LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25993/2019 R.G. proposto da:
T.R.G., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Marco Pisano, e Claudio Lucisano, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Via Crescenzio, n. 91;
– ricorrente –
contro
T.G.A., e ***** S.r.l., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Prof. Gabriele Racugno, ed Elena Stella Richter, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, Via G.
Mazzini, n. 11;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari n. 562/2019, depositata il 26 giugno 2019.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 20 gennaio 2022 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.
FATTI DI CAUSA
1. T.R.G. adì il Tribunale di Lanusei, con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. depositato in data 23 ottobre 2017, chiedendo la condanna della ***** S.r.l. e del suo legale rappresentante T.G.A., in proprio, alla restituzione dell’importo di Euro 300.000.
Espose a fondamento che, in data 25 agosto 2016, a seguito di personale richiesta di quest’ultimo, suo fratello, aveva disposto la vendita di propri titoli obbligazionari e l’accreditamento del relativo ricavato, pari all’importo predetto, sul conto corrente n. ***** intestato alla società ***** S.r.l., importo “utilizzato per il conto corrente personale e/o societario di T.G.A. presso il Banco di Sardegna e da questo incassato per appianare un conto corrente ed altro societario di T.G.” (così è testualmente riferito in sentenza).
Nella resistenza dei convenuti il tribunale, all’esito di istruzione documentale, dichiarò il difetto di legittimazione passiva di T.G. e rigettò la domanda, in quanto proposta nei confronti della società. Rilevò, infatti, che dalla documentazione prodotta, di natura meramente contabile, emergeva bensì prova della disposizione data da T.R. alla banca di vendere i propri titoli e accreditare il ricavato sul conto della società per estinguere un finanziamento su di essa gravante, ma non vi era prova della causa della predetta movimentazione di denaro.
2. Con sentenza n. 562/2019 del 26 giugno 2019 la Corte d’appello di Cagliari ha rigettato il gravame interposto dal soccombente, confermando integralmente la decisione di primo grado.
2.1. Ha anzitutto rilevato che l’appellante – insistendo a dire che la documentazione offerta forniva prova di quanto affermato e che, comunque, egli aveva anche chiesto al riguardo prova per interpello e per testi, e dolendosi del fatto che il tribunale l’avesse negata senza nemmeno disporre il mutamento di rito – non aveva colto la ratio decidendi, giacché il primo giudice non aveva affatto ritenuto non provata la dazione di denaro mediante l’accredito di somme in conto corrente, ma aveva piuttosto rilevato che non era stata provata e nemmeno allegata la causa giustificatrice di tale operazione.
2.2. Ha comunque confermato tale valutazione osservando che, a dar prova della causa petendi, non era sufficiente un ordine di accredito di somme sul conto corrente della società *****, trattandosi di operazione neutra sotto il profilo causale e piuttosto riconducibile all’ipotesi dell’adempimento del terzo.
2.3. Ha soggiunto che anche sotto il profilo assertivo le prospettazioni del T. non risultavano per niente chiare, non essendo dato neppure comprendere, dalle allegazioni contenute nell’atto introduttivo, chi fosse la controparte dell’eventuale contratto di mutuo, ossia se la società ***** oppure T.G.A. o entrambi; al riguardo ha anche evidenziato che alla prima udienza l’istante aveva ulteriormente modificato le proprie allegazioni, deducendo che i titoli per Euro 300.000 erano stati oggetto di prestito personale da parte del ricorrente al proprio fratello T.G.A., al fine del ripianamento del conto corrente della società ***** S.r.l. e che poi, con l’atto di appello, egli era tornato alla tesi di un accredito per estinguere un finanziamento concesso dalla Banca alla società, in ogni caso continuando a non chiarire il rapporto negoziale che dovrebbe giustificare il dedotto obbligo restitutorio e chi ne sarebbe la controparte.
2.4. Ha ancora rilevato la mancanza di specifici motivi diretti a contestare il dichiarato difetto di legittimazione passiva di T.G. e che sul punto la sentenza di primo grado aveva pertanto acquisito autorità di giudicato.
