Che cos'è lo straining? E il mobbing lavorativo? Quali sono le differenze?
A queste domande risponde la Sezione Lavoro della Cassazione, con l'ordinanza n. 33428 dell'11 Novembre 2022.
La Suprema Corte precisa le due nozioni:
La principale differenza tra lo straining e il mobbing perciò sta nel fatto che nel primo caso sono sufficienti anche poche azioni isolate, mentre nel secondo è necessaria la presenza di una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli.
La Suprema Corte precisa inoltre che le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici. Quindi servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c., e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro.
È configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima, e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell'ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è ragione di violazione dell'art. 2087 c.c.
È configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, anche qui, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c.
Le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c., e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro Civile, Ordinanza n. 33428 del 11/11/2022
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. la Corte d'Appello di Genova ha riformato la sentenza del Tribunale di La Spezia e respinto tutte le domande proposte da M.T. contro I.F.B. (Istituto Farmaco Biologico Stroder) s.r.l., di cui era stato dipendente da marzo 1985 al 30 aprile 2014 quale Informatore scientifico del farmaco, e condannato il medesimo alla restituzione delle somme corrisposte in forza della sentenza di primo grado, nonché alla rifusione delle spese di lite ed al pagamento delle spese della CTU espletata in primo grado;
2. il Tribunale spezzino, infatti, svolta ampia istruttoria testimoniale e tecnica, accertata la sussistenza di grave demansionamento e di comportamenti mobbizzanti in danno dell'informatore a decorrere da settembre 2012, in parziale accoglimento del ricorso aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico temporaneo (Euro 8.400), del danno biologico permanente (Euro 27.244), del danno alla dignità ed all'immagine personali e professionali (Euro 50.253,84 lordi), oltre rimborso delle spese mediche sostenute (Euro 2.788,31) ed accessori;
3. la Corte genovese, in accoglimento dell'appello principale della società, ha ritenuto che il Tribunale avesse assegnato rilevanza eccessiva alle attività di carattere commerciale svolte dall'originario ricorrente ai fini dell'accertamento del demansionamento, sulla base dell'analisi delle attività dell'informatore tecnico-scientifico come descritte dalla contrattazione collettiva (ricomprendenti l'adempimento di necessità aziendali nell'area di pertinenza) in rapporto al contratto di lavoro (in cui erano previste anche la raccolta di informazioni scientifiche e di mercato ed il collegamento con grossisti, farmacie, case di cura, cliniche, ecc.), tenuto anche conto del fatto che tali mansioni erano state contestate solo con il ricorso introduttivo dopo quasi 30 anni di attività e del fatto che tutti gli informatori dipendenti della medesima società svolgevano informazione scientifica sui farmaci ed anche attività di carattere promozionale; ha ritenuto che le problematiche emerse con la nuova capo-area non fossero oggettivamente lesive della reputazione del ricorrente e che la situazione lavorativa, caratterizzata da normali dinamiche conflittuali, fosse stata vissuta dal ricorrente con la soggettiva percezione di essere vessato e denigrato dal proprio superiore; ha conseguentemente ritenuto assorbito l'appello incidentale del lavoratore diretto all'accertamento dell'interruzione del rapporto di lavoro alla fine del periodo di comporto per fatto e colpa del datore di lavoro, al connesso risarcimento dei danni, ad una liquidazione dei danni riconosciuti in misura maggiore e per ulteriori voci;
4. avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione M.T., affidato a 3 motivi, cui resiste con controricorso la società.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. con il primo motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., in relazione all'art. 2103 c.c., e al D.Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, art. 122, (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3), per non avere la Corte di merito interpretato il contratto individuale e collettivo alla luce del divieto di comparaggio, reato previsto dal T.U. delle leggi sanitarie (R.D. n. 1235 del 1934, art. 170), divieto reso ancora più stringente dalle modifiche normative del 1992 e del 2006;
2. con il secondo, violazione dell'art. 2103 c.c., in relazione al R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 170, al D.Lgs. n. 219 del 2006, artt. 119, 123 e 126, ed alle Linee Guida dell'AIFA 20/4/2006 alle quali fa rinvio il suddetto D.Lgs., e dell'art. 2087 c.c., per la conseguente costrittività organizzativa (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la sentenza impugnata errato nel ritenere conforme alla professionalità del ricorrente l'essere sottoposto alla direzione marketing e a ragioni commerciali;
3. i due motivi, da trattare congiuntamente in quanto entrambi collegati alla valutazione del lamentato demansionamento diversamente operata nei due gradi di merito, sono fondati per quanto di ragione;
4. la Corte d'Appello, a differenza del Tribunale, ha ricondotto all'area della percezione soggettiva la situazione lavorativa per cui è causa, venutasi a modificare da settembre 2012;
