Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.432 del 10/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16902/2019 proposto da:

M.K., rappresentato e difeso dall’avvocato Anna Lombardi Baiardini, per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 814/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGINA, depositata il 22/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/12/2021 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 814/2018 pubblicata il 22-11-2018 la Corte d’appello di Perugia, pronunciando quale giudice di rinvio all’esito della sentenza di questa Corte n. 29676/2017, con cui è stata cassata la sentenza d’appello che aveva dichiarato inammissibile l’appello perché introdotto con ricorso e non con citazione, ha rigettato l’appello proposto da M.K., cittadino del Bangladesh, avverso l’ordinanza del Tribunale di Perugia di rigetto della sua domanda avente ad oggetto in via gradata il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. Il richiedente riferiva di essere stato costretto a lasciare definitivamente il proprio Paese in quanto membro del partito di opposizione *****, con la carica di segretario della sezione del suo villaggio, come da tessera di appartenenza a detto partito prodotta. La Corte d’appello ha ritenuto che fosse non credibile la vicenda personale narrata dal richiedente e che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, avuto anche riguardo alla situazione generale del Bangladesh, nel contempo rilevando che non era stata dedotta dal richiedente la minaccia alla vita derivante dalla situazione di violenza indiscriminata per un conflitto nel Paese di origine.

2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno, che è rimasto intimato.

4. All’esito della pubblicazione della sentenza n. 24413/2021 delle Sezioni Unite di questa Corte, il ricorso è stato nuovamente fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis.1 c.p.c.. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I motivi di ricorso sono così rubricati:”I. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,514, al D.Lgs n. 25 del 2008, artt. 3,8,32, al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1 e 1.1, al D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28, per non aver valutato la Corte di Appello di Perugia la credibilità sulla base dei parametri stabiliti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5; II. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 14, ed in particolare alla lett. B e C e al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 25 e agli artt. 2, 3, 4, 5, 9 CEDU; III. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,5, al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 3,8,32, al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1 e comma 1.1, del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28, nonché per aver omesso esame di due fatti decisivi ai fini del giudizio che erano stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c. n. 5". Con il primo motivo il ricorrente si duole del giudizio di non credibilità della vicenda personale narrata espresso dalla Corte di merito, che assume effettuato senza applicare i parametri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, senza lo svolgimento di alcuna indagine istruttoria ufficiosa e senza tenere conto della documentazione da egli prodotta (certificato di nascita, di nazionalità e di appartenenza al *****, nonché avviso di indagine nei suoi confronti del 2021). Con il secondo motivo si duole del mancato riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b), per non avere la Corte d’appello valutato, tramite acquisizione di informazioni ufficiose, tratte da fonti di conoscenza, sul contesto politico, giudiziario e carcerario del Bangladesh, le allegazioni del ricorrente, soggetto esposto politicamente, sui rischi in caso di rimpatrio, anche in considerazione del fatto che, prima di fuggire, il ricorrente era stato falsamente accusato dell’omicidio di una persona a causa di un complotto ordito nei suoi confronti dai membri del partito opposto *****, andato al governo, era stato arrestato per questo e di seguito scarcerato su cauzione, ma sottoposto all’obbligo di firma. Si duole altresì del mancato riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per avere la Corte d’appello escluso la situazione di violenza indiscriminata senza citare alcuna fonte di conoscenza, in contrasto con i principi affermati da questa Corte, come da pronunce che richiama. Con il terzo motivo si duole del diniego della protezione umanitaria, denunciando vizi di violazione di legge e omesso esame di fatti decisivi, e rileva che: a) la vicenda personale rappresentata, ove non ritenuta idonea al riconoscimento delle forme di protezione maggiori, avrebbe in ogni caso potuto condurre al riconoscimento della protezione umanitaria, avendo dato atto la stessa Corte d’appello dell’esistenza di attacchi terroristici e scontri politici nel suo Paese; b) era stato omesso l’esame del narrato, verbalizzato in sede di audizione e documentato in sede di appello, circa il suo transito in Libia, che assume essere stato dichiarato credibile, ove aveva subito rapina e violenza fisica, essendo noto che in quel Paese vi sia una situazione di violenza indiscriminata e di violenze sui migranti, come da report di Amnesty International, sicché erroneamente la Corte d’appello non aveva esaminato, né svolto indagini circa le sofferenze certamente patite dal ricorrente in Libia; c) la Corte d’appello aveva omesso di effettuare una comparazione tra la situazione oggettiva, in ordine alla tutela dei diritti ineliminabili, e soggettiva del richiedente nel Paese di origine e quella di integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza.

