Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.471 del 10/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 23026/2020 R.G. proposto da:

E.M., elettivamente domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato Felice Patruno, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 618/2020 della Corte d’appello di Bari depositata il 6/5/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/12/2021 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.

RILEVATO

che:

1. La Corte d’appello di Bari, con sentenza del 6 maggio 2020, rigettava il gravame proposto da E.M., proveniente dalla Nigeria (Edo State), avverso l’ordinanza del Tribunale di Bari del 27 dicembre 2017, che aveva confermato il provvedimento di diniego della Commissione territoriale competente.

Il richiedente riferiva di avere lasciato la Nigeria per paura di subire la stessa sorte del fratello, che nel *****, designato dal padre, già chief della comunità, per diventare a sua volta chief della comunità, si era rifiutato e, per tale motivo, era morto avvelenato; il padre, peraltro, già nel 2014 gli aveva ordinato di rivestire la medesima carica, ma lui, in quanto cristiano, si era rifiutato.

La Corte d’appello, precisato che il richiedente aveva chiesto l’accoglimento della domanda limitatamente al riconoscimento della protezione sussidiaria e, in via gradata, della protezione umanitaria, riteneva superflua l’audizione del ricorrente, dato che la stessa era già avvenuta in maniera sufficientemente ampia e particolareggiata, anche se poco credibile e contraddittoria.

Condivisa la valutazione di inattendibilità già espressa dal primo giudice, escludeva il ricorrere dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, anche in applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in assenza, stando alla fonte di informazione internazionale consultata, di una situazione di violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato interno o internazionale.

Riteneva, infine, che le buste paga e il contratto di locazione prodotti fossero insufficienti per dimostrare una concreta integrazione sociale ed economica; ne discendeva l’impossibilità di riconoscere anche la protezione umanitaria, tenuto conto che non erano state dedotte altre situazioni soggettive che potessero rendere rischioso o temporaneamente impossibile il ritorno in patria.

2. Propone ricorso per la cassazione di detta decisione E.M., affidandosi a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno si è costituito al di fuori dei termini di cui all’art. 370 c.p.c., al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa;

CONSIDERATO

che:

3. Il primo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, perché la Corte distrettuale ha omesso di compiere un riferimento preciso a fonti nazionali ed internazionali aggiornate da cui fosse possibile desumere adeguate informazioni sulle condizioni sociali e politiche del paese di provenienza.

4. Il motivo è inammissibile.

La Corte di merito ha escluso l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato dopo aver consultato una fonte di informazione, puntualmente indicata, risalente al novembre 2018.

Ora, il motivo di ricorso per cassazione che miri a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle cd. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, non può limitarsi a sostenere che queste fonti non fossero aggiornate sulla base della mera discrasia temporale fra la data della sentenza e la data di riferimento della fonte consultata, ma deve evidenziare anche, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione risultavano superate da altre più aggiornate e decisive fonti qualificate, sicché la loro consultazione non costituiva un puntuale adempimento del cd. dovere di collaborazione istruttoria (Cass. 19919/2021, Cass. 7105/2021, Cass. 4037/2020).

La critica in esame risulta, pertanto, inficiata dalla sua genericità, dato che non è accompagnata da riscontri precisi e univoci atti a confutare il mancato aggiornamento delle fonti consultate.

5.1 Il secondo motivo denuncia la violazione e la mancata applicazione dell’art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, T.U.I. e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32, perché la Corte d’appello non ha effettuato la valutazione comparativa a cui era tenuta alla luce della documentazione lavorativa prodotta, della situazione di violenza generalizzata e diffusa esistente nella zona di provenienza del richiedente asilo, del lungo periodo di assenza dal paese di origine e della sua giovane età.

5.2 Il terzo motivo di ricorso assume, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, l’esistenza di un vizio di motivazione a causa dell’omesso esame della documentazione lavorativa e abitativa riguardante prodotta (costituita, in particolare, dal rapporto di lavoro alle dipendenze della società “La Conea di Romanazzi & Co.”, attestato dalle buste paga da dicembre 2017 ad agosto 2018, dal rapporto di lavoro alle dipendenze della società “Gruppo M. s.r.l.”, attestato dalle buste paga da ottobre 2018 ad agosto 2019, e dal contratto di locazione stipulato il 29 dicembre 2018), la quale costituiva una valida prova dell’inserimento sociale e lavorativo del richiedente asilo.

La Corte di merito, con un’anomalia motivazionale costituente una violazione di legge costituzionalmente rilevante, ha dato atto a questo proposito delle copiose produzioni compiute, ma ha ritenuto le stesse insufficienti a dimostrare il conseguimento di una concreta integrazione.

6. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione del rapporto di connessione che li lega, sono fondati.

6.1 La Corte d’appello ha espressamente dato atto che la documentazione prodotta attestava l’esistenza di una condizione di occupazione (della durata di circa due anni) e di un rapporto di locazione (a decorrere dal 29 dicembre 2018), ma ha ritenuto che queste risultanze documentali fossero inidonee a dimostrare che il migrante avesse conseguito una concreta integrazione sociale ed economica.

Subito dopo i giudici distrettuali hanno aggiunto che quand’anche si fosse voluta ritenere sussistente una concreta integrazione, la stessa non sarebbe stata sufficiente al riconoscimento della protezione umanitaria, non ricorrendo motivi di particolare vulnerabilità in caso di rimpatrio.

Una simile motivazione, nel suo complesso, non raggiunge gli standard minimi costituzionalmente dovuti, perché consiste in una mera petizione di principio inadatta a spiegare nel concreto, con la puntualità necessaria al fine di rappresentare l’iter logico-intellettivo seguito dal giudice per arrivare alla decisione, le ragioni per cui i contratti di lavoro e il rapporto di locazione siano stati ritenuti insufficienti a dimostrare una condizione di raggiunta integrazione e perché il rimpatrio non avrebbe comportato “motivi di particolare vulnerabilità”.

Sussiste, dunque, l’anomalia argomentativa denunciata con il terzo motivo di ricorso, la quale comporta una violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza di una motivazione, nel suo contenuto minimo e indispensabile, capace di rendere percepibili le ragioni su cui la statuizione assunta si fonda.

6.2 Inoltre, la comparazione fra condizione di integrazione nel paese di accoglienza e quella in cui si ritroverebbe il migrante in caso di rimpatrio è stata fatta in termini incongrui.

In vero, in caso di accertata integrazione (come nell’ipotesi fatta dalla Corte di merito) non si deve valutare se il rimpatrio possa comportare “motivi di particolare vulnerabilità”, ma occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente asilo con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia attribuendo alla condizione nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che questi dimostri di aver raggiunto nella società italiana (Cass., Sez. U., 24413/2021).

7. La sentenza impugnata andrà dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte distrettuale, la quale, nel procedere al suo nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022

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