2.5. Ha infine confermato la valutazione di irrilevanza delle richieste istruttorie reiterate in appello, osservando che:
– il capo 2) dell’interrogatorio formale (circa l’avvenuto deposito, da parte del ricorrente, di un importo pari a Euro 316.000,00 su un dossier a garanzia del conto corrente intestato alla società su richiesta personale di T.G.) era generico, non essendo stati indicati neppure i dati di luogo e di tempo in cui tale richiesta sarebbe stata fatta, e in ogni caso verteva su circostanza irrilevante ai fini della decisione;
– il capo 3) era volto solo a confermare l’avvenuta vendita dei titoli per ripianare lo scoperto del conto corrente della società;
– il capo 4) aveva per oggetto le argomentazioni conclusive del ricorrente;
– era inammissibile la prova per testi dedotta sui medesimi capi, sia perché implicanti valutazioni e giudizi preclusi ai testi, sia perché la prova di un contratto non può essere fornita mediante prova testimoniale, stante il divieto posto dall’art. 2721 c.c., non derogabile nella specie, sia perché il ricorrente non aveva allegato la ricorrenza di taluna delle condizioni a tal fine richieste (natura del contratto, qualità delle parti o altra circostanza), sia perché queste non potevano comunque ravvisarsi avuto riguardo alla rilevante entità della somma e alla qualità delle parti: imprenditore il ricorrente e società di capitali la convenuta.
3. Per la cassazione di tale sentenza T.R.G. propone ricorso affidato a sei motivi, cui resistono entrambi gli intimati con unico controricorso.
La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
I controricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con la memoria depositata il 5 gennaio 2022, i procuratori dei controricorrenti hanno comunicato che, con sentenza del 3 febbraio 2021, il Tribunale di Lanusei ha dichiarato il fallimento della ***** S.r.l. ed hanno rilevato che, per effetto di tale dichiarazione, è cessato di diritto il mandato professionale conferito ai difensori dalla predetta società in bonis. Hanno soggiunto che, ciononostante, essi continuano a rappresentare nel presente procedimento il controricorrente T.G.A., non essendo stato lo stesso interessato da alcun evento idoneo a determinarne la perdita della capacità di stare in giudizio.
Al riguardo occorre ribadire che, come del resto rammentato anche in detta memoria, il fallimento di una delle parti non determina l’interruzione del giudizio di cassazione, il quale, instauratosi con la notificazione ed il deposito del ricorso, è governato dall’impulso d’ufficio, e resta insensibile agli eventi di cui agli artt. 299 e 301 c.p.c. (v. ex multisCass. Sez. U. 21/06/2007, n. 14385; 31/10/2011, n. 22624).
Nessun rilievo pratico ai fini del presente giudizio ha poi il principio affermato dal richiamato arresto di Cass. 24/02/2020, n. 4795 (ma v., per un opposto orientamento, Cass. n. 10989 del 1995; n. 5012 del 1992; n. 6311 del 1990; n. 9074 del 1987; n. 1579 del 1980; n. 6083 del 1979) secondo cui la dichiarazione di fallimento del cliente determina comunque – ancorché sopravvenuta in pendenza di un giudizio di cassazione come tale sottratto, come detto, all’effetto interruttivo automatico previsto dalla L. Fall., art. 43 – lo scioglimento immediato del mandato difensivo e la conseguente perdita di jus postulandi in capo al difensore della parte che, pur continuando a essere formalmente presente nel giudizio, poiché non interrotto, è attinta da tale evento che ne determina la perdita della capacità processuale.
Appare al riguardo assorbente il rilievo che, nella specie, nessun interesse avrebbe la curatela del fallimento (in astratto interessata al subingresso al posto del fallito) a svolgere attività difensiva nella presente fase del giudizio di legittimità, trattandosi di controversia nella quale la società fallita è presente in posizione meramente passiva e di resistenza alla pretesa fatta valere dal ricorrente e considerato anche che l’eventuale accoglimento di questa non sarebbe comunque opponibile alla curatela.