2. I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.

2.1. Le censure riferite al giudizio di non credibilità, sotto l’apparente denuncia del vizio di violazione di legge, sono in realtà dirette a sollecitare il riesame del merito. La Corte d’appello ha evidenziato, con motivazione adeguata e facendo applicazione dei parametri legali di cui al D.Lgs. n. 151 del 2007, art. 3, plurimi profili di inverosimiglianza e contraddittorietà del narrato (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata, in cui si rileva che il richiedente nulla ha saputo riferire sul programma del partito *****, pur asserendo di avere rivestito in quel partito un ruolo apicale, che ha organizzato la sua partenza dal Paese in sei mesi, che è stato scarcerato con solo obbligo di firma così come imposto a tutti gli altri suoi compagni di partito, tutti liberati dopo l’arresto, e infine che il Sindaco sa della sua innocenza e potrebbe testimoniare in suo favore nel processo non ancora svolto, mentre nulla era emerso della riferita successiva denuncia, né il richiedente aveva subito trattamenti degradanti). L’art. 3 citato obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna, ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda (da ultimo Cass. n. 21142/2019; Cass. n. 20580/2019).

Il ricorrente contrappone la propria ricostruzione dei fatti narrati a quella effettuata dai giudici di merito e si duole dell’omessa attivazione dei doveri istruttori ufficiosi, che, invece, non vi è ragione di effettuare, una volta esclusa la credibilità della vicenda personale allegata (tra le tante Cass. n. 3340/2019 e Cass. n. 27336/2018).

2.2. La censura relativa al diniego della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 151 del 2007, art. 14, lett. c), non si confronta con il decisum sul punto e difetta di autosufficienza. La Corte d’appello ha affermato che il richiedente non aveva dedotto la minaccia alla vita derivante dalla situazione di violenza indiscriminata per un conflitto nel Paese di origine (pag. 7 sentenza impugnata), e sul suddetto difetto di allegazione, espressamente rimarcato dalla Corte di merito, non si rinviene in ricorso una specifica censura, né il ricorrente precisa come, dove e quando abbia svolto quella deduzione nell’atto di appello.

3. Il terzo motivo, che ha ad oggetto il diniego della protezione umanitaria, nella specie disciplinata dal regime anteriore a quello introdotto dal D.L. n. 113 del 2018, è fondato nei limiti che si vanno ad illustrare.

3.1. E’ inammissibile per difetto di autosufficienza la censura relativa alle sofferenze che il ricorrente assume di aver patito durante il transito e la permanenza in Libia. Nella sentenza non si rinviene menzione dell’allegazione della suddetta circostanza e il ricorrente non precisa dove, come e quando abbia dedotto la permanenza in Libia, di durata nemmeno indicata (pag. 17 ricorso), come causa di sua vulnerabilità nell’atto di appello, né tale allegazione risulta dai motivi d’appello sintetizzati nel ricorso (cfr. pag. 5).

3.2. Sono, invece, fondate le censure espresse in ricorso con riferimento al giudizio di comparazione tra le condizioni di vita (grado di integrazione) del richiedente in Italia e quella che egli potrebbe avere in caso di rientro nel paese di origine.

