LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 20018/2017) proposto da:
V.E., (C.F.: *****), V.M., (C.F.:
*****), in proprio e nella qualità di procuratrice generale di VI.MA., (C.F.: *****), tutti rappresentati dal procuratore speciale M.G.B.A. in virtù di procura speciale del 22 luglio 2004 autenticata nelle firma dal notaio A.V. (rep. N. *****), rappresentato e difeso in giudizio, in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avv. Mario Occhipinti, e presso il suo studio elettivamente domiciliato, in Roma, v. Belsiana, n. 71;
– ricorrenti –
e IMMOBILIARE COLLINA VERDE di P.G. e c. s.n.c., (P.I.:
*****), rappresentata e difesa in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Mario Occhipinti e presso il suo studio elettivamente domiciliata, in Roma, v. Belsiana, n. 71;
– altra ricorrente –
contro
PA.EU., (C.F.: *****), rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avv. Serapio Deroma, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, in Roma, V. G. Avezzana, n. 2;
– controricorrente –
nonché
C.G., + ALTRI OMESSI;
– intimati –
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 3865/2016 (pubblicata il 16 giugno 2016);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26 gennaio 2022 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
udito il P.M., in persona del Sostituto procuratore generale Dott.ssa CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. Mario Occhipinti per i ricorrenti.
RITENUTO IN FATTO
1. Con atto di citazione notificato il 7 giugno 2005 V.E., V.M. e Vi.Ma. convenivano, dinanzi al Tribunale di Roma, Pa.Eu., esponendo che: – erano proprietari di un terreno ubicato in Roma, località “*****”, con accesso da *****, identificato in catasto al foglio *****, allegato *****, particella *****, a loro pervenuto in virtù di successione e per effetto di un accordo ereditario, confinante con altri fondi individuati in catasto alle particelle ***** di proprietà di loro parenti; – che, solo a seguito della notificazione di un avviso di accertamento e di liquidazione ricevuto dai proprietari dei terreni confinanti, avevano scoperto che il Tribunale di Roma, con sentenza n. 16392/2002 (emessa il 17 aprile 2002), aveva dichiarato il citato convenuto Pa.Eu. proprietario, a titolo di usucapione, oltre che di altri fondi, anche di quello di loro proprietà come innanzi indicato, senza, però, che essi avessero potuto partecipare al relativo giudizio (così come non era stato possibile nemmeno per gli altri convenuti), poiché l’atto di citazione erano stato notificato per pubblici proclami ai sensi dell’art. 150 c.p.c..
Sulla base di tale rappresentazione fattuale, gli attori deducevano che sussistevano le condizioni affinché la citata sentenza del Tribunale di Roma n. 16392/2002 venisse revocata per i motivi di cui dell’art. 395 c.p.c., nn. 1), 2), 4) e 5) e, in particolare, rispettivamente perché: a) – la sentenza doveva considerarsi frutto del comportamento doloso del Pa., il quale aveva utilizzato il procedimento notificatorio previsto dal menzionato art. 150 c.p.c., nell’insussistenza dei relativi presupposti (stante l’inesistenza della difficoltà di identificare i destinatari della notifica) ed aveva omesso di notificare la sentenza stessa onde far decorrere anche il termine lungo previsto dall’art. 327 c.p.c., allo scopo di non consentire loro di partecipare a quel giudizio, impendendo di difendersi sulla domanda di usucapione; – b) la sentenza stessa doveva considerarsi emessa sulla scorta di false affermazioni rese dai testimoni nel corso dell’istruzione probatoria; – c) la sentenza in questione aveva costituito l’esito di un giudizio fondato su un errore di fatto da ricondursi alla falsa rappresentazione che i convenuti del relativo giudizio erano comproprietari di un unico bene e non, come nella specie, proprietari di diversi ed indipendenti terreni; d) la sentenza in discorso era, infine, contraria ad altre passate in giudicato aventi ad oggetto la richiesta di rilascio di terreni abusivamente occupati.
Pertanto, i V. invocavano la revocazione della suddetta sentenza, instando anche per la condanna del convenuto al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c..
Il convenuto Pa.Eu. si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda sotto tutti i profili, non sussistendo alcuna delle denunciate ipotesi di revocabilità dell’indicata sentenza e difettando, quindi, anche qualsiasi condizione per rilevare la fondatezza della formulata domanda risarcitoria.
Intervenivano volontariamente in giudizio, nonché su istanza di parte, le parti convenute nel processo definito con l’impugnata sentenza per revocazione, le quali aderivano alla domanda di revocazione.