5. nel procedere a tale sussunzione, non ha, tuttavia tenuto conto, della rilevanza del fattore organizzativo - e delle connesse possibili situazioni di costrittività organizzativa - all'interno del perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche psichica del lavoratore, ai sensi dell'obbligo datoriale di protezione di cui all'art. 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all'inquadramento di cui all'art. 2103 c.c.;
6. il riconoscimento della rilevanza in tale ambito di tecnopatie da costrittività organizzativa è rinvenibile nella circolare INAIL n. 71 del 17 dicembre 2003, intitolata "Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche", con individuazione delle malattie derivanti da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro e riconduzione nei meccanismi propri della malattia professionale non tabellata, e nel D.M. 27 aprile 2004, adottato dal Ministero del lavoro, con il quale sono state inserite tra le malattie di possibile origine lavorativa per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 139, anche (Lista II - gruppo 7) le "malattie psicosomatiche da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro";
7. tali atti, com'e' noto, sono stati annullati dal Giudice amministrativo (vedi: Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 marzo 2009, n. 1576), ma, principalmente facendo riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1988, questa Corte ha manifestato la tendenza a considerare l'art. 2087 c.c. - in combinazione con gli artt. 32 e 41 Cost. - come uno strumento volto a tutelare la salute del lavoratore nell'ambiente di lavoro da tutti i possibili rischi, anche prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 28, comma 1, che contiene l'espressa consacrazione in via legislativa della ricomprensione nella tutela antinfortunistica dei rischi collegati allo stress lavoro-correlato, nel più ampio e indistinto genus dei rischi di natura psico-sociale, definito secondo il richiamo all'Accordo Europeo dell'8 ottobre 2004, recepito in Italia dall'Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008;
8. secondo gli orientamenti maturati nel suindicato percorso interpretativo questa Corte (come risulta da Cass. n. 15580/2022 punto 4.1 della motivazione), è pervenuta alle seguenti conclusioni:
- è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell'ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è ragione di violazione dell'art. 2087 c.c.;
- è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), anche qui, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c.;
peraltro, le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c., e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291 e altre);
quindi, è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento - imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901), e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.);
si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972);
9. specificamente in materia di straining, è stato precisato che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative stressogene (cd. straining), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno (Cass. n. 3291/2016; v. anche Cass. n. 18164/2018);
10. alla luce delle presenti osservazioni, in accoglimento per quanto ragione dei primi due motivi di ricorso, la causa deve essere cassata con rinvio per il riesame nel merito della domanda risarcitoria del lavoratore, tenendo conto, in diritto, del principio per cui rientra nell'obbligo datoriale di protezione di cui all'art. 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all'inquadramento di cui all'art. 2103 c.c., la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, potendosi configurare lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, o anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, quale condizione di lavoro lesiva della salute;
11. è invece inammissibile per difetto di specificità il terzo motivo, con il quale parte ricorrente deduce violazione degli artt. 112 e 277 c.p.c., e nullità della sentenza (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4), per avere erroneamente la Corte respinto le domande di risarcimento dei danni costituenti uno sviluppo di quelle originarie, oggetto di appello incidentale;
12. in tema di ricorso per cassazione, l'esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia denunciato un "error in procedendo", presuppone l'ammissbilità del motivo, ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi ed i riferimenti che consentono di individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto, così da consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell'"iter" processuale senza compiere generali verifiche degli atti (Cass. n. 23834/2019; v. anche Cass. n. 2771/2017, n. 342/2021);
13. al giudice del rinvio, che si individua nella medesima Corte d'Appello di Genova in diversa composizione, è demandata anche la regolazione delle spese del presente giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il primo e secondo motivo di ricorso, inammissibile il terzo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d'Appello di Genova in diversa composizione, anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 13 settembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2022.
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