sentenza impugnata ed in relazione a tali circostanze di fatto la curatela ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza, avrebbe dovuto quantomeno precisare dove e come nei propri atti difensivi esse fossero state ritualmente allegate nel giudizio di merito ed avessero formato oggetto di discussione tra le parti, oltre ad illustrarne (non meramente enunciarne) la loro decisività.

La sentenza impugnata deve quindi essere cassata limitatamente alla posizione dell’amministratrice P. con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

La declaratoria di inammissibilità del ricorso nei confronti del D. comporta la condanna della curatela ricorrente al pagamento nei confronti di tale controricorrente delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti di D.C. e, per l’effetto, condanna il fallimento ricorrente al pagamento in favore di tale controricorrente delle spese processuali che liquida in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Accoglie il primo ed il terzo motivo nei confronti di P.C., cassa e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022

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