Un differimento, dunque, della trattazione (finalizzato a rendere edotta la curatela della pendenza del presente giudizio di legittimità) si appaleserebbe inutilmente defatigatorio e contrario al principio di ragionevole durata del processo, tanto più trattandosi di ricorso destinato, per le ragioni che si stanno per dire, ad esito di inammissibilità (cfr. Cass. Sez. U. 22/03/2010, n. 6826; Cass. 21/05/2018, n. 12515; 10/05/2018, n. 11287; 17/06/2013, n. 15106).
2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale in relazione all’art. 2697 c.c., ed in relazione alla mancanza di legittimazione passiva dichiarata dai giudici di merito in relazione alla posizione del Sig. T.G.A.”.
Lamenta che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto non dimostrato “quanto sostenuto” a fondamento della domanda.
Sostiene che i documenti prodotti consentivano di avere “certezza assoluta, documentale” che somme ingenti per Euro 300.000 erano a lui transitate alla società ***** S.r.l. di T.G. ed inoltre del fatto che queste erano state richieste indietro.
Afferma che “il contratto di mutuo gratuito era documentalmente provato”, perché oltre alla somma accreditata sul conto della società resistente vi era la prova sempre documentale della diffida legale con cui si richiedeva la restituzione della somma mutuata.
Svolge, inoltre, “due spunti di diritto sulla mancanza di legittimazione passiva dichiarata dai giudici di merito in relazione alla posizione del Sig. T.G.A.” (v. ricorso pag. 25).
3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale in relazione agli artt. 1813,1822,2721,2697 c.c., D.Lgs. n. 385 del 1993; art. 2033 c.c.”.
L’illustrazione del motivo si risolve, essenzialmente, nelle seguenti asserzioni:
– la sentenza impugnata “è chiaramente illegittima perché dà per scontato che non essendo stato stipulato né prodotto un contratto di mutuo per iscritto, lo stesso non possa esistere né tanto meno può essere provato per testimoni come per interrogatorio formale”;
– la corte di merito ha ritenuto inammissibile la prova per testi malamente applicando l’art. 2721 c.c., dal momento che: a) il divieto di prova per testi dei contratti “vale se viene prodotto in giudizio il contratto scritto dove sono indicati diritti ed obblighi, ma nel caso di specie nulla è stato prodotto, perché il contratto non è stato formalizzato per iscritto”; b) il limite di valore all’ammissibilità della prova testimoniale pari ad Euro 2,58, mai rivalutato dall’anno 1942, consente al giudice di fare larghissimo uso della sua facoltà di deroga, ossia della facoltà di ammettere la prova per testi anche per un importo superiore; c) dovendosi tener conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza ex art. 2721 c.c., comma 2, occorreva nella specie considerare che il rapporto era “tra un signore imprenditore ultranovantenne, Dott. T.R.G., ed il proprio fratello T.G., titolare della società ***** S.r.l…. vissuto da sempre all’ombra del fratello, destinatario da sempre di aiuti economici nell’esercizio delle sue attività d’impresa” e che ciò era stato precisato in premessa del ricorso ex art. 702-bis c.p.c.;
– la fattispecie avrebbe potuto essere ricondotta alla previsione dell’art. 2033 c.c.;
– erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che egli non avesse dato prova della causa giustificatrice dell’operazione, atteso che, a tal fine, l’esposizione dei fatti risulta preponderante rispetto all’esposizione degli elementi di diritto; se quest’ultima è generica, infatti, è comunque possibile far ricorso al principio iura novit curia, in forza del quale il giudice può applicare tutte le norme che ritiene adattabili al caso concreto e dare ad esse la qualificazione giuridica che reputa più corretta, a prescindere da quali norme abbiano richiamato le parti nelle rispettive richieste, con il solo limite del necessario rispetto della pretesa sostanziale che nel caso di specie era la richiesta della restituzione dell’ingente somma di denaro.
4. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale in relazione agli artt. 2697 e 2721 c.c., per aver illegittimamente negato al ricorrente l’assolvimento dell’onere della prova in relazione alla causa giustificatrice dell’operazione ed in sintesi dell’erogazione del mutuo e del conseguente obbligo restitutorio in capo alla parte convenuta” (così nell’intestazione).
