LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18669-2019 proposto da:
B.T., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO MESITI;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO STUMPO, MAURO SFERRAZZA, VINCENZO TRIOLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 692/2018 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 19/12/2018 R.G.N. 580/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/09/2021 dal Consigliere Dott. ALFONSINA DE FELICE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA’, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato DOMENICO MESITI;
udito l’avvocato SAMUELA PISCHEDDA per delega verbale dell’avvocato MAURO SFERRAZZA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato la pronuncia del Tribunale di Palmi che aveva rigettato la domanda di B.T. volta alla declaratoria del proprio diritto ad aver corrisposta l’indennità di disoccupazione agricola spettantele quale operaia a tempo determinato parametrandone il valore al salario medio convenzionale per la provincia di Reggio Calabria ovvero, in subordine, al salario minimo contrattuale previsto dal contratto provinciale di lavoro per gli operai agricoli e florovivaisti della medesima provincia, da maggiorarsi del c.d. terzo elemento, nonché del proprio diritto ad aver corrispondentemente accreditata la relativa contribuzione figurativa.
La Corte, per quanto rileva in questa sede, ha dapprima escluso che la disciplina del salario medio convenzionale di cui al D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28, ed alla L. n. 233 del 1990, art. 7, rilevasse ai fini del calcolo dell’indennità di disoccupazione agricola degli operai agricoli a tempo determinato; in secondo luogo, ha disatteso la tesi volta a maggiorare di una percentuale corrispondente al c.d. terzo elemento la retribuzione del contratto provinciale da assumere a base di calcolo dell’anzidetta indennità, ritenendo che il terzo elemento vi fosse già incluso; da ultimo, ha consequenzialmente rilevato l’infondatezza della domanda concernente la rideterminazione della contribuzione figurativa per i periodi di disoccupazione, siccome fondata su presupposti di cui aveva previamente verificato l’inconsistenza, e ha compensato le spese del grado ex art. 152 att. c.p.c..
Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione B.T., deducendo cinque motivi di censura. L’INPS ha resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria.
Il P.G. ha proposto il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28, e della L. n. 233 del 1990, art. 7, nonché del D.L. n. 2 del 2006, art. 1 (rectius, 01), comma 4, (conv. con L. n. 81 del 2006), in relazione alla L. n. 334 del 1968, art. 8, e al D.L. n. 338 del 1989, art. 1, (conv. con L. n. 389 del 1989), ed altresì della L. n. 191 del 2009, art. 2, commi 5 e 153, per avere la Corte di merito ritenuto che la disciplina del salario medio convenzionale di cui al D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28, ed alla L. n. 233 del 1990, art. 7, non rilevasse ai fini del calcolo dell’indennità di disoccupazione agricola degli operai agricoli a tempo determinato: ad avviso di parte ricorrente, infatti, avendo la L. n. 296 del 1996, art. 1, comma 785, proceduto ad interpretare autenticamente il D.L. n. 2 del 2006, cit., art. 01, comma 4, prevedendo che per i soggetti di cui alla L. n. 334 del 1968, art. 8, e per gli iscritti alla Gestione dei coltivatori diretti, coloni e mezzadri continuino a trovare applicazione le disposizioni di cui al D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28 ed alla L. n. 233 del 1990, art. 7, la disciplina del salario medio convenzionale sarebbe tuttora applicabile anche ai fini della determinazione delle prestazioni previdenziali dovute agli operai agricoli a tempo determinato, in virtù dell’equiparazione sancita dalla L. n. 334 del 1968, art. 8, tra costoro e i compartecipanti familiari e i piccoli coloni, e con la rilevante differenza, rispetto al regime previgente, che tale salario medio andrebbe adesso rilevato con riguardo all’anno cui si riferisce la prestazione e salva comunque l’applicazione del D.L. n. 338 del 1989, cit., art. 1, che attribuisce invece rilievo, se superiore, alla retribuzione dovuta in forza di contratti collettivi o accordi individuali.
