LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRO Massimo – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 31279-2020 proposto da:
E.S., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO COLLA;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE UTG di TORINO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 238/2020 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 25/2/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ALBERTO PAZZI.
RILEVATO
che:
1. Il Tribunale di Torino, con ordinanza ex art. 702-bis c.p.c., del 5 dicembre 2018, rigettava il ricorso proposto da E.S., cittadino della Nigeria, avverso il provvedimento emesso dalla locale Commissione territoriale di diniego di riconoscimento del suo status di rifugiato nonché del suo diritto alla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex artt. 2 e 14, o a quella umanitaria ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.
2. La Corte d’appello di Torino, con sentenza pubblicata in data 25 febbraio 2020, respingeva l’impugnazione proposta dal richiedente asilo.
In particolare, la Corte di merito riteneva – fra l’altro e per quanto qui di interesse – che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, sia perché le dichiarazioni del migrante (il quale aveva rappresentato il proprio timore di essere perseguitato per motivi di carattere religioso, in quanto cristiano anglicano) non erano credibili, sia perché, comunque, non era emersa l’esistenza di alcun concreto atto persecutorio dovuto a motivi religiosi (tenuto conto, fra l’altro, che nel paese di origine i cristiani anglicani non rappresentano una minoranza assoggettata a persecuzioni).
Non poteva neppure essere riconosciuta la protezione umanitaria, in mancanza di documentazione che attestasse l’esistenza di un’integrazione sociale e lavorativa e dato che non ricorrevano i presupposti di alcuna delle forme di tutela complementare previste dal D.L. n. 113 del 2018.
3. Per la cassazione di tale statuizione ha proposto ricorso E.S. prospettando tre motivi di doglianza.
L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
CONSIDERATO
che:
4. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 8, 11 e 12, in quanto lo status di rifugiato ben può essere riconosciuto a chi sia vittima di persecuzioni provenienti dallo Stato apparato, con la conseguente necessità di riconoscere una simile forma di protezione alla persona che dimostri di essere perseguitata nel proprio paese dagli organi della polizia locale.
5. Il motivo è inammissibile.
Esso, infatti, sostiene l’erronea esclusione dello status di rifugiato sulla base di circostanze di fatto (costituite dalla persecuzione ad opera di organi della polizia locale) del tutto estranee a quelle individuate dalla Corte di merito, la quale ha registrato come il richiedente asilo avesse addotto, a suffragio della propria domanda di protezione, dapprima “diverbi insorti, per questioni ereditarie, con lo zio paterno” e in seguito, cambiando radicalmente prospettiva, il timore di persecuzione per motivi religiosi in quanto cristiano anglicano.
Il che comporta l’inammissibilità di tale profilo di doglianza, posto che è principio costante e consolidato di questa Corte (cfr., fra molte, Cass. n. 7048/2016, n. 8820/2007, n. 25546/2006) che nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini e accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito.
6. Il secondo motivo si duole dell’omessa cooperazione istruttoria su una questione decisiva e discussa fra le parti, poiché la Corte d’appello non si è curata di verificare se la minoranza religiosa anglicana sia discriminata nell’esercizio dei propri diritti civili.
7. Il motivo è inammissibile.
La Corte distrettuale, contrariamente a quanto sostenuto nel mezzo in esame, si è fatta carico di verificare le condizioni dei cristiani anglicani in Nigeria, escludendo che gli stessi siano una minoranza passibile di persecuzioni.
Ne discende l’inammissibilità del mezzo, sia perché esso è privo di riferibilità alla decisione impugnata (Cass. n. 6587/2017, Cass. n. 13066/2007), sia perché non è dato a questa Corte il potere di riesaminare valutazioni che rientrano nel giudizio di fatto demandato al giudice di merito (cfr., ex plurimis, Cass. n. 21098/2016, Cass. n. 27197/2011).
8. Il terzo motivo di ricorso sottolinea che le persone che rientrano in una delle ipotesi descritte dalla Dir. n. 95 del 2011, art. 14, paragrafi 4 e 5, possono essere oggetto di una decisione di revoca dello status di rifugiato o di rifiuto della concessione di tale status, ma non possono essere colpite da una statuizione di respingimento o espulsione verso il paese di origine quando la loro vita o la loro libertà siano minacciate o quando vi sia il rischio che siano violati i loro diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, artt. 4 e 19.
Difatti, l’eventuale commissione di reati sul territorio nazionale non fa dell’immigrato un soggetto privo di protezione o di diritti, spettandogli comunque i diritti salvaguardati dalla Convenzione di Ginevra, riconoscibili anche al cittadino straniero e non presupponenti una sua residenza regolare.
9. La doglianza si fonda sul presupposto che la Corte di merito abbia “contestato la condizione di integrabilità del ricorrente sulla base della denuncia sporta per maltrattamenti dalla moglie”.
Il che non corrisponde affatto agli argomenti esposti all’interno della decisione impugnata, che ha invece rilevato come mancasse agli atti documentazione idonea a dimostrare adeguatamente la riferita condizione di integrazione sociale e lavorativa.
I giudici distrettuali, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, non hanno compiuto alcun riferimento a condotte delittuose poste in essere dall’appellante.
La doglianza proposta, quindi, non si confronta in alcun modo con la motivazione offerta dal collegio d’appello e sviluppa censure estranee al suo contenuto.
Ne discende la sua inammissibilità.
Invero, la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con la conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 13735/2020).
10. In virtù delle ragioni sopra illustrate il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La mancata costituzione in questa sede dell’amministrazione intimata esime il collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022