LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16324-2020 proposto da:
AZIENDA SANITARIA LOCALE N. ***** LANCIANO VASTO CHIETI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO PATETICA 16, presso lo studio dell’avvocato SCORDAMAGLIA, rappresentata e difesa dall’avvocato RODOLFO GIUNGI;
– ricorrente –
contro
S.C., domiciliato presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e difeso dall’avvocato ENRICO RAIMONDI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 59/2020 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 23/01/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 21/09/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIO AMENDOLA.
RILEVATO
CHE:
1. la Corte d’Appello di L’Aquila, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato l’Azienda Sanitaria Locale n. ***** Lanciano Vasto Chieti ad adibire S.C. alle mansioni proprie dell’inquadramento posseduto, corrispondenti alla categoria D, con profilo di infermiere; ha inoltre accertato la dequalificazione subita dal dipendente per il periodo dal luglio 2012 al luglio 2017, condannando la Asl al risarcimento del danno da computarsi nella misura del 10% della retribuzione mensile via via maturata nel periodo, oltre interessi dalla domanda giudiziale;
2. la Corte – in sintesi – non ha condiviso la tesi del primo giudice secondo cui non vi sarebbe stata la prova della “prevalenza” dell’espletamento delle mansioni inferiori proprie della figura dell’operatore socio sanitario rispetto a quelle infermieristiche; ha infatti osservato, sulla base delle risultanze istruttorie, come “risulta che il S. senz’altro negli ultimi 5 anni… ha svolto, oltre alle sue funzioni professionali, anche ordinariamente e stabilmente tutte le mansioni che sono proprie della figura dell’operatore societario socio sanitario, o dell’infermiere generico, ascritte all’inferiore categoria B, non essendo disponibile personale ausiliario in numero sufficiente a garantire le esigenze primarie dei pazienti”;
3.. la Corte territoriale, poi, circa il danno da demansionamento richiesto, ha ritenuto “provata l’esistenza di un danno alla dignità professionale sulla base degli elementi desumibili dagli atti di causa, in considerazione della durata (5 anni) per la quale è stata svolta, accanto all’attività corrispondente all’inquadramento professionale, anche l’attività corrispondente all’inferiore inquadramento; alla natura di tale ultima attività (prettamente manuale rispetto alla natura intellettuale di quella propria del lavoratore), del fatto che tale attività inferiore viene svolta la presenza di tutti i pazienti che, quindi, vedono l’infermiere svolgere anche compiti propri di lavoratori inquadrati in categoria inferiore”; la Corte ne ha tratto il convincimento della prova del danno consistente nella mortificazione della immagine e della professionalità del lavoratore, equitativamente determinata nella misura innanzi indicata;
4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con 3 motivi; ha resistito con controricorso il S.;
5. la proposta del relatore ex art. 380 bis c.p.c. è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale;
parte ricorrente ha comunicato memoria.
CONSIDERATO
CHE:
1. con il primo motivo si denuncia: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5)”; si critica la motivazione impugnata perché, “dopo aver apoditticamente affermato la prevalenza delle mansioni inferiori rispetto a quelle di competenza, non spiega affatto da quali dati o da quali elementi probatori emersi dall’istruttoria si debba e si possa pervenire ad una simile conclusione”;
la doglianza, per come è formulata, è inammissibile;
si invoca il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, al di fuori dei limiti imposti da Cass. SS.UU. n. 8053 e 8054 del 2014, di cui non rispetta gli enunciati; in particolare non viene enucleato quale sarebbe il fatto storico, principale o secondario, che, sebbene oggetto di discussione, sarebbe stato trascurato e che, ove esaminato, avrebbe condotto ad una decisione diversa, con giudizio prognostico di certezza o, quanto meno, di elevata probabilità;
2. con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., deducendo che non vi sarebbe dequalificazione giuridicamente rilevante ove le mansioni ulteriormente richieste non abbiano assunto carattere prevalente rispetto a quelle proprie della qualifica;
la censura è inammissibile perché non individua realmente un errore di diritto, quanto piuttosto, nella sostanza, mette in discussione un accertamento di fatto compiuto dai giudici del merito in ordine alla prevalenza o meno delle mansioni in concreto svolte dal S.;
come noto, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (tra le molteplici, Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presupporre la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata perché è quella che è stata operata dai giudici del merito; al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto) postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;
3. col terzo mezzo parte ricorrente denuncia: “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 2103 c.c., e all’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”; si eccepisce che “non sussiste nella specie, al contrario di quanto affermato dalla Corte di Appello di L’Aquila, né allegazione né prova del fatto che detto inadempimento abbia comunque davvero arrecato al S.C. alcun danno”;
il motivo, per come formulato, è inammissibile;
richiamato quanto già detto sul motivo in precedenza esaminato a proposito della denuncia di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, anche in tal caso, nella sostanza, si censura un apprezzamento di merito, atteso che non vi è dubbio che l’accertamento circa l’esistenza o meno nella fattispecie concreta di un danno non patrimoniale, oltre che ovviamente la sua liquidazione, è una quaestio facti, sindacabile con i noti limiti posti al giudizio di legittimità;
l’inammissibilità è conclamata, poi, dall’improprio riferimento alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c.;
quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c., essa è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente sostiene che la prova del danno non sarebbe stata fornita, opponendo una diversa valutazione;
per l’altro aspetto, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato nel 2012 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017);
nella specie in alcun punto della sentenza impugnata si afferma, in diritto, che il danno da dequalificazione professionale sarebbe in re ipsa, riportando la motivazione richiamata nello storico della lite gli elementi di fatto dai quali la Corte ha tratto il convincimento in ordine alla sussistenza del danno, ritenuto quindi provato; quanto poi al preteso difetto di allegazione, la questione involge l’interpretazione della domanda giudiziale introduttiva del giudizio e dei suoi confini nella devoluzione in appello, di competenza del giudizio del merito, che avrebbe dovuto essere eventualmente censurata alla stregua di un error in procedendo;
4. conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione all’Avv. Enrico Raimondi che si è dichiarato anticipatario; occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge, con distrazione all’avv. Raimondi.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 21 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022
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