LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –
Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10742/2015 R.G. proposto da:
D.P.G., rappresentato e difeso, in forza di procura a margine del ricorso, dagli avv.ti Enrico Pauletti e Rosamaria Nicastro, ed elettivamente domiciliato presso il loro studio Di Tanno e Associati – Studio legale tributario – in Roma, via Crescenzio, n. 14;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5411/27/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata il 17 ottobre 2014 udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 novembre 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso
FATTI DI CAUSA
1. L’Agenzia delle entrate notificò a D.P.G., quale erede di DE.PI.Gi., avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2001 e un secondo avviso di accertamento, quale erede di D.P.A.V., per l’anno d’imposta 2002, contestando la omessa dichiarazione di disponibilità patrimoniali e finanziarie detenute all’estero presso intermediari elvetici (intestate ai de cuius fino alla loro morte e poi passate nella disponibilità dell’odierno ricorrente), da sottoporre a tassazione (imposta sostitutiva) con aliquota del 27 per cento.
2. Il contribuente impugnò con due separati ricorsi gli atti impositivi, lamentando la decadenza dell’Ufficio finanziario dal potere di accertamento per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e, comunque, l’illegittimità dell’accertamento con riferimento all’aliquota dell’imposta sostitutiva applicata.
La Commissione tributaria provinciale di Milano, previa riunione dei ricorsi, li rigettò, rilevando che l’Ufficio, dopo avere provveduto alla quantificazione dei redditi omessi, aveva constatato il superamento dei limiti di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, cosicché era da ritenersi operante il raddoppio dei termini, e che l’applicazione della ritenuta del 27 per cento dipendeva dalla scadenza del prestito.
3. Avverso la suddetta sentenza il contribuente propose appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale, reiterando le eccezioni e difese già spiegate, e i giudici di secondo grado rigettarono l’impugnazione. Confermando la sussistenza dei presupposti che imponevano l’obbligo di denuncia, la C.T.R. osservò, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, che, poiché alla data di entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006 (4 luglio 2006), era ancora pendente il termine per la notifica degli avvisi di accertamento, che sarebbero scaduti il 31 dicembre 2006 ed il 31 dicembre 2007, non era ravvisabile decadenza dal potere di accertamento. Nel merito, ritenne non fondato il ricorso, così motivando: “poiché le obbligazioni emesse da società non quotate sono soggette ad una ritenuta alla fonte del 12,50 per cento se hanno scadenza superiore a 18 mesi e del 27 per cento se hanno scadenza inferiore ai 18 mesi ed il contribuente ha omesso di dimostrare il proprio assunto”.
4. D.P.G. ricorre per la cassazione della decisione d’appello, con quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate mediante controricorso.
Il contribuente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il contribuente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, commi 1 e 3, come modificato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 24, per avere i giudici di appello ritenuto tempestiva la notificazione degli avvisi di accertamento impugnati.
Sul punto il ricorrente sostiene, in primo luogo, che i fatti da cui è derivato l’obbligo di denuncia ex D.Lgs. n. 74 del 2000 sono sorti solo successivamente all’8 settembre 2009 (data di comunicazione della notizia di reato a carico di terzi, dalla quale era poi scaturito il controllo a carico dei de cuius), ossia in epoca successiva alla chiusura del termine ordinario di decadenza dall’accertamento di cui al citato art. 43, comma 1, e, in secondo luogo, che i fatti penalmente rilevanti si erano comunque estinti per intervenuto decesso dei contribuenti, rispettivamente in data 13 agosto e 14 ottobre 2009, cosicché non poteva operare la novella normativa sul raddoppio dei termini di accertamento che si applicava solo con riferimento a fattispecie perfezionatesi dopo la sua entrata in vigore. Soggiunge il ricorrente che l’inapplicabilità del raddoppio dei termini decadenziali deriva, diversamente da quanto ritenuto dai giudici d’appello, da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 43 in termini diversi da quella prospettata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 247 del 25 luglio 2011 ed evidenzia che sono due i profili di maggiore criticità della predetta sentenza: in primo luogo, l’unica ratio della disposizione in esame, espressa nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. n. 223 del 2006, persegue la finalità di consentire la “circolazione” delle prove dal giudizio penale al procedimento tributario, con la conseguenza che avrebbero dovuto avere rilevanza, anche in ambito fiscale, le vicende successive alla denuncia penale; in secondo luogo, a fronte della contestazione della indeterminatezza del termine raddoppiato, la Corte Costituzionale ha degradato la soggettiva incertezza del contribuente sulla astratta ravvisabilità delle ipotesi di reato “ad inconveniente di mero fatto, irrilevante ai fini del giudizio di legittimità costituzionale”, non considerando che i termini decadenziali servono a collocare presidi di certezza nel campo delle relazioni giuridiche e devono, pertanto, ricollegarsi ad eventi conoscibili da parte del contribuente e verificabili in modo agevolo ed immediato.