Con il secondo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché dell’art. 49 CCNL per gli operai agricoli e florovivaisti del 25.5.2010 e dell’art. 14 CCP per gli operai agricoli e florovivaisti della provincia di Reggio Calabria del 14.3.2013, per avere la Corte territoriale ritenuto che il salario contrattuale indicato dal contratto collettivo provinciale cit. non dovesse essere maggiorato del 30,44% a titolo di c.d. terzo elemento, in quanto il valore della retribuzione prevista dal medesimo contratto per gli operai agricoli a tempo determinato sarebbe già stato calcolato in modo comprensivo del terzo elemento stesso.
Con il terzo motivo, si duole di violazione e falsa applicazione della L. n. 264 del 1949, art. 32, del D.L. n. 942 del 1977, art. 3, (conv. con L. n. 41 del 1978), e del L. n. 155 del 1981, art. 8, per avere la Corte di merito rigettato la domanda volta alla consequenziale riliquidazione della contribuzione figurativa accreditatale per i periodi di disoccupazione.
Con il quarto motivo, censura la sentenza impugnata per aver ingiustamente rigettato l’appello e aver conseguentemente esonerato l’INPS dall’obbligo di rifonderle le spese di lite.
Con il quinto motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 152 att. c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto che il deposito in grado di appello della dichiarazione reddituale non valesse a guadagnarle la compensazione delle spese (anche) del primo grado del giudizio.
Ciò posto, il primo motivo è infondato.
Com’e’ noto, le prestazioni per la disoccupazione spettanti ai lavoratori agricoli hanno storicamente presentato almeno due profili di specificità rispetto a quelle previste per la restante parte dei lavoratori subordinati: da un lato, per le peculiari modalità di accertamento e riscossione, che ne fanno, più che una provvidenza per contrastare la disoccupazione involontaria, uno strumento d’integrazione del reddito per indennizzare la precarietà, la discontinuità o stagionalità dell’attività svolta in agricoltura (cfr. da ult. in tal senso Cass. n. 21564 del 2017, sulla scorta, ex aliis, di Cass. S.U. n. 6491 del 1996 e Corte Cost. n. 53 del 2017); dall’altro lato, per la platea dei potenziali beneficiari, che – ben prima delle note modifiche nel regime dell’indennità ordinaria di disoccupazione – ha incluso anche i lavoratori autonomi tipici del settore agricolo, vale a dire i compartecipanti familiari, i piccoli coloni e i piccoli coltivatori diretti (cfr. L. n. 334 del 1968, art. 8).
Tali specificità hanno a loro volta dato luogo al problema della retribuzione sulla cui base commisurare i contributi e le prestazioni previdenziali spettanti ai lavoratori agricoli: e ciò non soltanto per la difficoltà di assumere quale base di calcolo retribuzioni che sono alquanto variabili nel corso dell’anno, ma altresì per l’impossibilità di configurare una “retribuzione” per i lavoratori autonomi, che pure sono beneficiari delle prestazioni di disoccupazione.
Proprio per ciò, pressoché coevamente all’estensione ai lavoratori autonomi del beneficio delle prestazioni previdenziali previste per gli operai agricoli, il legislatore previde di ricorrere, per la determinazione dei contributi dovuti in favore dei lavoratori agricoli, ad un sistema di determinazione “virtuale” delle retribuzioni, mediante decreti del Ministro del lavoro emanati sulla base delle retribuzioni risultanti dai contratti collettivi di lavoro stipulati per le suddette categorie di lavoratori dalla organizzazioni sindacali interessate (cfr. D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28); e a tale sistema fece logicamente riferimento la L. n. 457 del 1972, art. 3, per individuare la base di calcolo su cui commisurare le prestazioni dovute nei loro confronti.