Lamenta che illegittimamente entrambe le sentenze di merito sono fondate sul rilievo della mancanza di prova di quanto richiesto, dal momento che, oltre ad offrire in produzione i documenti menzionati, la difesa aveva avanzato richiesta di prove orali, interrogatorio formale e prova per testi, al fine di confermare e provare quanto sostenuto nell’atto introduttivo.
Osserva che, in tal modo, i giudici di merito non hanno applicato quanto previsto dall’art. 702-ter c.p.c., il quale prevede che il giudice, ove ritenga che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria, con ordinanza non impugnabile fissa l’udienza di cui all’art. 183.
Vengono poi riproposte le medesime censure già svolte con il secondo motivo con riferimento all’art. 2721 c.c..
5. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo e controverso, per avere la corte d’appello “illegittimamente negato e/o precluso al ricorrente la possibilità di assolvimento dell’onere della prova in relazione alla causa giustificatrice dell’operazione ed in sintesi dell’erogazione del mutuo e del conseguente obbligo restitutorio in capo alla parte convenuta nonché sulla mancanza di legittimazione passiva dichiarata dal giudice in relazione alla posizione del Sig. T.G.A. (Così Cass. Sez. civ. Lavoro. 02.08.2003, n. 11796) – pagina 6, 8 e 9 sentenza impugnata – sulla base di motivazioni apparenti o perplesse – Così Cass. Civ. Sez. III, 22.6.2016 n. 12884” (così testualmente nell’intestazione).
Afferma che “il giudice di appello ha errato nel momento in cui ha ritenuto di non dare ingresso alle richieste istruttorie dell’appellante”, così dando risalto ai soli assunti degli appellati e non consentendo gli di esercitare il suo diritto alla prova.
Sul punto, secondo il ricorrente, la corte territoriale avrebbe offerto motivazioni “meramente apparenti o perplesse”.
6. Con il quinto motivo il ricorrente deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo e controverso, per avere la corte d’appello ” illegittimamente negato e/o precluso al ricorrente la possibilità di assolvimento dell’onere della prova in relazione al dedotto interrogatorio formale finalizzato alla confessione ex artt. 2730 e 2697 c.c. e art. 228 c.p.c., nonché diretto ad accertare la causa giustificatrice dell’operazione ed in sintesi dell’erogazione del mutuo e del conseguente obbligo restitutorio in capo alle parti convenute – pagina 6 e 9 sentenza impugnata – sulla base di motivazioni apparenti o perplesse – Così Cass. Civ. Sez. III, 22.6.2016 n. 12884" (questa la testuale intestazione, in massima parte sovrapponibile a quella del quarto motivo).
Afferma che l’interrogatorio formale era finalizzato a far rendere la confessione sui fatti di causa, ed avrebbe potuto eliminare in radice ogni problema legato all’erogazione del mutuo o prestito gratuito che egli aveva concesso in favore del fratello T.G. per ripianare il conto corrente della sua società.
Lamenta che tale mezzo di prova è stato ritenuto irrilevante con motivazione apparente o perplessa, una semplice formula di stile.
7. Con il sesto motivo il ricorrente deduce infine, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “illegittimità della sentenza impugnata per nullità del procedimento in relazione agli artt. 702-bis c.p.c. e segg.”.
Lamenta che il tribunale, in violazione della detta norma processuale, non ha ritenuto di dover mutare il rito né ha ammesso i mezzi istruttori sommari dedotti nel ricorso introduttivo, omettendo totalmente di motivare tale scelta nell’ordinanza impugnata e che l’errore è stato poi duplicato dalla corte d’appello.
8. Deve anzitutto rilevarsi l’inammissibilità del ricorso nella sua interezza in quanto diretto nei confronti del fratello del ricorrente, T.G.A..
Ne’ il primo motivo, né alcun altro motivo, si dolgono dell’unica ratio della sentenza impugnata, concernente il predetto, che – in base a Cass. Sez. U. 20/02/2007, n. 3840 – risulta impugnabile.