A sostegno delle suddette considerazioni, il ricorrente fa riferimento pure alla previsione della legge delega per la riforma fiscale dell’11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 2, che stabilisce che il raddoppio possa essere applicato soltanto in presenza di effettivo invio della denuncia entro il termine ordinario di decadenza, e formula eccezione di illegittimità costituzionale della legge delega in esame, nella parte in cui si legge “fatti comunque salvi gli effetti degli atti di controllo già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi”, deducendo che una sua applicazione comporterebbe una illegittima disparità di trattamento tra fattispecie omogenee, ma temporalmente successive l’una rispetto all’altra, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
Soggiunge che, in ogni caso, l’Ufficio finanziario avrebbe dovuto allegare agli avvisi di accertamento copia della denuncia penale di cui all’art. 331 c.p.c., riferita ai fatti imputabili ai de cuius, al fine di consentire al contribuente, in qualità di erede, e, soprattutto, ai giudici tributari attraverso una verifica postuma, di apprendere il contenuto della medesima e di stabilire se l’Ufficio avesse agito con ragionevolezza e buona fede ovvero avesse utilizzato lo strumento della denuncia penale al solo fine di prorogare gli ordinari termini di accertamento, pur non essendone legittimato. Nella vicenda in esame, invece, l’Ufficio si era limitato esclusivamente a sostenere la sufficienza dell’obbligo di denuncia del reato, omettendo di allegare in giudizio i documenti afferenti ai fatti-reato contestati ai de cuius e trascurando di tenere presente che l’ipotetico fatto-reato a carico dei contribuenti si sarebbe comunque dovuto considerare estinto per l’intervenuto decesso di entrambi i de cuius.
1.1. La censura è infondata.
1.2. Il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3 (come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24), nel testo applicabile ratione temporis, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 30/05/2016, n. 11171).
1.3. Secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Consulta sopra richiamata e dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass., sez. 5, 7/10/2015, n. 20043; Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974; Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037), il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni indicate (4 luglio 2006), perché queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data. Questo effetto deriva non dalla natura retroattiva delle norme, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, “la legge non dispone che per l’avvenire” (art. 11 disp. prel c.c., comma 1, prima parte; analogamente, la L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, stabilisce che “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”).
1.4. Il raddoppio deriva, quindi, dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna, dato il regime del cosiddetto “doppio binario” tra giudizio penale e processo tributario, evidenziato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20 (Cass., sez. 6-5, 11/04/2017, n. 9322).
1.5. L’obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell’antigiuridicità e del dolo, resta riservato all’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita. E ovviamente il pubblico ufficiale non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, dovendola presentare prontamente e il giudice tributario deve controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. In presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare i presupposti dell’obbligo di denuncia penale (non certo l’esistenza del reato) è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo.
1.6. I termini raddoppiati non si innestano, dunque, su quelli “brevi” ordinari, ma operano autonomamente allorché si riscontrino elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000. In particolare, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011 con riferimento aa D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, commi 1 e 2, i termini “brevi” ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale per reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000; mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’e’ l’obbligo di denuncia. E’, perciò, irrilevante che detto obbligo possa insorgere anche dopo il decorso di un periodo pari a quello del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine: ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo di denuncia, perché essa soltanto connota obiettivamente, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento (Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037; Cass., sez. 6-5, 28/06/2019, n. 17586; Cass., sez. 5, 2/07/2020, n. 13481; Cass., sez. 5, 6/07/2021, n. 19000).
1.7. Inconferente e’, dunque, nel caso di specie che l’avviso di accertamento sia stato emesso allorché era scaduto il termine breve e che si riferisca ad annualità precedente all’entrata in vigore della disposizione censurata, dovendosi osservare come tale disposizione di legge sia entrata in vigore (4/7/2006) allorché non era ancora scaduto il termine ordinario per l’accertamento (trattandosi delle annualità 2001 e 2002).