Con la recente sentenza n. 24413/2021, le Sezioni Unite di questa Corte, nel ribadire quanto già affermato con la precedente sentenza n. 29459/2019 circa i caratteri di concretezza ed effettività connotanti il suddetto giudizio, hanno ulteriormente chiarito che i due termini di comparazione sono legati in senso inversamente proporzionale tra loro. In particolare, il maggior grado di integrazione in Italia ovvero le condizioni di vita ben integrate e documentate da parte dello straniero determineranno un minor peso della condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, e ciò in quanto la persona ben integrata e radicata, ove rimpatriata, potrebbe subire un effettivo scadimento delle condizioni di vita personali, familiari e lavorative, con il conseguente probabile vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU. Il giudizio di comparazione, dunque, dovrà essere effettuato tenendo conto della necessaria correlazione tra gli elementi sopra indicati in rapporto di proporzionalità inversa, mediante attribuzione ai rispettivi fattori di comparazione di un diverso peso nel senso precisato, non potendo porsi su un piano di equivalenza le documentate condizioni di integrazione e la situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine. L’indagine andrà condotta alla stregua del disposto dell’art. 8 CEDU, ossia occorrerà verificare se sussista il profilo di vulnerabilità legato alla comparazione tra il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine e le condizioni di integrazione dal medesimo raggiunta in Italia nel tempo necessario al compimento dell’esame della sua domanda di protezione in sede amministrativa e giudiziaria. A tal fine, eccezion fatta per le ipotesi di radicale incertezza sulla identità o nazionalità stessa del richiedente, non è di ostacolo al riconoscimento del beneficio domandato la ritenuta non credibilità del racconto della vicenda personale reso dal richiedente asilo, dovendosi apprezzare le conseguenze del rimpatrio sulla base delle condizioni generali del Paese di origine correlate alla sua posizione individuale.

Occorre altresì precisare che, in tema di protezione complementare di diritto nazionale, di protezione umanitaria in regime transitorio o di protezione speciale introdotta dal D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 173, sul giudice del procedimento incombe il dovere di cooperazione istruttoria, che attiene alla prova dei fatti e non alla loro allegazione, previsto in tema di esame delle domande di protezione internazionale, ai sensi dell’art. 4 della Direttiva CE 13.12.2011, n. 95, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3,D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e dello stesso D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9 e art. 27, comma 1 bis, limitatamente alle circostanze concernenti la situazione sociale, economica o politica del Paese di provenienza del richiedente e non, quindi, relativamente alle circostanze attinenti alla integrazione sociale, culturale, lavorativa e familiare del richiedente asilo in Italia. In definitiva e in sintesi, alla stregua dei principi affermati con la citata recente pronuncia delle Sezioni Unite, i giudici di merito dovranno accertare: i) se il richiedente abbia dimostrato di aver raggiunto un apprezzabile livello di integrazione in Italia (influendo “..nel giudizio sulla vulnerabilità, non solo il rischio di danni futuri – legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel paese d’origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita..” così Cass. S.U. 24413/2021 citata); in caso di positivo accertamento del primo requisito, se il ritorno nel paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, e da far ritenere perciò sussistente un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U. Imm. e ciò mediante comparazione tra la situazione del Paese di origine e il grado di integrazione in Italia da effettuarsi in rapporto di proporzionalità inversa.

3.3. Nel caso di specie, la Corte di merito ha dato atto (pag. 4 sentenza) che il ricorrente ha una buona padronanza della lingua italiana e da gennaio 2018 è stato assunto a tempo indeterminato come lavapiatti, nonché ha dato atto che nel Paese di origine il richiedente ha la nuova moglie sposata per procura, ma non ha effettuato il giudizio comparativo secondo i principi di cui si è detto, essendosi limitata ad affermare che nessun particolare rilievo potesse attribuirsi alla circostanza che il richiedente avesse trovato soluzione lavorativa in Italia.

4. In conclusione, il terzo motivo va accolto nel senso precisato, la sentenza impugnata va cassata, nei limiti del motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il terzo motivo di ricorso, dichiarati inammissibili i primi due motivi, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022

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