Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.427 del 10/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17749/2019 R.G. proposto da:

O.O., rappresentato e difeso dall’Avv. Monica Cappellini, con domicilio in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna n. 2319/19, depositato il 17 maggio 2019.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 27 ottobre 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 17 maggio 2019, il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da O.O., cittadino della Nigeria.

Premesso che a sostegno della domanda il ricorrente aveva allegato di essersi allontanato dal Paese di origine per il timore di essere ucciso, come suo padre, dal padre di una ragazza con la quale aveva intrattenuto una relazione e che era deceduta a seguito di un aborto, il Tribunale ha ritenuto la narrazione inattendibile, in quanto non circostanziata, incoerente ed implausibile, osservando che il ricorrente, oltre ad essere caduto in contraddizione su aspetti centrali della vicenda, non era stato in grado di corroborare la propria richiesta di protezione con elementi oggettivi di prova. Ha aggiunto che il tempo trascorso dall’epoca dei fatti consentiva di escludere l’attualità del pericolo prospettato, richiamando invece, in riferimento alla fattispecie di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), informazioni fornite da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, dalle quali ha desunto che le criticità rilevabili in Nigeria, sotto il profilo della sicurezza e dell’emergenza umanitaria, erano limitate agli Stati di Borno, Yobe e Adamawa, nonché alle regioni limitrofe, mentre nell’Edo State, da cui proveniva il ricorrente, non era configurabile una situazione di violenza generalizzata derivante da un conflitto armato. Ha ritenuto infine insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando l’insufficienza, a tal fine, dello svolgimento di attività di formazione e di attività lavorativa per un breve periodo, ed escludendo quindi la configurabilità di una condizione seria e grave di vulnerabilità, in relazione alle condizioni familiari ed economiche in cui il ricorrente si sarebbe ritrovato in caso di rimpatrio, nonché alle sue condizioni di salute.

2. Avverso il predetto decreto l’ O. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, anziché mediante controricorso: nel procedimento in Camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. Cass., 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, nonché la carenza di motivazione del decreto impugnato, nella parte in cui ha escluso la credibilità della vicenda narrata, osservando che, nel valutare le sue dichiarazioni, il Tribunale non ha tenuto conto della sua condizione di analfabeta, che ha inciso negativamente sulla sua capacità comunicativa, e dell’insufficiente ausilio fornito dall’interprete. Aggiunge che le circostanze riferite non sono state contestualizzate, avendo il Tribunale omesso d’integrare il quadro probatorio mediante l’acquisizione ufficiosa d’informazioni in ordine alla situazione esistente nel suo Paese di origine.

2.1. Il motivo è infondato.

In tema di protezione internazionale, questa Corte ha avuto modo di affermare che il controllo di credibilità cui devono essere sottoposte, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, deve avere ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall’altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un’attenuazione dell’onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l’appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; Cass., Sez. VI, 31/07/2019, n. 20580).

Tale controllo deve ritenersi nella specie correttamente effettuato, avendo il Tribunale proceduto ad un attento scrutinio delle dichiarazioni rese dal ricorrente in udienza, in virtù del quale ha ritenuto condivisibile il giudizio d’inattendibilità espresso dalla Commissione territoriale, ponendo in risalto la genericità e la contraddittorietà della vicenda narrata, nonché l’inidoneità della stessa a giustificare il prospettato timore di rimanere esposto, in caso di rimpatrio, ad atti persecutori o alla minaccia di un danno grave. Nel censurare il predetto apprezzamento, il ricorrente non è in grado d’individuare lacune argomentative o carenze logiche del decreto impugnato, talmente gravi da impedire la ricostruzione del percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione, ma si limita ad insistere sulla propria condizione di analfabeta, inidonea ad impedirgli la comprensione delle semplici domande rivoltegli ed a consentirgli di fornire adeguate risposte, e sull’inosservanza dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cit. da parte del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547);

Nel lamentare il mancato inquadramento della vicenda da lui narrata nella situazione generale del suo Paese di origine, il ricorrente non considera poi che il giudizio negativo in ordine alla credibilità soggettiva del richiedente, espresso in conformità dei criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, risulta di per sé sufficiente a dispensare il giudice dal compimento di approfondimenti officiosi in ordine alla situazione del Paese di origine, ai fini dell’accertamento delle fattispecie di cui il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e art. 14, lett. a) e b), non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove, come nella specie, sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quanto meno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925);

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14, anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto insussistente il rischio di sottoposizione a violenze in caso di rimpatrio, senza tener conto del timore, da lui prospettato, di essere ucciso come suo padre, e dell’incapacità delle autorità di assicurargli un’adeguata tutela. Aggiunge che, nell’escludere la sussistenza di uno stato di violenza indiscriminata, il Tribunale non ha tenuto conto del peggioramento in corso nella situazione socio-politica della Nigeria e dell’incapacità delle autorità statali di assicurare condizioni minime di sicurezza ai cittadini. Sostiene al riguardo che la nozione di conflitto armato prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), comprende non soltanto lo stato di guerra civile, ma anche tutte quelle situazioni in cui gli scontri e le forme di violenza tra opposte fazioni o gruppi di potere abbiano raggiunto un grado di persistenza, stabilità e diffusione tali da sfuggire al controllo delle autorità statali.