La Commissione tributaria regionale ha accertato che nella fattispecie erano ravvisabili fatti integranti il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, tenuto conto dell’importo dei redditi di cui era stata omessa la dichiarazione, e, quindi, correttamente, a prescindere dalla presentazione della denuncia e dalla sua produzione in giudizio, ha ritenuto operante il raddoppio dei termini, essendo ancora pendente alla data del 4 luglio 2006 (data di entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006) il termine per la notifica degli avvisi di accertamento, in scadenza rispettivamente il 31 dicembre 2006 ed il 31 dicembre 2007.
Ne’, d’altro canto, è di ostacolo all’applicazione dell’art. 43, comma 3, la circostanza che, essendo deceduti i contribuenti che avevano commesso la violazione, non sussisterebbe alcun fatto di reato, in quanto non può che ribadirsi, al riguardo, che a nulla rileva l’esito del giudizio penale, potendosi invocare la norma in esame per il solo fatto dell’esistenza di un fatto oggettivo implicante l’obbligo di denuncia penale, restando irrilevante a tal fin sia l’effettivo inoltro della denuncia, sia l’esistenza del reato in tutte le sue componenti, elemento oggettivo e soggettivo.
1.8. Su tale assetto non è destinata a dispiegare effetti la previsione della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 2, (entrata in vigore il 27 marzo 2014), né la sequenza di modifiche che hanno riguardato la disciplina dei termini prescritti per l’accertamento rispettivamente dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, attuativa della delega fiscale.
Con specifico riferimento alla invocata legge delega, infatti, non può che rilevarsi la sua inconferenza rispetto alla fattispecie in esame e ciò sia perché la disposizione richiamata prevede l’applicazione del termine lungo solo se l’invio della denuncia è stato effettuato entro un termine correlato allo scadere del termine ordinario e, quindi, non entro il termine ordinario di accertamento, stia perché la disposizione normativa fa espressamente “salvi gli effetti degli atti di controllo già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi”.
Ciò impone, conseguentemente, di ritenere priva di rilevanza ai fini della presente decisione la questione di legittimità costituzionale della legge delega, sollevata dal ricorrente.
2. Con il secondo motivo il contribuente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16-bis, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26 e 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censurando la statuizione della sentenza impugnata là dove afferma: “Anche nel merito il ricorso deve essere rigettato poiché le obbligazioni emesse dalla società non quotate sono soggette ad una ritenuta alla fonte del 12,5% se hanno scadenza superiore a 18 mesi e del 27% se hanno scadenza inferiore ai 18 mesi ed il contribuente ha omesso di dimostrare il proprio assunto”.
Rileva il ricorrente che l’Ufficio ha provveduto ad applicare indistintamente sul reddito imponibile accertato in via presuntiva, D.L. n. 167 del 1990, ex art. 6, l’imposta sostitutiva con l’aliquota del 27 per cento senza prima procedere ad una analisi quantitativa della composizione dell’attivo, omettendo in tal modo di applicare analiticamente ad ogni attività finanziaria detenuta all’estero il regime di tassazione proprio. Sostiene, in particolare, che al patrimonio del de cuius erano applicabili aliquote diverse in considerazione delle differenti attività finanziarie nello stesso ricomprese e che l’Ufficio, pur essendo in possesso della documentazione presentata in sede di contraddittorio preventivo comprovante la composizione di tale patrimonio, aveva proceduto ad una ricostruzione sommaria dello stesso; parimenti il giudice di merito aveva ritenuto che non fosse stata offerta adeguata prova, sebbene in appello la composizione del patrimonio detenuto all’estero avesse formato oggetto di attenta analisi.
3. Con il terzo motivo il contribuente censura la medesima statuizione della decisione gravata per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Ritenendo che non sussista la preclusione di cui all’art. 348-ter c.p.c., poiché la sentenza di appello non conferma quella di primo grado per le medesime ragioni, addebita ai giudici di appello di non avere adeguatamente valutato la copiosa documentazione versata sia nella fase endoprocedimentale che in quella processuale a dimostrazione della natura degli imponibili detenuti all’estero. Secondo il ricorrente, l’attento vaglio di tali risultanze probatorie avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione.
