Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.494 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 12619/2015 R.G. proposto da:

D.P.G., rappresentato e difeso, in forza di procura a margine del ricorso, dagli avv.ti Enrico Pauletti e Rosamaria Nicastro, ed elettivamente domiciliato presso il loro studio Di Tanno e Associati – Studio legale tributario – in Roma, via Crescenzio, n. 14;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5816/30/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata il 11 novembre 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 novembre 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle entrate notificò a D.P.G., quale erede di D.P.A.V., avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2003, contestando la omessa dichiarazione di disponibilità patrimoniali e finanziarie all’estero da sottoporre a tassazione ed accertando maggiore imposta sostitutiva.

2. Come emerge dalla sentenza impugnata in questa sede, l’accertamento traeva origine da una ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Milano nei confronti di un fiduciario elvetico e dal rinvenimento nel computer dell’indagato di nominativi di diversi contribuenti italiani, tra i quali il l’odierno ricorrente e la di lui sorella, per conto dei quali lo stesso aveva gestito all’estero patrimoni dal 2003 al 2008.

3. Il contribuente impugnò l’atto impositivo, lamentando la decadenza dell’Ufficio finanziario dal potere di accertamento, e la Commissione tributaria provinciale di Milano rilevò che “solo la sussistenza di una fondata notitia criminis, emersa prima dello spirare del termine per la notifica dell’avviso di accertamento, avrebbe potuto legittimare il raddoppio dei termini”.

4. Avverso la suddetta sentenza l’Amministrazione finanziaria propose appello principale e il contribuente appello incidentale e i giudici di secondo grado accolsero l’impugnazione dell’Ufficio finanziario. Confermando la sussistenza dei presupposti che imponevano l’obbligo di denuncia, la C.T.R. osservò che l’Ufficio, dopo avere provveduto alla quantificazione dei redditi omessi, aveva constatato il superamento della soglia di cui al D.Lgs. n. 74 de 2000, art. 4, e che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, nella specie, alla data di entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006 (4 luglio 2006), era ancora pendente il termine per la notifica dell’avviso di accertamento, che sarebbe scaduto il 31 dicembre 2008.

Disattese, altresì, le ulteriori eccezioni del contribuente, motivando, con riguardo alla presunta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, che non si trattava di motivazione per relationem e, con riferimento all’asserita violazione del D.L. n. 350 del 2001, art. 14, che le operazioni di scudo fiscale poste in essere avevano natura meramente fittizia, considerato che il contribuente, per sua stessa ammissione, aveva dichiarato all’autorità giudiziaria di avere realizzato “un’operazione soltanto sulla carta” “senza che tuttavia vi fosse mai stato alcun passaggio di danaro” e che sul punto il contribuente non aveva mai preso posizione.

5. D.P.G. ricorre per la cassazione della decisione d’appello, con quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate mediante controricorso.

In prossimità dell’udienza pubblica il contribuente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il contribuente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, commi 1 e 3, come modificato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 24, per avere i giudici di appello ritenuto tempestiva la notificazione dell’avviso di accertamento impugnato, avvenuta in data 21 giugno 2011.

Sul punto il ricorrente sostiene, in primo luogo, che i fatti da cui è derivato l’obbligo di denuncia ex D.Lgs. n. 74 del 2000 sono sorti solo successivamente all’8 settembre 2009 (data di comunicazione della notizia di reato a carico di terzi, dalla quale era poi scaturito il controllo a carico della de cuius), ossia in epoca successiva alla chiusura del termine ordinario di decadenza dall’accertamento di cui al citato art. 43, comma 1, e, in secondo luogo, che il fatto-reato contestato alla de cuius si era comunque estinto per intervenuto decesso della contribuente in data 13 agosto 2009, cosicché non poteva operare la novella normativa sul raddoppio dei termini di accertamento che si applicava solo con riferimento a fattispecie perfezionatesi dopo la sua entrata in vigore.