3.1. Il motivo è infondato.

Come ripetutamente affermato da questa Corte, la ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata dal richiedente deve considerarsi di per sé sufficiente ad escludere la configurabilità delle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), ai fini delle quali, pur non occorrendo la prova dell’esposizione ad una persecuzione personale e diretta, quale quella richiesta ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, è pur sempre necessario che lo straniero dimostri, con un certo grado di individualizzazione, che, ove la protezione gli fosse negata, egli correrebbe il rischio di essere sottoposto alla pena di morte o ad un’altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, per ragioni riconducibili alla vicenda personale da lui rappresentata (cfr. Cass., Sez. II, 14/08/2020, n. 17185; Cass., Sez. VI, 20/06/2018, n. 16275; 20/03/2014, n. 6503). Non merita pertanto censura il decreto impugnato, nella parte in cui, dopo aver posto in risalto la genericità, l’incoerenza e l’implausibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente, ha concluso per l’insussistenza sia di un fondato timore di persecuzione, del quale ha rilevato peraltro la mancata allegazione, sia del rischio di sottoposizione alla pena di morte, alla tortura o a un trattamento inumano o degradante, senza compiere alcun approfondimento in ordine all’impossibilità di ottenere tutela dalle autorità statuali, in ordine alla quale ha comunque osservato che il ricorrente non aveva neppure giustificato la propria decisione di non farvi ricorso.

L’inattendibilità della vicenda riferita risulta invece irrilevante ai fini dello accertamento della fattispecie di cui dell’art. 14 cit., lett. c), la quale, essendo correlata alla provenienza del richiedente dall’area interessata dal conflitto armato da cui deriva la situazione di violenza indiscriminata che costituisce fonte della minaccia grave e individuale alla vita o alla persona prospettata a sostegno della domanda, può essere ritenuta insussistente soltanto nel caso in cui i dubbi sollevati in ordine alla credibilità delle dichiarazioni da lui rese riguardino proprio questo profilo (cfr. Cass., Sez. I, 6/07/2020, n. 13940; 24/05/2019, n. 14283). Nella specie, tuttavia, il Tribunale ha provveduto ad un puntuale approfondimento della situazione in atto in Nigeria, avendo richiamato informazioni fornite da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, dalle quali ha desunto che le criticità segnalate sotto il profilo della sicurezza e dell’emergenza umanitaria restano limitate all’area nordorientale del Paese, e non si estendono alla regione di provenienza del ricorrente, situata nell’area sudoccidentale, nella quale non è configurabile uno stato di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato. Nel contestare tale accertamento, il ricorrente invoca fonti ulteriori, anch’esse aggiornate, dalle quali non emergono tuttavia elementi idonei ad orientare in senso diverso la decisione, attestando le stesse soltanto una situazione d’insicurezza, dovuta ad attacchi terroristici e contrasti tra gruppi etnici diversi, la cui diffusione ed intensità non assurgono però a livelli tali da giustificare l’affermazione dell’esistenza di un conflitto armato: come affermato dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 30 gennaio 2014, in causa C-285/12, Diakite’), tale nozione comprende infatti soltanto quelle situazioni in cui le forze armate governative di uno Stato si scontrino con uno o più gruppi armati antagonisti, o nelle quali due o più gruppi armati si contendano tra loro il controllo militare di un dato territorio, purché il conflitto ascenda ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nella regione di provenienza corra il rischio descritto nella norma per la sua sola presenza sul territorio, tenuto conto dell’impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili, della diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche, della generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento, e del numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento (cfr. Cass., Sez. I, 2/03/2021, n. 5675; Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306; 2/04/2019, n. 9090).

4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, in contrasto con i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, senza tenere conto della condizione di vulnerabilità derivante dalla situazione in atto nel suo Paese di origine e del suo inserimento nel contesto socio-economico italiano.

4.1. Il motivo è inammissibile, per difetto di specificità.

Le censure proposte dal ricorrente si risolvono infatti nella generica denuncia dell’omessa valutazione dei profili rilevanti ai fini dell’applicazione della misura richiesta, preceduta da un ampio richiamo della disciplina dettata dalla normativa comunitaria ed interna e dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, ma non corredata da alcuna argomentazione intesa a confutare il ragionamento posto a fondamento della statuizione impugnata, né da alcun cenno agli elementi di fatto presi in considerazione dal Tribunale o a quelli dallo stesso eventualmente trascurati. La natura del giudizio di cassazione, quale giudizio a critica vincolata, il cui oggetto è delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassativamente previste dal codice di rito, esige invece che le censure proposte rivestano caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, ai fini dei quali risulta necessaria, oltre all’esatta individuazione del capo in contestazione, l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di legge o le carenze da cui è affetta la motivazione, non potendo il ricorrente limitarsi a denunciare astrattamente l’inosservanza di norme o principi di diritto (cfr. Cass., Sez. Un., 28/10/2020, n. 23745; Cass., Sez. lav., 18/08/2020, n. 17224; Cass., Sez. I, 5/08/2020, n. 16700).

5. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dello intimato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022

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