Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.362 del 10/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18067-2020 proposto da:

O.S. ITALIA, SOCIETA’ COOPERATIVA IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RIMINI 14, presso lo studio dell’avvocato NICOLETTA CARUSO, rappresentata e difesa dagli avvocati SALVATORE SORBELLO e GAETANO SORBELLO;

– ricorrente –

contro

A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAIO MARIO, 8, presso lo studio dell’avvocato EMILIANO SCARANTINO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 739/2019 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 23/12/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 21/09/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIO AMENDOLA.

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Messina, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato che ” A.G. ha lavorato alle dipendenze dell’a O.S. Italia Società Cooperativa in liquidazione con continuità dal 16 luglio 2007 al 7 maggio 2012", con conseguente illegittimità degli atti di recesso adottati dalla Cooperativa e condanna della medesima “a riammettere in servizio” la lavoratrice ed a corrisponderle, a titolo risarcitorio, una indennità commisurata a n. 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”, oltre accessori e spese;

2. i giudici d’appello, rivalutato il materiale istruttorio, hanno ritenuto doversi fare “applicazione del regime sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, con conseguente automatica conversione a tempo indeterminato (del rapporto) sin dalla data di costituzione dello stesso e con applicazione delle garanzie del lavoro dipendente. Ciò in quanto la presenza di un progetto che risulti, sulla base di quanto dimostrato in giudizio, privo delle sue caratteristiche essenziali, quali la specificità e l’autonomia, viene a determinare il venir meno dell’elemento costitutivo della fattispecie legale”; la Corte d’appello, poi, ha ritenuto di dover condannare la società al pagamento di un’indennità commisurata “nell’entità massima prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32" (24 mensilità dell’ultima retribuzione globale cui la A. avrebbe avuto diritto)”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con 3 motivi; ha resistito con controricorso l’intimata;

4. la proposta del relatore ex art. 380 bis c.p.c. è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale;

la controricorrente ha comunicato memoria.

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo si denuncia: “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.”; si sostiene la ultrapetizione della pronuncia impugnata perché “e’ sufficiente esaminare il ricorso in appello proposto da A.G. per rilevare che quest’ultima non ha mai eccepito che il progetto “concordato consisteva nella mera riproposizione dell’oggetto sociale della committente”;

il motivo è inammissibile perché non riporta i contenuti dell’atto di appello che possano identificare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui si richiede il riesame (cfr. Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004);

invero, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo (Cass. SS.UU. n. 8077 del 2012), presuppone comunque l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (cfr. Cass. n. 17523 del 2009; Cass. n. 4840 del 2006; Cass. n. 1221 del 2006; Cass. n. 18037 del 2014); in particolare la parte ricorrente è tenuta ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004); pertanto, sia nel caso di pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. n. 8008 del 2014; Cass. n. 21397 del 2014; Cass. n. 18 del 2015) così come laddove sia stata denunciata la falsa applicazione della regola del tantum devolutum quantum appelatum, è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio nonché quelli dell’atto d’appello (tra le altre: Cass. n. 11738 del 2016, conf. a Cass. n. 23420 del 2011);

2. con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, dell’art. 2094 e dell’art. 2222, in relazione all’art. 2697 c.c., “per erroneo accertamento di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti”, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c.; si critica la Corte territoriale per avere ritenuto attendibili le dichiarazioni di alcuni testi;

la censura è inammissibile perché, lungi dal denunciare realmente errori di diritto, propone un diverso apprezzamento dei fatti che hanno indotto la Corte a ritenere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, come è conclamato dal riferimento sia alle prove testimoniali che alla violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c.;

quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c., essa è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente oppone solo una diversa valutazione;

per l’altro aspetto, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato nel 2012 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017);

3. il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, per avere la Corte territoriale condannato la società al pagamento di 24 mensilità di retribuzioni globali di fatto, oltre il limite massimo di 12 mensilità stabilito dalla disposizione violata;

la censura è fondata perché la disposizione richiamata dalla Corte territoriale all’epoca vigente disponeva: “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”; il superamento del limite massimo di 12 mensilità concreta una chiara violazione di legge;

4. conclusivamente il ricorso, dichiarati inammissibili i primi due motivi, deve essere accolto limitatamente al terzo, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte indicata in dispositivo che dovrà provvedere a riliquidare l’indennità tenuto conto dei limiti di legge, provvedendo anche sulle spese.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il primo ed il secondo motivo di ricorso, accoglie il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto c rinvia alla Corte d’Appello di Messina, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 21 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022

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