Soggiunge il ricorrente che l’inapplicabilità del raddoppio dei termini decadenziali deriva, diversamente da quanto ritenuto dai giudici d’appello, da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 43 in termini diversi da quella prospettata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 247 del 25 luglio 2011 e dalla valenza interpretativa della nuova disposizione contenuta nella cd. legge delega di riforma fiscale e sottolinea che la corretta interpretazione del citato art. 43 dovrebbe essere intesa nel senso che il perfezionamento del “presupposto applicativo” della constatazione di un fatto-reato ex D.Lgs. n. 74 del 2000 proroghi i termini ordinari di decadenza del potere di accertamento solo laddove la constatazione medesima del fatto-reato intervenga prima che i medesimi termini ordinari siano scaduti.

Evidenzia pure il ricorrente che sono due i profili di maggiore criticità della sentenza della Corte Costituzionale: in primo luogo, l’unica ratio della disposizione in esame, espressa nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. n. 223 del 2006, persegue la finalità di consentire la “circolazione” delle prove dal giudizio penale al procedimento tributario, con la conseguenza che avrebbero dovuto avere rilevanza, anche in ambito fiscale, le vicende successive alla denuncia penale, quali gli eventi estintivi del reato; in secondo luogo, a fronte della contestazione della indeterminatezza del termine raddoppiato, la Corte Costituzionale aveva degradato la soggettiva incertezza del contribuente sulla astratta ravvisabilità delle ipotesi di reato “ad inconveniente di mero fatto, irrilevante ai fini del giudizio di legittimità costituzionale”, non considerando che i termini decadenziali servono a collocare presidi di certezza nel campo delle relazioni giuridiche e devono, pertanto, ricollegarsi ad eventi conoscibili da parte del contribuente e verificabili in modo agevolo ed immediato. E ciò perché, diversamente opinando, il contribuente dovrebbe in radice ritenere sempre esistente la possibilità dell’accertamento e quindi operare considerando unicamente il termine “lungo” di decadenza dell’azione accertativa, giacché, anche dopo lo spirare dei termini più brevi ordinari, questi ultimi potrebbero essere riaperti in virtù dell’art. 43, comma 3, citato.

A sostegno delle suesposte considerazioni il ricorrente invoca la previsione della legge delega per la riforma fiscale dell’11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 2, che stabilisce che il raddoppio possa essere applicato soltanto in presenza di “effettivo” invio della denuncia “effettuato entro un termine correlato allo scadere del termine ordinario di decadenza”, e sollecita una interpretazione della disposizione di cui all’art. 43, comma 3, che presupponga che la notitia criminis debba essere effettiva ed avvenire entro gli ordinari termini decadenziali. Formula, inoltre, eccezione di illegittimità costituzionale della legge delega in esame, nella parte in cui si legge “fatti comunque salvi gli effetti degli atti di controllo già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi”, deducendo che una sua applicazione nella formulazione vigente comporterebbe una illegittima disparità di trattamento tra fattispecie omogenee, ma temporalmente successive l’una rispetto all’altra, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost..

Peraltro, evidenziando che la Corte Costituzionale, nel riconoscere la legittimità del “termine lungo” per l’accertamento, ne ha comunque subordinato l’applicazione all’esito positivo di una specifica indagine ricognitiva in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi, da parte del giudice tributari, attraverso la cd. “prognosi postuma”, ribadisce che non dovrebbe applicarsi al caso di specie l’art. 43 citato, comma 3, perché l’Ufficio finanziario non ha allegato all’avviso di accertamento, né nel corso del giudizio di merito, copia della documentazione inerente al fatto-reato imputabile alla de cuius, ed ha trascurato di tenere presente che l’ipotetico fatto-reato a carico della contribuente si sarebbe comunque dovuto considerare estinto per l’intervenuto decesso della stessa.

1.1. La censura è infondata.

1.2. Il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 43, comma 3, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, 57, comma 3 (come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24), nel testo applicabile ratione temporis, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 30/05/2016, n. 11171).

1.3. Secondo la lettura di tale disposizione data dalla sentenza della Consulta sopra richiamata e dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass., sez. 5, 7/10/2015, n. 20043; Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974; Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037), il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni indicate (4 luglio 2006), perché queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data. Questo effetto deriva non dalla natura retroattiva delle norme, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, “la legge non dispone che per l’avvenire” (art. 11 disp. prel. c.c., comma 1, prima parte; analogamente, la L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, stabilisce che “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”).