Tale sistema di individuazione della retribuzione imponibile e della retribuzione parametro fu dapprima modificato dal D.Lgs. n. 146 del 1997, art. 4, (emanato in attuazione della delega di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 24, lett. g)), con cui si previde che, a decorrere dal 1.1.1998, il salario medio convenzionale determinato con decreto del Ministro del lavoro e rilevato nel 1995 restasse fermo, ai fini della contribuzione e delle prestazioni temporanee, fino a quando il suo importo per le singole qualifiche degli operai agricoli non venisse superato a quello spettante nelle singole province in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (cfr. in tal senso Cass. n. 10546 del 2007), e poi definitivamente abbandonato “per tutte le categorie di lavoratori agricoli a tempo determinato e indeterminato” dal D.L. n. 2 del 2006, art. 01, commi 4-5, (introdotto dalla L. di conversione n. 81 del 2006), che ha stabilito, per quanto qui rileva, che a decorrere dall’1.1.2006 la retribuzione imponibile per il calcolo dei contributi agricoli unificati debba essere parametrata a quella di cui al D.L. n. 338 del 1989, art. 1, comma 1, (conv. con L. n. 389 del 1989), e che, con la medesima decorrenza, tale retribuzione debba valere anche ai fini del calcolo delle prestazioni temporanee previste in favore degli operai agricoli a tempo determinato.
Sennonché, il riferimento alla retribuzione prevista dai contratti collettivi, che di certo costituisce una sicura base di riferimento sia per la determinazione della retribuzione imponibile che per la retribuzione parametro “per tutte le categorie di lavoratori agricoli a tempo determinato e indeterminato”, non è apparso congruo al legislatore per la determinazione dei contributi e delle prestazioni nei riguardi dei lavoratori autonomi: proprio per ciò, la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 785, ha previsto che la disposizione del D.L. n. 2 del 2006, cit., art. 01, comma 4, dovesse interpretarsi nel senso che “per i soggetti di cui alla L. 12 marzo 1968, n. 334, art. 8 e per gli iscritti alla gestione dei coltivatori diretti, coloni e mezzadri continuano a trovare applicazione le disposizioni recate dal D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, art. 28 e dalla L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 7”, facendo così salvo, per costoro, il precedente regime del calcolo dei contributi e delle prestazioni sulla base del salario medio convenzionale.
Così ricostruito il quadro normativo, deve anzitutto escludersi che il richiamo della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 785, alla L. n. 334 del 1968, art. 8, possa avere il significato di reintrodurre, per la determinazione dei contributi e delle prestazioni dovute ai lavoratori agricoli a tempo determinato, il precedente sistema del salario medio convenzionale: trattandosi di norma recante interpretazione autentica del D.L. n. 2 del 2006, cit., art. 01, essa deve leggersi congiuntamente alla norma interpretata (cfr. in tal senso Corte Cost. nn. 424 del 1993 e 397 del 1994), che – al contrario – ha previsto che “per tutte le categorie di lavoratori agricoli a tempo determinato e indeterminato” si abbia riferimento alla retribuzione di cui al D.L. n. 338 del 1989, art. 1, comma 1; e dunque, la circostanza che essa abbia fatto salve le disposizioni di cui al D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28, per “i soggetti di cui alla L. 12 marzo 1968, n. 334, art. 8”, che a sua volta, al comma 1, equiparava “i compartecipanti familiari ed i piccoli coloni (…) ai giornalieri di campagna” (ossia agli operai agricoli a tempo determinato), non può logicamente implicare una reviviscenza del sistema del salario medio convenzionale anche per gli operai a tempo determinato, dal momento che il riferimento ai “giornalieri di campagna”, nella disposizione richiamata dalla norma d’interpretazione autentica, aveva piuttosto la funzione di indicare in costoro la categoria di prestatori cui rifarsi per l’individuazione dei contributi da versare e delle prestazioni da corrispondere ai compartecipanti familiari e ai piccoli coloni, che ne erano sprovvisti, e non viceversa di estendere ai giornalieri di campagna il trattamento proprio dei compartecipanti familiari e dei piccoli coloni. Prova ne sia che la L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 55, espressamente stabilisce, per quanto qui rileva, che “per gli operai agricoli a tempo determinato e le figure equiparate, l’importo giornaliero dell’indennità ordinaria di disoccupazione (…) è fissato con riferimento ai trattamenti aventi decorrenza dal 1 gennaio 2008 nella misura del 40 per cento della retribuzione indicata al D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 dicembre 1989, n. 389, ed è corrisposto per il numero di giornate di iscrizione negli elenchi nominativi, entro il limite di 365 giornate del parametro annuo di riferimento”.