Essa è la declaratoria di inammissibilità dell’appello, in quanto proposto nei confronti del predetto, per non essere stata impugnata in modo specifico l’unica statuizione resa dal tribunale con riferimento al rapporto processuale fra attore e fratello.
Tale statuizione era stata a sua volta quella di inammissibilità della domanda e la sentenza d’appello, a pag. 8, ultima proposizione, l’ha detta impugnata senza critica alla motivazione resa dal primo giudice, conseguentemente affermando che la pronuncia di quest’ultimo doveva ritenersi passata in giudicato.
Tale statuizione della corte territoriale è ignorata dal primo motivo, che vorrebbe discutere della legittimazione del fratello in punto di prova.
Ne segue che non solo il primo motivo, ma il ricorso intero è inammissibile per ciò solo nei riguardi del fratello.
Sono dunque certamente inammissibili le affermazioni, sparse qui e là in ricorso, assertive della sussistenza della legittimazione passiva in capo a T.G..
A tacere della fitta oscurità degli argomenti al riguardo spesi, esse obliterano del tutto il rilievo svolto in sentenza circa l’assenza di specifico motivo di gravame sulla declaratoria di difetto di legittimazione passiva del predetto e la conseguente formazione di giudicato interno sul punto.
9. Il primo motivo è inammissibile anche nella restante parte.
Le censure ivi esposte non si confrontano, ovvero lo fanno alla stregua di asserzioni meramente oppositive e generiche, con l’iniziale e assorbente rilievo svolto in sentenza secondo cui la causa giustificativa della pretesa restitutoria non solo non era stata provata ma, prima ancora, non era stata nemmeno allegata, risultando peraltro anche oscuro o comunque oggetto di indicazioni mutevoli e oscillanti, chi fosse esattamente il soggetto legato a tale (non chiarita) fonte negoziale dell’obbligo restitutorio.
10. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
10.1. Esso si risolve nel postulare non già la violazione delle norme di diritto che indica nell’intestazione, ma prospetta una inammissibile valutazione dei documenti come probatori di un mutuo e, quindi, di una fattispecie di indebito.
Non si tratta di censure in iure, ma in facto.
La mancata ammissione di richiesta istruttoria non può integrare vizio di violazione di legge sostanziale, atteso che a potersi valutare in rapporto alla sua correttezza in iure è la decisione resa sulla domanda giudiziale, non già quella meramente strumentale riguardante le richieste istruttorie, finalizzate solo all’accertamento dei fatti rilevanti.
Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie e’, piuttosto, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
10.2. Il richiamo al principio jura novit curia è poi inconferente atteso che esso riguarda il potere/dovere riservato al giudice di qualificare giuridicamente i fatti così come allegati e provati, non anche quello di dare alle pretese azionate un fondamento anche fattuale che non sia ritualmente dedotto e, se contestato, anche provato dalla parte che ne aveva l’onere.
Il ricorrente, al contrario, intende evidentemente sostenere, reiterando la tesi correttamente respinta da entrambi i giudici di merito, che dal mero fatto della dazione di danaro potesse/dovesse ricavarsi che quella fosse stata fatta a titolo di mutuo o prestito gratuito e che pertanto essa implicasse di per sé un obbligo restitutorio.
In tal modo la tesi si espone anche a rilievo di inammissibilità ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, avendo sul punto deciso, i giudici di merito, conformemente a principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte – peraltro richiamato dallo stesso ricorrente – secondo cui “l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo e’, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 1, tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda, e quindi non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; l’esistenza di un contratto di mutuo non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo avvenire per svariate ragioni, non vale di per sé a fondare una richiesta di restituzione allorquando l’accipiens ammessane la ricezione – non confermi altresì il titolo posto dalla controparte a fondamento della propria pretesa ma ne contesti anzi la legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma ne deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso sostanziale e come tale determinare l’inversione dell’onere della prova” (v. ex plurimis Cass. 08/01/2018, n. 180; 16/10/2017, n. 24328; 14/02/2010, n. 3258; 28/09/2009, n. 20740; 15/02/2005, n. 2974; 24/02/2004, n. 3642).