Il raddoppio deriva, quindi, dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna, dato il regime del cosiddetto “doppio binario” tra giudizio penale e processo tributario, evidenziato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20 (Cass., sez. 6-5, 11/04/2017, n. 9322).

L’obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell’antigiuridicità e del dolo, resta riservato all’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita. E ovviamente il pubblico ufficiale non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, dovendola presentare prontamente e il giudice tributario deve controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. In presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare i presupposti dell’obbligo di denuncia penale (non certo l’esistenza del reato) è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo.

1.4. I termini raddoppiati non si innestano, dunque, su quelli “brevi” ordinari, ma operano autonomamente allorché si riscontrino elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000. In particolare, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011 con riferimento al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, commi 1 e 2, i termini “brevi” ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale per reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000; mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’e’ l’obbligo di denuncia. E’, perciò, irrilevante che detto obbligo possa insorgere anche dopo il decorso di un periodo pari a quello del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine: ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo di denuncia, perché essa soltanto connota obiettivamente, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento (Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037; Cass., sez. 6-5, 28/06/2019, n. 17586; Cass., sez. 5, 2/07/2020, n. 13481; Cass., sez. 5, 6/07/2021, n. 19000).

1.5. Inconferente e’, dunque, nel caso di specie che l’avviso di accertamento sia stato emesso allorché era scaduto il termine breve e che si riferisca ad annualità precedente all’entrata in vigore della disposizione censurata, dovendosi osservare come detta disposizione di legge sia entrata in vigore (4/7/2006) allorché non era ancora scaduto il termine ordinario per l’accertamento (trattandosi dell’annualità 2003).

La Commissione tributaria regionale ha accertato che nella fattispecie erano ravvisabili fatti integranti il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, tenuto conto dell’importo dei redditi di cui era stata omessa la dichiarazione, e, quindi, correttamente, a prescindere dalla presentazione della denuncia e dalla sua produzione in giudizio, ha ritenuto operante il raddoppio dei termini, essendo ancora pendente alla data del 4 luglio 2006 (data di entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006) il termine per la notifica dell’avviso di accertamento, in scadenza il 31 dicembre 2008.

Ne’, d’altro, è di ostacolo all’applicazione dell’art. 43, comma 3, la circostanza che, essendo deceduta la contribuente D.P.A.V., non sussisterebbe alcun fatto di reato, in quanto a nulla rileva l’esito del giudizio penale, potendosi invocare la norma in esame per il solo fatto dell’esistenza di un fatto oggettivo implicante l’obbligo di denuncia penale, restando irrilevante a tal fine sia l’effettivo inoltro della denuncia, sia l’esistenza del reato in tutte le sue componenti, elemento oggettivo e soggettivo.

Poiché dunque il D.L. n. 223 del 2006, commi 24, 25 e 26, sono entrati in vigore nel corso del 2006, quando l’anno 2003 era pienamente accertabile, non può dubitarsi che il raddoppio dei termini sia da considerarsi pienamente operante nel caso in esame, posto che l’aumento dei termini ordinari per l’accertamento non può risentire delle possibili vicende del procedimento penale instaurato per effetto della denuncia di reato.

Tale impostazione è conforme a quella fatta propria dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 247 del 2011, con la quale si è precisato che il raddoppio dei termini non può qualificarsi come “sanzione penale”, neppure impropria o atipica, in quanto “il mero assoggettamento ad un termine più lungo di accertamento fiscale non svolge, dunque, alcuna funzione afflittivo-punitiva o sanzionatoria di un fatto di reato, ma, operando su un piano meramente procedimentale, persegue solo il sopra evidenziato obiettivo di attribuire agli uffici tributari maggior tempo per accertare l’effettiva capacità contributiva del soggetto passivo d’imposta”.

La Consulta ha, quindi, individuato una ratio legis diversa da quella indicata dal legislatore nella relazione d’accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. n. 223 del 2006, richiamata dal ricorrente, secondo la quale il raddoppio consentirebbe una circolazione delle prove dal giudizio penale a quello tributario, ed ha ritenuto tale finalità solo eventuale, facendo conseguire il raddoppio al mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dalla concreta presentazione della stessa o dall’inizio dell’azione penale.