Ne’ contrari argomenti possono desumersi dal fatto che la L. n. 334 del 1968, art. 8, disciplina, al comma 2, la possibilità che “i lavoratori agricoli che siano iscritti negli elenchi speciali dei giornalieri di campagna per meno di 51 giornate annue e che svolgano anche attività di coltivatore diretto per la conduzione di fondi il cui fabbisogno di giornate sia inferiore a quello minimo previsto dalla L. 9 gennaio 1963, n. 9, per l’iscrizione negli elenchi deì coltivatori diretti, poss(a)no integrare le giornate di iscrizione negli elenchi dei giornalieri di campagna fino alla concorrenza di 51 giornate annue”: si tratta infatti di una disposizione riferita a coloro che, in quanto operai agricoli a tempo determinato, non hanno potuto acquisire il presupposto per l’iscrizione negli elenchi (a sua volta condizione per l’accesso alle prestazioni) e che, in quanto contemporaneamente lavoratori autonomi (coltivatori diretti), sia pure di un fondo che non garantisce loro il numero minimo di giornate per un’utile iscrizione negli elenchi, vogliono integrare, mediante versamenti contributivi volontari, la contribuzione necessaria all’iscrizione per 51 giornate (cfr. L. n. 334 del 1968, art. 8, comma 3); e trattandosi di disposizione riferentesi anch’essa al lavoro autonomo, dal momento che è come lavoratori autonomi che i lavoratori in questione potranno beneficiare delle prestazioni temporanee per i lavoratori agricoli, è affatto consequenziale che tali prestazioni debbano essere liquidate giusta la base di calcolo del salario medio convenzionale, siccome fatta salva dalla norma d’interpretazione autentica di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 785.
In questo senso, il fatto che la L. n. 191 del 2009, art. 2, si sia successivamente preoccupato di dissipare taluni possibili dubbi interpretativi in ordine al termine per la rilevazione della media delle retribuzioni ai fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a tempo determinato nonché in merito al salario medio convenzionale da utilizzare quale base di calcolo dei contributi da versare per le prestazioni di maternità e paternità, dettando alla L. n. 457 del 1972, art. 3, comma 3, comma 5, disposizioni d’interpretazione autentica e al comma 153, disposizioni per l’interpretazione autentica del T.U. n. 151 del 2001, art. 63, comma 6, lungi dal confermare che il legislatore presupponesse la persistente applicabilità del sistema del salario agricolo medio ai fini del calcolo della contribuzione e delle prestazioni per gli operai agricoli a tempo determinato, come ritenuto da parte ricorrente, vale piuttosto a confermare che quel sistema è bensì rimasto in vigore, ma soltanto per la determinazione della contribuzione e delle prestazioni relative ai lavoratori autonomi dell’agricoltura; né può rilevare in contrario il fatto che – come nella fattispecie sottoposta al vaglio di Corte Cost. n. 121 del 2019 – l’INPS continui a ricorrere al sistema di cui al D.Lgs. n. 375 del 1993, art. 8, comma 3, (per come sostituito dal D.L. n. 510 del 1996, art. 9-ter, comma 3, quinto periodo, conv. con L. n. 608 del 1996), per determinare la contribuzione dovuta nel caso in cui si abbia motivo di presumere un’evasione contributiva ma non si sia pervenuti all’identificazione dei lavoratori in danno dei quali essa si sarebbe consumata, commisurandola conseguentemente al salario medio convenzionale invece che alle retribuzioni dovute sulla base dei contratti collettivi, ai sensi del D.L. n. 338 del 1989, ex art. 1, comma 1: oggetto della pronuncia del giudice delle leggi era infatti la legittimità costituzionale di quella specifica previsione normativa, che a sua volta è stata formulata e rimodernata in epoca anteriore all’introduzione del D.L. n. 2 del 2006, art. 01, comma 4, e non può logicamente trarsi dalla sua perdurante vigenza alcuna inferenza circa la volontà del legislatore successivo di non innovare nel sistema del salario medio convenzionale nel senso che si è dianzi esposto.
