LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9376-2016 proposto da:
D.G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 82, presso lo studio dell’avvocato LEONIDA CARNEVALE, rappresentato e difeso dall’avvocato EMILIO BAFILE;
– ricorrente –
contro
I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati EMILIA FAVATA, LUCIANA ROMBO, che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 951/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 09/10/2015 R.G.N. 118/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/11/2021 dal Consigliere Dott. ALFONSINA DE FELICE;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MUCCI ROBERTO, visto il D.L. n. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di L’Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha accolto il ricorso dell’INAIL diretto a sentir dichiarare non dovuto l’indennizzo per danno da malattia professionale (ernia discale lombare) in favore di D.G.M., operaio addetto alla movimentazione di carichi con carrello manovrato a mano.
La Corte territoriale ha affermato che gli esiti dell’istruttoria testimoniale assunta in primo grado avevano ridimensionato la gravosità del lavoro svolto dal D.G.: il carrello era usualmente utilizzato in coppia con altro lavoratore; la distanza di percorrenza non era di 100 metri bensì di 20-30 metri; la gran parte dei pacchi movimentati non superava il peso di 10 kg.
Pertanto, il fatto che il lavoratore non fosse soggetto a una seria esposizione al rischio, ha indotto i giudici di secondo grado ad escludere la sussistenza del nesso causale tra la malattia diagnosticata e le mansioni espletate.
La cassazione della sentenza è domandata da D.G.M. sulla base di tre motivi.
L’INAIL ha depositato tempestivo controricorso.
Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; il giudice d’Appello avrebbe omesso di valutare talune significative circostanze che sarebbero emerse in seguito all’istruttoria svolta in primo grado, che, se apprezzate, avrebbero condotto al riconoscimento del beneficio richiesto.
Il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto”; la Corte d’appello, in palese violazione dell’art. 115 c.p.c., non avrebbe dato conto delle ragioni del proprio scostamento rispetto alle valutazioni ben argomentate nella sentenza di primo grado, limitandosi a concludere, apoditticamente, sulla base di limitative considerazioni fattuali.
Il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; contesta la motivazione con la quale il giudice dell’appello ha ritenuto di discostarsi anche dalle conclusioni della consulenza tecnica con la motivazione che il perito incaricato, che pur riconoscendo l’esistenza del nesso causale, aveva dichiarato di essere impossibilitato a fornire un giudizio motivato sull’esposizione al rischio, giacché la ditta *****, presso cui il ricorrente aveva lavorato nel periodo interessato era fallita, e, a seguito dell’evento, non era stato possibile recuperare il documento attestante il rischio.
Il primo motivo è inammissibile.
Esso contesta il difetto di motivazione, sebbene non faccia riferimento all’omesso esame “di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulta dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Sez. Un. n. 8053/2014).
In applicazione del richiamato principio di diritto appare evidente che la formulazione della doglianza da parte del ricorrente finisce per denunciare non già l’omesso esame di un fatto storico decisivo, bensì la diversa valorizzazione di risultanze istruttorie da parte della Corte territoriale e, pertanto, essa fuoriesce dai confini entro i quali il codice di rito ritiene ammissibile il sindacato sulla motivazione del provvedimento impugnato.
Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, al fine di dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il Giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (cfr. in tema, Cass. n. 26769 del 2018).
Il principio di diritto sopra richiamato va letto in correlazione con l’altro, secondo cui: “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, bensì un errore di fatto, censurabile, semmai, attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 de 2012, art. 54, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012” (Così Cass. n. 23940 del 2017).
Nel caso in esame, la prospettazione della doglianza avvalora non già la denunciata violazione di norme di diritto, ma manifesta l’intento del ricorrente di contrastare, inammissibilmente, l’esito del giudizio di appello perché difforme dalle proprie attese.
Il terzo motivo è parimenti inammissibile.
Come afferma ormai pacificamente la giurisprudenza di questa Corte, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (ex plurimis, cfr. Cass. n. 23940 del 2017).
Si rileva che la Corte d’appello ha pienamente considerato l’esito della CTU medico legale, la quale aveva specificamente valutato le modalità di esercizio della prestazione con riferimento all’inferiore distanza di percorrenza del dispositivo mobile ovvero alla circostanza che l’attività fosse svolta in coppia. Ed è proprio da tali elementi che la Corte territoriale ha tratto il convincimento di un “ridimensionamento” della gravosità del lavoro tale da escludere la sussistenza del nesso causale tra la malattia diagnosticata e le mansioni espletate.
La Corte ha dato, inoltre, conto del fatto che il Consulente tecnico incaricato, ritenendo di non poter fornire un giudizio motivato sull’esposizione al rischio, aveva indicato che il riconoscimento della matrice professionale rimaneva subordinato alla conferma dell’anamnesi lavorativa emersa dalla prova testimoniale, concludendo sul punto che quest’ultima aveva disatteso la tesi formulata dalla parte appellata.
Pertanto, nel caso in esame, in costanza di un iter argomentativo coerente sul piano logico, nonché esente da vizi, la critica sull’asserita omessa motivazione circa l’entità dell’esposizione al rischio del lavoratore ai fini del riconoscimento della copertura assicurativa si rivela del tutto priva di pregio.
In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Non si provvede sulle spese del presente giudizio, stante l’attestazione, nella sentenza impugnata, dell’esistenza in atti della dichiarazione dell’odierno ricorrente ex art. 152 disp. att. c.p.c., avente ad oggetto l’esenzione dal pagamento delle spese, competenze e onorari nei giudizi per prestazioni previdenziali in capo al soggetto che versi nelle condizioni reddituali per poterne beneficiare (D.L. n. 269 del 2003, art. 42, comma 11, conv. con modifiche nella L. n. 326 del 2003), il cui scopo è quello di non scoraggiare la proposizione di domande giudiziali attinenti alla materia della previdenza/assistenza (Cass. n. 15659 del 2019).
In considerazione dell’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, alla Pubblica Udienza, il 3 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022