1.6. Su tale assetto non è destinata a dispiegare effetti la previsione della L. delega 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 2, né la sequenza di modifiche che hanno riguardato la disciplina dei termini prescritti per l’accertamento rispettivamente dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, attuativa della delega fiscale.

Con specifico riferimento alla invocata legge delega, infatti, non può che rilevarsi la sua inconferenza rispetto alla fattispecie in esame, e ciò sia perché la disposizione richiamata prevede l’applicazione del termine lungo solo se l’invio della denuncia è stato effettuato entro un termine correlato allo scadere del termine ordinario e, quindi, non entro il termine ordinario di accertamento, sia perché la disposizione normativa fa espressamente “salvi gli effetti degli atti di controllo già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi”.

Infatti, il legislatore, nel delegare il Governo a riformare la disciplina fiscale, ha previsto, per il futuro, che il raddoppio dei termini in caso di reato dovesse verificarsi solo in presenza di effettivo invio di denuncia penale, stabilendo in modo esplicito ed inequivocabile che la nuova disciplina dovesse fare comunque “salvi gli effetti degli atti di controllo già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi”.

Ciò impone, conseguentemente, di ritenere priva di rilevanza ai fini della presente decisione la questione di legittimità costituzionale della legge delega, sollevata dal ricorrente, atteso che, avendo la norma che il governo è stato delegato ad introdurre portata innovativa, per gli avvisi di accertamento notificati prima dell’entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi della legge delega, deve comunque continuarsi ad applicare la precedente disciplina normativa.

2. Con il secondo motivo, deducendo “la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, per carenza di esplicitazione delle ragioni giuridiche fondanti la pretesa impositiva”, censura la decisione gravata là dove i giudici di secondo grado hanno ritenuto infondata la eccezione di carenza di motivazione dell’avviso di accertamento.

Secondo il ricorrente, l’avviso di accertamento impugnato si limita ad indicare che l’accertamento recepisce la documentazione dell’UCIFI (Ufficio Centrale per il contrasto agli illeciti finanziari), ma nulla dice in ordine alle motivazioni ed ai presupposti giuridici che legittimano l’accertamento del reddito in virtù delle disposizioni contenute nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, in luogo delle previsioni normative in tema di redditività presunta di cui al D.L. n. 167 del 1990, art. 6, in ordine ai motivi per i quali opera la proroga di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, né ancora in ordine alla mancata allegazione, da parte dell’Ufficio, degli atti e documenti, non conosciuti dal contribuente, ai quali si faceva riferimento al fine di motivare la pretesa impositiva.

2.1. Il secondo motivo è inammissibile.

2.2. Nel regime introdotto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, “l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento” (Cass., sez. 6-5, 15/04/2013, n. 9032; Cass., sez. 5, 29/09/2016, n. 24210; Cass., sez. 5, 28/10/2016, n. 21870; Cass., sez. 5, 20/10/2016, n. 21284; Cass., sez. 5, 28/02/2017, n. 5173).

2.3. Precisato ciò, la doglianza formulata, nella misura in cui prospetta l’insufficienza e la genericità delle indicazioni relative agli allegati, è comunque carente sotto il profilo dell’osservanza del principio di autosufficienza, non avendo il ricorrente riprodotto l’avviso di accertamento, né il processo verbale di constatazione, necessari per consentirne la diretta conoscenza e fruibilità da parte della Corte e per valutare, di conseguenza, la censura prospettata.

Invero, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso – è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass., sez. 5, 4/04/2013, n. 8312).

3. Con il terzo motivo il contribuente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, lamentando che i giudici di appello non si sono pronunciati sulla specifica doglianza sollevata in primo grado e reiterata in sede di appello incidentale, secondo cui “L’ufficio non fornisce prova di aver constatato la veridicità dei documenti rinvenuti presso il computer del P. e di averli corroborati con documentazione (questa certa e precisa) atta, appunto, ad attestare che il reddito del de cuius per il periodo d’imposta 2003 ammontava a quanto indicato nel bilancio presunto del trust”.