4. Con il quarto motivo, deducendo “la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, per carenza di esplicitazione delle ragioni giuridiche fondanti la pretesa impositiva”, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non ha affrontato, rigettandola implicitamente, l’altra questione preliminare inerente il difetto di motivazione degli avvisi di accertamento. Gli atti impositivi, nella parte dedicata alla motivazione, si limitavano ad indicare che il reddito imponibile determinato prevalentemente in via presuntiva “era da sottoporre a tassazione con aliquota del 27%”, ma nulla spiegavano in merito alle motivazioni che legittimavano l’applicazione dell’imposta nella misura indicata. Soggiunge che l’applicazione dell’imposta sostitutiva con aliquota del 27 per cento faceva ritenere che l’Ufficio avesse considerato il reddito imponibile accertato quale “reddito di capitale”, ma la natura di reddito di capitale dell’imponibile non consentiva di applicare sic et simpliciter l’imposta sostitutiva con aliquota del 27 per cento, ma imponeva, piuttosto, di procedere alla determinazione del relativo carico tributario in conformità agli specifici criteri di tassazione dei redditi di capitale.
5. Il quarto motivo, che deve essere esaminato con priorità perché il suo eventuale accoglimento esimerebbe dallo scrutinio dei restanti motivi, è inammissibile.
La doglianza, nella misura in cui prospetta l’insufficienza e la genericità delle indicazioni contenute negli atti impositivi a giustificazione dell’aliquota applicata, è carente sotto il profilo dell’osservanza del principio di autosufficienza, non avendo il ricorrente riprodotto l’avviso di accertamento, necessario per consentire la diretta conoscenza e fruibilità da parte della Corte.
Invero, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso – è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass., sez. 5, 4/04/2013, n. 8312).
6. Anche il secondo motivo non si sottrae alla declaratoria di inammissibilità.
Con un accertamento in fatto i giudici regionali hanno rilevato che il patrimonio estero era costituito da obbligazioni emesse da società non quotate, avente scadenza inferiore ai 18 mesi, soggette alla ritenuta alla fonte del 27 per cento e che, in ogni caso, il contribuente non aveva offerto adeguata prova dell’assunto difensivo secondo cui il patrimonio del de cuius avesse una composizione qualitativa diversificata.
La censura prospettata dal ricorrente difetta di specificità e, sotto l’apparente deduzione di un vizio di violazione di legge, tende in realtà a rimettere in discussione il merito della controversia ed a sostituire alla ricostruzione operata dai giudici di merito una diversa ricostruzione della vicenda processuale, non consentita a questo giudice di legittimità. Il contribuente, infatti, assume, in contrasto con il convincimento raggiunto dai giudici di appello, di avere dimostrato, già nella fase amministrativa e, successivamente, nelle fasi del giudizio di merito, mediante la produzione di copiosa documentazione, che il patrimonio estero originariamente intestato al de cuius comprendesse diverse tipologie di attività finanziarie sottoposte a differenti regimi di tassazione, circostanza di fatto che la C.T.R. ha invece ritenuto non provata all’esito dell’acquisizione e valutazione delle risultanze istruttorie.
Occorre, al riguardo, rammentare che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge ed implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass., sez. 2, 28/09/2017, n. 22707).
7. Parimenti inammissibile è il terzo motivo.
L’esame del motivo è precluso dalla disposizione di cui all’art. 348-ter c.c., u.c., applicabile al procedimento per essere stato il giudizio d’appello introdotto dopo l’11 settembre 2012.
Invero, tale disposizione – in base alla quale non sono impugnabili per omesso esame di fatti storici le sentenze di secondo grado che confermano la decisione di primo grado (c.d. “doppia conforme”) presuppone che nei due gradi di merito le “questioni di fatto” siano state decise in base alle “stesse ragioni” (Cass., sez. 2, 12/11/2019, n. 29222).
Nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 2, 10/03/2014, n. 5528; Cass., sez. 1, 22/12/2016, n. 26774).
Nella fattispecie, tale onere non è stato assolto, in quanto dalla lettura della sentenza di primo grado emerge che la C.T.P. ha affermato che: “l’applicazione della ritenuta del 27%, come sottolineato dall’Ufficio, dipende dalla scadenza del prestito (per le obbligazioni con scadenza inferiore ai 18 mesi è infatti del 27%). In ogni caso, stante l’omessa dichiarazione di redditi imponibili da sottoporre a dichiarazione sostitutiva, l’Ufficio non poteva che applicare l’aliquota del 27%”. Sebbene il giudice di primo grado abbia fatto riferimento anche all’omessa dichiarazione dei redditi, che consentirebbe all’Ufficio di applicare l’aliquota del 27 per cento, è evidente che la motivazione si fonda proprio sulla valutazione relativa alla scadenza del prestito obbligazionario, ossia sulla medesima ragione su cui poggia la decisione del giudice di appello.
8. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022