LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1968/2017 proposto da:
Ubi Banca s.p.a., quale incorporante della Centrobanca s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, in via di Val Gardena n. 3, presso lo studio dell’avvocato De Angelis Lucio, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Commisso Federica, e Tarzia Giorgio, con procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, in via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7377/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 06/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 05/11/2021 dal Cons. rel., Dott. CAIAZZO ROSARIO;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che chiede l’accoglimento del ricorso.
RILEVATO
Che:
Con sentenza del 22.2.12 il Tribunale di Roma, in accoglimento della domanda proposta da Centrobanca s.p.a., ora UBI s.p.a., condannò il Ministero dell’Economia e Finanze al pagamento della somma di Euro 1.469.104,07 oltre interessi al tasso-soglia. La controversia traeva origine dal fatto che l’attrice, alla quale era stata prestata una garanzia pubblica a norma della L. n. 1101 del 1971, art. 10, in adempimento della stessa, dopo la chiusura delle vicende concorsuali che avevano interessato l’imprenditore garantito, aveva chiesto che tale garanzia fosse riconosciuta sulla differenza tra l’ammontare del credito maturato e gli importi effettivamente recuperati in forza di quanto prescritto dal D.M. 18 gennaio 1978 e D.M. 24 novembre 1979.
Il Ministero resisteva alla domanda sull’assunto che la predetta garanzia dovesse essere riconosciuta sulla differenza tra il credito ammesso in sede concorsuale e le somme effettivamente recuperate. Avverso tale sentenza propose appello il Ministero, che la Corte territoriale accolse con sentenza del 6.12.16, osservando che: premesso che la questione da decidere consisteva nel significato da attribuire alla parola “perdite”, contenuta nel D.M. 18 gennaio 1978, art. 4 (secondo il cui disposto: “sul finanziamento di Lire 2.948.000.000 da deliberarsi dall’Istituto finanziario, ex L. n. 1101 del 1971, con il contributo degli interessi di cui all’art. 8 della Legge stessa, è concessa la garanzia sussidiaria dello Stato previsto dall’art. 10 nella misura del 100% delle perdite che l’Istituto dimostrerà di aver sofferto, dopo l’esperimento delle procedure di riscossione coattiva nei confronti della ditta mutuataria”), era da ritenere che, considerata l’assenza di ogni esplicita ed inequivoca espressione contraria, tali perdite e la conseguente relativa garanzia fossero interpretabili secondo le regole concorsuali a cui l’art. 4 del suddetto D.M., faceva riferimento; aderendo alla diversa tesi dell’appellata – secondo la quale per “perdite” garantite si fossero intese le perdite commerciali scaturenti dall’operazione di finanziamento, prescindendo dalle vicende anomale interessanti l’imprenditore garantito, si sarebbe dovuto giungere all’inverosimile conclusione che già nell’art. 4 citato fosse insito – o si desse per scontato – che l’imprenditore garantito sarebbe stato in ogni caso interessato a vicende concorsuali, garantendo così lo Stato il 100% delle perdite commerciali già al momento della deliberazione del credito; se invero la ratio della legge fosse stata di garantire l’intero credito, non vi sarebbe stata alcuna necessità di indicare nel predetto art. 4, un parametro del tutto inutile a tal fine, quello cioè dell’esperimento delle procedure di riscossione coattiva nei confronti della ditta mutuataria; al contrario, secondo il giudice d’appello proprio l’inserimento di tale espressione era da interpretare nel senso che la garanzia fossa da intendere operativa per quelle perdite che residuavano all’esito delle eventuali procedure di riscossione coattiva secondo le norme concorsuali alle quali il creditore non poteva ritenersi non assoggettato; pertanto, la parte garantita era da considerare integralmente soddisfatta a seguito del ricavato della vendita dei cespiti posti a garanzia del finanziamento e della riscossione della polizza fideiussoria secondo i conteggi effettuati dall’appellata, non contestati.
Ricorre in cassazione Ubi banca s.p.a., quale incorporante della Centrobanca s.p.a., con due motivi, illustrati con memoria.
Il Ministero resiste con controricorso.
Il P.M. ha depositato requisitoria, chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO
Che:
Il primo motivo denunzia violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 54,55 (in quanto applicabili alla procedura di amministrazione straordinaria ex L. n. 95 del 1979, in virtù del richiamo di cui al D.L. n. 26 del 1979 e alla L. Fall., art. 1), nonché dell’art. 1236 c.c., nella parte in cui tali norme dispongono la sospensione degli interessi sui crediti verso il fallito “ai soli fini del concorso” senza limitare il quantum del credito. Al riguardo, la ricorrente si duole che la sentenza impugnata non abbia applicato l’orientamento secondo il quale è legittima la richiesta della banca che eroga il finanziamento di versare, in adempimento della garanzia pubblica, un importo corrispondente alla parte del credito non recuperata nella procedura concorsuale perché “non ammesso al concorso”, importo che corrispondeva alla perdita della banca finanziatrice dopo il soddisfacimento del credito ammesso al passivo della procedura di amministrazione straordinaria, comprensiva degli interessi.
Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 1101 del 1971, art. 10, D.M. 18 gennaio 1978, art. 4 e D.M. 24 novembre 1979, art. 1944 c.c., per aver la Corte d’appello ritenuto che l’escussione della garanzia pubblica solo dopo l’esperimento delle procedure di riscossione coattiva nei confronti della impresa mutuataria comportasse che nell’ipotesi di successivo fallimento di quest’ultima non sarebbe ravvisabile nessuna perdita sul credito dell’Istituto finanziatore, una volta recuperato con i riparti concorsuali il credito ammesso al passivo con le limitazioni sugli interessi, L. Fall., ex artt. 54 e 55, riducendo così l’oggetto della garanzia pubblica, escludendone, appunto, il credito per interessi.
Il Pubblico Ministero ha concluso in conformità dei suddetti motivi, chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Entrambi i motivi sono inammissibili perché non attengono alla ratio della decisione impugnata, basata su una determinata interpretazione del disposto del D.M. 1 dicembre 1978, in particolare dell’art. 4, con il quale la garanzia era stata concessa ai sensi della L. n. 1101 del 1971, art. 10. E’ infatti il Decreto Ministeriale a stabilire il contenuto specifico della garanzia, non la norma di legge, la quale si limita a prevedere soltanto la possibilità della concessione della “garanzia sussidiaria dello Stato sui finanziamenti di cui alla presente legge” mediante, appunto, un decreto ministeriale.
Ora, tale decreto non è atto normativo bensì un provvedimento individuale. Invero, tale decreto non presenta le caratteristiche tipiche di un atto normativo, vale a dire: l’astrattezza (intesa come capacità della norma di applicarsi infinite volte a tutti i casi concreti rientranti nella fattispecie descritta in astratto), la generalità (intesa come indeterminabilità, sia ex ante che ex post, dei destinatari della norma) e l’innovatività (ovvero la capacità di modificare stabilmente l’ordinamento giuridico).
Inoltre, il D.M., in questione, quale ulteriore indice del carattere non normativo, non è stato sottoposto al parere del Consiglio di Stato, né al visto della Corte dei conti, né previamente comunicato al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Al riguardo, il D.M., oggetto di causa (in linea con quanto evidenziato dal Consiglio di Stato in sede di Adunanza Plenaria n. 4/2019) non è neanche un atto amministrativo generale. Infatti, l’atto amministrativo generale, pur privo (a differenza dell’atto normativo) dell’astrattezza, si caratterizza per la generalità dei destinatari, intesa nell’unico modo compatibile con la natura “concreta” dell’atto amministrativo generale, ovvero come indeterminabilità dei destinatari ex ante, ma non ex post; il D.M., relativo al finanziamento in questione riguarda invece un soggetto determinato.
Ora, va rilevato che il sindacato attribuito alla Corte di Cassazione in tema di interpretazione di atti amministrativi adottati con decreto ministeriale, privi di funzione normativa, come nel caso concreto, è limitato alla sola verifica dei denunciati vizi di motivazione (ora nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5), e malgoverno delle regole di ermeneutica contrattuale in quanto analogicamente applicabili (v. Cass. 4 giugno 1999 n. 5480 e più di recente Cass. 31 ottobre 2017, n. 25971).
In particolare, è stato affermato che l’interpretazione degli atti amministrativi – non normativi- soggiace alle stesse regole dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg., per l’interpretazione dei contratti, in quanto compatibili con il provvedimento amministrativo, tra le quali ha carattere preminente quella collegata all’elemento letterale, dovendo il giudice anche ricostruire l’intento dell’Amministrazione ed il potere che ha inteso in concreto esercitare, tenendo altresì conto del complesso dell’atto e del comportamento dell’Autorità amministrativa, oltre che di quanto può razionalmente intendere, secondo buona fede, il destinatario (SU, n. 20181/19).
Nella fattispecie, va osservato che nel secondo motivo la censura riguarda espressamente anche l’interpretazione del predetto art. 4 come fornita dalla Corte territoriale, ma non si rinvengono critiche di violazioni di legge circa le norme sull’ermeneutica contrattuale; invero, la ricorrente si è limitata a contrapporre la propria interpretazione delle disposizioni contenute in tale atto amministrativo a quella accolta nella sentenza impugnata ma non ha specificamente indicato quali siano le regole dell’ermeneutica contrattuale violate (v. anche Cass., n. 28625/2020).
Venendo in rilievo un atto sostanzialmente procedimentale, e non un atto normativo, la ricorrente avrebbe dunque dovuto censurare – ma non lo ha fatto – l’interpretazione dell’atto amministrativo, operata dalla Corte d’appello mediante idonea denunzia di violazione delle regole ermeneutiche sopra richiamate.
La doglianza in esame, invece, prospetta il solo vizio di violazione o falsa applicazione di atti normativi – in ordine alla predetta questione relativa alla sospensione del decorso degli interessi all’interno della procedura concorsuale e se essa si estenda anche ai rapporti singolari tra ciascun creditore ed il fallito – senza però esplicitare doglianze afferenti all’erronea interpretazione del predetto decreto secondo i criteri dettati dagli artt. 1362 c.c. e segg..
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di Euro 13.000,00 oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022
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