10.3. Per analoga ragione deve ritenersi priva di alcun valore censorio l’affermazione secondo cui la domanda avrebbe potuto/dovuto qualificarsi ai sensi dell’art. 2033 c.c., come volta cioè ad ottenere una ripetizione di indebito.
Si tratta di una prospettazione, anche fattuale, del tutto nuova e dunque inammissibile, che comunque non gioverebbe in alcun modo all’istante dal momento che, anche in quella prospettiva, come pure si rammenta in ricorso, incombeva sullo stesso l’onere di provare il carattere indebito della dazione e il conseguente obbligo restitutorio (v. e pluribus Cass. 12/06/2020 n. 11294).
10.4. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 2721 c.c. (censura che sarà ripetuta in termini identici anche nel terzo motivo di ricorso, e ripresa sotto profili contigui anche nel quarto e nel quinto, ciò in evidente spregio ai criteri di sinteticità e chiarezza dettati dal Protocollo d’intesa fra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense che pur si afferma essere stati seguiti nella redazione dell’atto: ciò sia detto senza che comunque si possa attribuire alla violazione di tale protocollo alcun rilievo invalidante del ricorso o preclusivo del suo esame: v. Cass. del 29/07/2021 n. 21831), valgano le seguenti considerazioni:
– in disparte l’erronea mancata deduzione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, devesi anzitutto rilevare che la censura non critica le affermazioni della corte territoriale circa il carattere valutativo e implicante giudizi dei capitoli di prova, ma si sofferma sul problema del limite di valore: senonché il riferimento al valore è meramente eccedentario rispetto alla prima motivazione;
– è comunque ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui l’ammissione della prova testimoniale oltre i limiti di valore stabiliti dall’art. 2721 c.c., costituisce un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio è insindacabile in sede di legittimità ove sia correttamente motivato (v. ex multis Cass. 09/01/2020, n. 190; 22/07/2004, n. 13621; 22/05/2007, n. 11889; 21/02/1986, n. 1050). La decisione adottata sul punto dalla corte territoriale non merita, dunque, in questa sede, alcuna censura risultando supportata da una motivazione plausibile e logica alla quale il ricorrente oppone una mera contraria valutazione fondata peraltro su circostanze di fatto (i particolari rapporti con il fratello e il sostegno economico da sempre prestato allo stesso e alle sue attività) che esulano dai fatti accertati o dibattuti nel processo e che comunque non valgono a contrastare i più pertinenti motivi addotti dai giudici.
10.5. La censura di violazione della regola sull’onere della prova (art. 2697 c.c.) non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, p. 14, secondo cui “la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”; v. anche Cass. 09/10/2017, n. 23594; Cass. 17/06/2013, n. 15107).
La contestazione attiene piuttosto al merito della valutazione operata circa l’assolvimento di tale onere e come tale impinge nel diverso piano della sufficienza e della intrinseca coerenza della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell’onere probatorio.
11. Per le stesse considerazioni deve ritenersi inammissibile anche il terzo motivo, come s’e’ detto sostanzialmente ripetitivo delle censure già svolte con il secondo.
Varrà comunque soggiungere, quanto alla censura riferita alla mancata ammissione dell’interrogatorio formale, che anche per esso la corte di merito ha offerto congrua e qui pertanto insindacabile motivazione del giudizio di irrilevanza delle circostanze che ne erano poste ad oggetto.
Più in generale giova ribadire che – se, in via di principio, non può essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, p. 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti-fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione di tale diritto è, però, configurabile solo allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. 05/03/1977, n. 910) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite.
Ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto -come è stato rilevato – “il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta” (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).
In tal caso, “la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle” (Cass. Sez. U. n. 8077 del 2012, cit.).
La mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999).
Nel caso di specie si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi.