Precisa, a supporto di tale censura, che l’Ufficio aveva ricostruito il reddito della de cuius per il periodo oggetto di contestazione sulla base di un bilancio della Eagle Asset Trust Reg, redatto dal P. che ne era il Trustee, rinvenuto nel computer dello stesso, che indicava che buona parte dei proventi era riferibile a presunte “plusvalenze”; nel giudizio di merito aveva fatto rilevare che D.P.A.V., nell’anno 2003, non aveva realizzato alcuna plusvalenza sulle attività finanziarie detenute all’estro, perché non vi era traccia di alcuna movimentazione finanziaria, né tra i conti, né nelle scritture contabili afferenti al presunto bilancio del trust, per cui doveva ritenersi che le “plusvalenze” indicate nel bilancio del trust dovessero ritenersi operazioni valutative operate dal trustee che mai avrebbero potuto generare materia imponibile. Ciò anche perché, ad avviso del ricorrente, il documento rinvenuto nel computer del P. non era attendibile, posto che l’Ufficio non aveva fornito alcuna prova di un riscontro di tale documento con altra documentazione certa e precisa atta a corroborarlo, attestante che in quell’anno d’imposta il reddito della de cuius ammontasse a quanto indicato nel bilancio del trust. Il che comportava una violazione dell’art. 2697 c.c., avendo l’Amministrazione finanziaria l’onere di offrire la prova dell’esistenza di fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria.

3.1. La censura deve essere disattesa sotto entrambi i profili denunciati.

3.2. Dalla lettura della sentenza impugnata si inferisce che il giudice di merito, sia pure in modo conciso, ha ritenuto fondata la pretesa impositiva e legittimo l’avviso di accertamento impugnato, in tal modo, implicitamente, disattendendo tutte le doglianze sollevata dalla parte contribuente e non espressamente richiamate e vagliate.

Non e’, pertanto, configurabile il dedotto vizio di omessa pronuncia, che non ricorre quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718).

Infatti, ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155).

3.3. Deve, parimenti, escludersi la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., che è ravvisabile nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass., sez. L, 19/08/2020, n. 17313; Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395).

Nella specie, nella illustrazione del motivo il ricorrente si duole che l’Amministrazione finanziaria non avrebbe dimostrato, come era suo specifico onere, i presupposti fondanti la pretesa, e, quindi, rivolge la sua censura al convincimento raggiunto dai giudici di appello, lamentando in sostanza che la ricostruzione operata dalla C.T.R. non trovi riscontro nelle risultanze processuali, in tal modo facendo valere una incongrua valutazione degli elementi probatori offerti piuttosto che un malgoverno, da parte dei giudici di appello, delle regole che presiedono alla ripartizione dell’onere della prova.

4. Con il quarto motivo, rubricato – Nullità della sentenza impugnata. Omessa pronuncia. Violazione dell’art. 112 c.p.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e del D.L. n. 167 del 1990, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – il ricorrente sostiene che il giudice di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sull’eccezione, sollevata in primo grado e ribadita in appello incidentale, secondo cui “in aperta violazione delle specifiche previsioni di cui di cui al D.L. n. 167 del 1990, artt. 4,5 e 6, in tema di monitoraggio fiscale, l’Ufficio impositore, sulla base di un procedimento privo di alcun fondamento logico oltre che legislativo, ha ritenuto di procedere all’accertamento del maggior reddito pari ad Euro 4.898.236,55”, in base all’ammontare dei redditi (“plusvalenze”, non meglio individuate) “realizzati” dal trust nell’esercizio 2003, non dando invece alcun rilievo alla disciplina recata dal D.L. n. 167 del 1990, la quale, come argomentato nel ricorso introduttivo, era l’unica disciplina applicabile al caso di specie.

4.1. Anche tale motivo deve essere rigettato.

4.2. Come già esposto con riguardo al terzo motivo, la doglianza prospettata non integra un vizio di omessa pronuncia, poiché il giudice di appello, integralmente confermando la pretesa impositiva, ha, seppure implicitamente, disatteso tutte le eccezioni sollevate dal contribuente non espressamente esaminate.

4.3. Neppure la censura, così come articolata, può configurare un vizio di violazione di legge del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, e del D.L. n. 167 del 1990, art. 6, posto che le critiche sollevate riguardano la quantificazione del reddito imponibile riferibile alle attività finanziarie estere e la composizione “qualitativa” delle disponibilità finanziarie detenute all’estero e si risolve in sostanza in una sollecitazione di rivisitazione del merito della controversia, preclusa a questa Corte di legittimità.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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