LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14134-2020 proposto da:
M.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MACHIAVELLI, 50, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO PREZIOSI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– resistente –
avverso la sentenza n. 5946/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 03/10/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 22/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MASSIMO FALABELLA.
FATTI DI CAUSA
1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Roma, pubblicata il 3 ottobre 2019, con cui è stato respinto il gravame proposto da M.T. nei confronti dell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5, del Tribunale della capitale. La nominata Corte ha negato che al ricorrente potesse essere riconosciuto lo status di rifugiato ed ha altresì escluso che lo stesso potesse essere ammesso alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria.
2. – Il ricorso per cassazione si fonda su quattro motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha notificato controricorso, ma ha depositato un “atto di costituzione” in cui non è svolta alcuna difesa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo oppone la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 per illogicità e contraddittorietà manifesta della motivazione. Viene imputato alla sentenza impugnata di aver fatto proprie le diverse motivazioni spese dalla Commissione territoriale, circa la propria non credibilità, e dal giudice di primo grado, quanto al compimento di atti terroristici, e di aver affermato, poi, che lo stesso istante non aveva allegato “di avere una ragione politica fondamento della propria richiesta”.
Col secondo mezzo la sentenza impugnata è censurata per violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8. Si sostiene che il subire un mandato di arresto a fronte dell’accusa di aver compiuto atti violenti, nel contesto di una manifestazione politica, contro i militanti del partito di governo e le forze dell’ordine, integra una ipotesi di persecuzione politica rientrante nella previsione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 2.
Il terzo motivo oppone la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. Viene lamentato, in sintesi, che la Corte di appello abbia omesso di valutare un fatto decisivo ai fini della protezione sussidiaria, ovvero la documentata vicenda personale del richiedente. E’ spiegato che il rischio, anche solo potenziale, di subire una condanna quale la pena di morte, prevista dalla normativa penale del Bangladesh per i reati contestati, costituisce ragione da sola sufficiente a fondare il riconoscimento dell’indicata forma di protezione.
Col quarto motivo l’istante lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 34, comma 4, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19. Viene osservato che il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere il frutto di una valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme di protezione internazionale e che, nella fattispecie, andava effettuato un raffronto tra la durata dell’allontanamento del richiedente del paese di provenienza, la situazione cui lo stesso sarebbe andato incontro in caso di rimpatrio e la documentata condizione di vita e di lavoro in Italia.
2. – I primi due motivi sono infondati.
Si legge nella sentenza impugnata che il ricorrente aveva riferito di essersi indotto a lasciare il paese di origine, il Bangladesh, “in quanto rimasto involontariamente coinvolto negli scontri avvenuti tra militanti di partiti politici opposti, e di essere fato poi sottoposto ad un procedimento penale per uso di sostanze esplosive”. La Corte di merito ha osservato che il richiedente, il quale aveva sostenuto di non aver mai militato nel partito denominato *****, ma di essere soltanto amico di uno dei suoi leader, aveva prospettato “il rischio concreto di subire un processo ed una conseguente condanna ingiusta”. Ha aggiunto il giudice distrettuale che tanto non era sufficiente ad accedere al riconoscimento dello status di rifugiato, dal momento che M.T., oltre ad aver escluso di aver effettivamente svolto attività politica, non aveva “mai neanche allegato l’esistenza di situazioni di potenziale persecuzione politica, religiosa o razziale nei propri confronti”.
Per un verso, dunque, con riguardo alla domanda avente ad oggetto lo status di rifugiato, la sentenza non denota alcun vizio motivazionale deducibile nella presente sede: nel giudizio di legittimità, infatti, rileva la sola anomalia motivazionale che si risolve in “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, in “motivazione apparente”, in “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e in “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054): fattispecie, queste, chiaramente estranee alla decisione impugnata.
Per altro verso, il ricorrente non si mostra in grado di superare il rilievo espresso dalla Corte territoriale con riguardo al deficit di allegazione quanto all’ipotetica vicenda persecutoria: rilievo che poggia sul principio giuridico per cui la proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197; in senso conforme: Cass. 29 ottobre 2018, n. 27336; Cass. 31 gennaio 2019, n. 3016).
3. – Appare invece fondato il terzo mezzo di censura.
L’istante, nel proprio atto di appello, aveva non solo espresso il timore di patire un processo e una condanna ingiusta, ma, altresì, il rischio di “subire una condanna per un reato che prevede la pena di morte” (cfr. ricorso per cassazione, pagg. 5 s.): con ciò individuando una evenienza riconducibile alla previsione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a). Va evidenziato, al riguardo, che con riguardo a tale rischio non rileverebbe nemmeno la causa di esclusione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 16, comma 1, lett. b): causa di esclusione data dalla commissione di un reato grave (cfr., in particolare, Cass. 17 gennaio 2020, n. 1033, secondo cui, il giudice del merito, in tali casi, deve tenere conto del tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel paese di origine per il reato commesso dal richiedente, anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in quanto il rischio di sottoposizione alla pena di morte nel paese di provenienza o anche il rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri del proprio paese può avere rilevanza per l’eventuale riconoscimento della protezione sussidiaria).
La Corte di appello si è del tutto disinteressata dell’indicato profilo, prendendo in considerazione la sola ipotesi di protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (cfr., infatti, quanto argomentato nella sentenza in ordine alle condizioni di sicurezza della popolazione civile: pagg. 6 s.).
4. – Il quarto motivo resta assorbito.
5. – In conclusione, va accolto il terzo motivo, devono essere respinti i primi due e va dichiarato assorbito il quarto. La sentenza è cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Venezia che, in diversa composizione, regolerà pure le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo, respinge i primi due e dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6^ Sezione Civile, il 22 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022