La corte d’appello ha motivatamente considerato irrilevanti le circostanze che si chiedeva di provare perché in buona sostanza afferenti al mero fatto della dazione di denaro – in sé peraltro incontestato e non bisognevole di prova, ma, come detto, inidoneo a fondare da solo la pretesa restitutoria se non viene anche allegato e provato che la causa di tale erogazione risiedesse in un contratto di mutuo o in altra fonte negoziale che ne prevedesse comunque l’obbligo restitutorio – e non riguardanti invece, o comunque inidonee a dimostrare anche, la sottostante esistenza di una siffatta fonte negoziale.
Ciò inevitabilmente attribuisce alla doglianza rilievo censorio non riconducibile al paradigma di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ma a quello di cui al n. 5 e la sottopone ai relativi limiti di deducibilità.
In tale prospettiva, invero, la censura si risolve nella prospettazione di una mera quaestio facti, ovvero di un difetto di ricognizione della fattispecie concreta.
12. Il quarto motivo è anch’esso inammissibile.
In disparte anche qui l’erronea mancata deduzione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, merita le stesse considerazioni a proposito dei capitoli di interrogatorio formale: non si critica la motivazione della sentenza sui vari capitoli, che appare peraltro corretta.
Il motivo torna sui capitoli di prova testimoniale, ma anche qui omette la critica della prima motivazione, limitandosi a registrarla (pag. 44 in fine).
E’ poi certamente da escludere che sul punto la sentenza possa dirsi viziata da motivazione perplessa o apparente, risultando del tutto chiara la ragione della ritenuta irrilevanza del mezzo istruttorio, nei termini sopra detti.
13. Il quinto motivo ripropone la doglianza relativa alla mancata ammissione dell’interrogatorio formale, questa volta (anche) sotto il profilo del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Anche in tale direzione la doglianza si appalesa inammissibile sia per la manifesta inosservanza del paradigma del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sia, ancor prima, per la preclusione che alla prospettazione di un siffatto vizio deriva, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., comma 5 (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012) dall’essere la decisione impugnata confermativa sul punto della decisione di primo grado (c.d. doppia conforme), e non avendo il ricorrente dimostrato che le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e di quella di rigetto dell’appello sono tra loro diverse (v. Cass. 06/05/2020, n. 8515).
14. E’ infine inammissibile il sesto motivo non essendo dato comprendere dalla sua lettura in che modo il tribunale avrebbe violato la disciplina dettata dall’art. 702-ter c.p.c. e con quale incidenza sul diritto di difesa della parte e sull’esito del giudizio.
Varrà solo ribadire, per il caso che la tesi censoria possa ritenersi diretta a sostenere che dell’art. 702-ter c.p.c., comma 3, vada inteso “anche” nel senso che il passaggio alla trattazione con rito sommario debba disporsi quando il giudice adito ritenga non provata la domanda, si tratterebbe di tesi “non solo contraria alla lettera della norma, la quale suppone che la necessità della cognizione piena derivi dal tenore delle difese del convenuto, ma anche manifestamente in contrasto con il comma 5 della norma stessa, là dove si allude al dar corso agli atti di istruzione rilevanti e lo si fa supponendo che ve ne siano da compiere; ciò implica, in assenza di previsione di un potere d’ufficio di disporre mezzi di prova diverso da quello limitato previsto per il rito ordinario, che essi siano quelli oggetto delle richieste probatorie proposte dalle parti, non essendovi deroga all’onere della prova” (Cass. 05/10/2018, n. 24538).
Ne discende che, la valutazione di inammissibilità e/o irrilevanza delle prove documentali offerte o di quelle espletande richieste: a) era certamente consentita anche nell’ambito del procedimento sommario di cognizione; b) non obbligava affatto di per sé al passaggio al rito ordinario; c) ben poteva legittimare la decisione resa all’esito e nelle forme del primo.
15. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali, liquidate come da dispositivo e distratte in favore del procuratore antistatario, Avv. Prof. Gabriele Racugno, che ne ha fatto rituale richiesta in memoria.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 11.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, disponendone la distrazione in favore del procuratore antistatario, Avv. Prof. Gabriele Racugno.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022