Si deve semmai aggiungere che, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, il riferimento alle “leggi” contenuto nel D.L. n. 338 del 1989, art. 1, non può logicamente estendersi a ricomprendere anche il sistema di rilevazione del salario medio convenzionale di cui al D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28, per modo che, quando quest’ultimo sia superiore al c.d. salario contrattuale, i contributi agricoli e le prestazioni previdenziali temporanee riferite ai lavoratori dello stesso settore debbano essere parametrate al primo: è sufficiente al riguardo rilevare che una simile suggestiva interpretazione è stata precisamente impedita dallo stesso legislatore allorché, con il D.L. n. 2 del 2006, art. 01, e poi con la L. n. 247 del 2007, art. 1, ha voluto differenziare il regime degli operai a tempo determinato da quello dei lavoratori autonomi dell’agricoltura. Ne’ pare al Collegio che tale differenziazione possa dar adito a dubbi di legittimità costituzionale per disparità di trattamento, avendo il giudice delle leggi più volte affermato che la necessaria tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”, di cui all’art. 35 Cost., non impedisce al legislatore di approntare tutele differenziate in ragione di tali diverse forme (cfr., fra le tante, Corte Cost. nn. 365 del 1995 e 165 del 1972); mentre, con riguardo all’ipotesi circa la possibilità di una disparità di trattamento tra gli stessi operai a tempo determinato allorché per taluni l’accredito dei contributi consegua ad un accertamento ispettivo ai sensi del D.Lgs. n. 375 del 1993, art. 8, comma 3, mentre per altri al regolare versamento da parte del datore di lavoro, è agevole rilevare che, qualora realmente tale differenza desse luogo a diversità nelle prestazioni da corrispondere agli operai agricoli a tempo determinato, ne potrebbe se del caso venire un sospetto d’incostituzionalità del D.Lgs. n. 375 del 1993, art. 8, che nella presente fattispecie non viene affatto in rilievo, ma non anche delle disposizioni del D.L. n. 2 del 2006, art. 01, commi 4-5, e della L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 55, che qui si è invece chiamati ad interpretare.
Dovendo pertanto ritenersi che tali ultime disposizioni abbiano comportato, ai fini della determinazione dei contributi da versare e delle prestazioni temporanee da corrispondere agli operai agricoli a tempo determinato, il definitivo superamento del sistema del salario medio convenzionale di cui al D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28 e la sua sostituzione con il criterio della retribuzione prevista dai contratti collettivi di cui al D.L. n. 338 del 1989, art. 1, comma 1, le doglianze di parte ricorrente vanno sul punto disattese.
Parimenti infondato è il secondo motivo.
Va premesso, al riguardo, che la denuncia di violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro è ammissibile limitatamente ai contratti collettivi nazionali, con esclusione dunque dei contratti collettivi provinciali (così da ult. Cass. n. 551 del 2021), per i quali ultimi la censura rimane possibile, così come in genere per i contratti di diritto comune, nei limiti della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. ovvero dell’omesso esame circa fatti decisivi (giurisprudenza costante fin da Cass. n. 947 del 1962).
