Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.36 del 04/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12536-2020 proposto da:

F.P., domiciliato presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONELLO VENEZIANO, LUCA MARCARI;

– ricorrente –

contro

LA MOLISANA SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIETRO DE CRISTOFORO 40, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO DI VINCENZO, rappresentata e difesa dall’avvocato EMILIA DE IASIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 11/2020 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 15/01/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 21/09/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CARLA PONTERIO.

RILEVATO

che:

1. La Corte d’appello di Campobasso ha respinto il reclamo proposto da F.P., confermando la pronuncia di primo grado di rigetto della domanda volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento, intimatogli da La Molisana s.p.a. per essersi il ***** allontanato temporaneamente dal posto di lavoro senza autorizzazione e senza fornire giustificazioni e, comunque, per la recidiva in mancanze che avevano dato luogo nell’anno precedente a due sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione, ai sensi del CCNL applicato, art. 70, n. 7.

2. La Corte territoriale ha accertato che il ***** il F. non era in ferie, come dal medesimo sostenuto. Ha rilevato, anzitutto, che il lavoratore solo in un secondo tempo aveva sostenuto di essere assente per ferie nel giorno in cui sarebbe stato commesso l’illecito disciplinare. Il predetto, infatti, a fronte della contestazione disciplinare ed anche nella fase sommaria, si era difeso fornendo alcune giustificazioni per spiegare l’allontanamento dal posto di lavoro e solo in un secondo tempo, dopo che i testimoni escussi avevano confermato la dinamica dei fatti descritta dalla società datoriale, aveva addotto di non essersi recato a lavoro il ***** perché in ferie. I giudici di appello hanno giudicato inidoneo a dimostrare l’assenza del lavoratore il foglio, dal medesimo prodotto, relativo ad una richiesta di ferie dal ***** al *****, sottoscritto dal F. e recante il visto del diretto superiore ma non l’autorizzazione della Direzione. Hanno escluso che fosse ipotizzabile una autorizzazione verbale della Direzione.

3. La sentenza impugnata ha considerato integrata la previsione di cui al CCNL, art. 70, n. 7, che consente di irrogare il licenziamento in caso di recidiva in qualsiasi mancanza che abbia dato luogo a due sospensioni (nel caso di specie, per le violazioni commesse il ***** e il *****) nei dodici mesi antecedenti (risultando le sanzioni conservative irrogate non annullate dal lodo arbitrale, a sua volta annullato). Ha qualificato come grave la condotta contestata al lavoratore per essersi egli allontanato dalla postazione di lavoro per circa un’ora, senza autorizzazione e quindi arbitrariamente, lasciando il collega in difficoltà per il compimento delle operazioni che richiedevano la presenza di due persone e provocando in tal modo un ritardo nell’avvio della linea I) e un calo di produzione di pasta rispetto al quantitativo previsto.

4. Avverso tale sentenza F.P. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. La Molisana s.p.a. ha resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria.

CONSIDERATO

che:

5. Col primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 116 c.p.c., per avere la sentenza impugnata considerato superflui i mezzi di prova articolati dal lavoratore e volti a dimostrare che lo stesso il ***** non si trovava sul posto di lavoro perché in ferie. Tale circostanza era infatti desumibile dalla scheda di “giustificazione di assenza e permesso di uscita”, vistata dal diretto superiore Dott.ssa C.B.. L’attuale ricorrente aveva richiesto l’ordine di esibizione della scheda di pastificazione del ***** e del report di fine turno del medesimo giorno, nonché delle buste paga, del rilevatore e foglio di presenza nonché il deferimento dell’interrogatorio formale del legale rappresentante della società.

6. Col secondo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, per avere la Corte, in violazione del principio di proporzionalità, giudicato grave la condotta di abbandono temporaneo del posto di lavoro, che non ha arrecato alcun danno e alcun ritardo all’attività del datore di lavoro.

7. Il primo motivo è inammissibile. La omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (v. Cass. n. 5654 del 2017; n. 16214 del 2019). Tali requisiti non ricorrono nel caso di specie e neanche è stata argomentata da parte ricorrente la decisività degli elementi di prova non acquisiti.

8. Anche il secondo motivo è inammissibile.

9. Questa Corte (Cass. n. 21214 del 2009; Cass. n. 8254 del 2004) ha ripetutamente affermato che la giusta causa di licenziamento, quale “fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” è una nozione che la legge allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica, e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici;

10. Ha precisato come l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., che, in tema di licenziamento per giusta causa, detta una tipica “norma elastica”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (cfr. Cass. n. 9266 del 2005; Cass. n. 5299 del 2000). E’ solo l’integrazione giurisprudenziale, a livello generale ed astratto, della nozione di giusta causa che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 21214 del 2009; Cass. n. 7838 del 2005).

11. E’ stato altresì chiarito che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione di gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.), (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007).

12. La sentenza impugnata si è attenuta ai principi sopra richiamati ed ha motivatamente valutato la gravità dell’infrazione, sia riguardo all’allontanamento dal posto di lavoro e sia in ragione della recidiva contestata. Le critiche mosse dal ricorrente, anzitutto riguardano l’episodio dell’allontanamento dal posto di lavoro e non la recidiva, contestata e posta anch’essa a base della decisione di recesso. Le censure, peraltro, non attengono alla integrazione del canone normativo di giusta causa bensì all’applicazione concreta dello stesso e, in quanto dirette unicamente a proporre un diverso apprezzamento dei dati fattuali, rimangono confinate nell’ambito del merito e non vanno al di là della deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, peraltro neanche collocabile nel ristretto perimetro segnato dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

13. Per le considerazioni svolte il ricorso risulta inammissibile.

14. La regolazione delle spese di lite segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

15. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.500,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 21 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2022

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