Ciò posto, va rilevato che, nel motivare il rigetto della domanda proposta da parte ricorrente, i giudici di merito non hanno affatto negato che, giusta la previsione dell’art. 49 CCNL del 25.5.2010, il terzo elemento debba entrare a far parte della retribuzione spettante agli operai a tempo determinato, siccome emolumento che remunera festività nazionali e infrasettimanali, ferie, tredicesima e quattordicesima mensilità, né che esso debba essere pari al 30,44% del salario contrattuale come definito dal contratto provinciale, ma hanno piuttosto ritenuto, sulla base di un’interpretazione sistematica condotta ex art. 1363 c.c., che la retribuzione indicata per gli operai agricoli a tempo determinato nel contratto collettivo provinciale del 14 marzo 2013, art. 14, fosse già comprensiva del terzo elemento, calcolato quale maggiorazione del 30,44% della retribuzione spettante agli operai a tempo indeterminato (cfr. pagg. 6-7 della sentenza impugnata). E considerato che nell’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune ruolo preminente dev’essere assegnato alla regola di cui all’art. 1363 c.c., stante la natura complessa e particolare dell’iter formativo della contrattazione sindacale, la non agevole ricostruzione della comune volontà delle parti contrattuali attraverso il mero riferimento al senso letterale delle parole, l’articolazione della contrattazione su diversi livelli, la vastità e complessità della materia trattata in ragione dei molteplici profili della posizione lavorativa e, da ultimo, il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali, che include il ricorso a strumenti sconosciuti alla negoziazione tra parti private quali preamboli, premesse, note a verbale, ecc. (così, tra le più recenti, Cass. n. 11834 del 2009), nessuna violazione degli anzidetti canoni di ermeneutica può rimproverarsi alla sentenza impugnata; né, a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi in ragione della plausibilità della diversa interpretazione del contratto provinciale propugnata nel ricorso per cassazione, essendosi da tempo chiarito che la censura per cassazione dell’interpretazione del contratto fatta propria dal giudice di merito non può risolversi nella mera prospettazione di un’interpretazione ritenuta più confacente alle aspettative della parte ricorrente rispetto a quella accolta nella sentenza impugnata (così Cass. nn. 9950 del 2001, 319 del 2003 e innumerevoli successive conformi).
Considerato che l’infondatezza dei primi due motivi determina l’assorbimento del terzo e del quarto, affatto infondato e’, infine, il quinto motivo di censura: è sufficiente sul punto ricordare che dalla previsione di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c., che fa carico alla parte, che versi nelle condizioni reddituali per poter beneficiare dell’esonero degli oneri processuali in caso di soccombenza, di rendere apposita dichiarazione sostitutiva “nelle conclusioni dell’atto introduttivo”, impegnandosi “a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell’anno precedente”, si può bensì ricavare che l’autocertificazione allegata al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado può esplicare la sua efficacia anche nelle fasi successive, così come pure che l’interessato conserva la facoltà di rendere tale dichiarazione nei gradi successivi al primo, ove le condizioni dell’esonero fossero originariamente insussistenti e si siano concretizzate nel prosieguo del giudizio (così Cass. nn. 16284 del 2011 e 21630 del 2013), ma non anche che la dichiarazione resa in grado successivo al primo possa valere a guadagnare alla parte, che non l’abbia allegata al giudizio di primo grado, l’esonero dalle spese di quel procedimento: a tale dichiarazione, infatti, la legge riconnette un’assunzione di responsabilità che, oltre ad essere personalissima e non delegabile al difensore (così Cass. n. 5363 del 2012 e succ. conf.), segna il punto di bilanciamento tra l’esigenza di assicurare l’effettivo accesso alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti e quella di prevenire e reprimere gli abusi, resa palese dal rinvio dell’art. 152 att. c.p.c. ai controlli della Guardia di Finanza di cui all’art. 88, T.U. n. 115/2002; ed è evidente che tale ultima esigenza resterebbe inevitabilmente . frustrata laddove si consentisse l’ingresso nel processo di dichiarazioni autocertificative di un passato non più suscettibile di controllo alcuno.
Il ricorso, pertanto, va rigettato, nulla pronunciandosi sulle spese del giudizio di legittimità ex art. 152 att. c.p.c..
Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, alla Pubblica Udienza, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022