Intervenivano, altresì, anche l’ACEA s.p.a. e i sigg. R.F. e D., i quali deducevano che, non sussistendo alcuna ipotesi di litisconsorzio necessario ed essendo stata inserita per errore la loro particella nell’atto introduttivo del giudizio di usucapione (con impegno dell’attore a restituirla in loro favore), di non aver interesse ad impugnare la suddetta sentenza.
Con sentenza n. 15179/2008 l’adito Tribunale di Roma dichiarava l’improcedibilità della proposta domanda di revocazione poiché gli attori non avevano assolto all’onere processuale previsto dell’art. 399 c.p.c., comma 1, non avendo gli stessi provveduto a depositare, unitamente all’atto di citazione notificato il 7 giugno 2005, anche la copia autentica della sentenza oggetto di revocazione né era risultato che essa fosse stata depositata nel corso del giudizio.
2. Decidendo sull’appello formulato dai V. nonché da altre parti evocate ed intervenute nel giudizio di primo grado, la Corte di appello di Roma, nella costituzione di alcune delle ulteriori parti nonché dell’originario convenuto Pa.Eu., il quale – oltre ad insistere per l’inammissibilità o, in ogni caso, per il rigetto del gravame – proponeva appello incidentale censurando l’impugnata sentenza nella parte in cui aveva disposto la compensazione delle spese processuali, dichiarava inammissibile la domanda di revocazione avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 16392/2002 e fondato, invece, il gravame incidentale, disponendo la condanna al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio delle parti ad esso tenute.
A sostegno dell’adottata decisione la Corte di appello ravvisava, in primo luogo, la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità della revocazione straordinaria proposta con riferimento ai motivi di cui dell’art. 395 c.p.c., nn. 1) e 2), non avendo gli originari attori specificato nell’atto di citazione il requisito, previsto appunto a pena di inammissibilità (e rilevabile d’ufficio) dall’art. 398 c.p.c., comma 2, relativo all’indicazione del giorno in cui essi avevano avuto conoscenza del dedotto dolo o della prospettata falsità al fine di dimostrare la tempestività dell’impugnazione.
Riteneva, inoltre, la stessa Corte di appello che anche i motivi di revocazione ordinaria riferiti dell’art. 395 c.p.c., nn. 4) e 5), dovevano considerarsi inammissibili siccome rivolti avverso una sentenza ormai passata in giudicato. Infine e “per maggiore completezza” il giudice di secondo grado rilevava che gli appellanti avevano censurato per la prima volta solo in appello – e, quindi, inammissibilmente – l’impugnata sentenza lamentando che essa era stata emessa il 17 aprile 2002, ossia prima della conclusione della fase istruttoria e dell’escussione dei testi avvenuta all’udienza del 23 aprile 2002.
La Corte laziale, in ultimo, rilevava la fondatezza dell’appello incidentale del Pa. ravvisando l’illegittimità della compensazione delle spese disposta con la sentenza di primo grado, siccome adottata in violazione del principio della soccombenza.
3. Avverso la citata sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione, riferito a quattro motivi, V.E., V.M. (in proprio e nella qualità di procuratrice generale di Vi.Ma.) e la società Immobiliare Collina Verde. Ha resistito con controricorso il solo Pa.Eu., mentre nessuna delle altre parti intimate ha svolto attività difensiva in questa sede.
La difesa della parti ricorrenti ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la nullità dell’impugnata sentenza con riferimento alla rilevata inammissibilità dei motivi di revocazione straordinaria per ritenuta violazione dell’art. 398 c.p.c., comma 2, non essendosi tenuto conto che essa società ricorrente aveva specificamente indicato nell’atto di intervento nel giudizio di revocazione, depositato in sede di udienza di prima comparizione, di aver appreso soltanto dieci giorni prima dell’esistenza della sentenza oggetto della domanda revocazione.
2. Con la seconda censura i ricorrenti hanno dedotto – con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione degli artt. 101,112,113,115,150 c.p.c. e art. 327 c.p.c., comma 2, censurando l’impugnata sentenza nella parte in cui aveva illegittimamente ritenuto la tardività dei motivi di revocazione ordinaria di cui dell’art. 395 c.c., nn. 4) e 5) e non aveva rilevato l’inesistenza della notificazione della citazione in data 8 febbraio 2001 effettuata dal Pa.Eu. in applicazione del procedimento notificatorio previsto dall’art. 150 c.p.c., omettendo il compimento delle relative formalità, ovvero di procedere all’acquisizione del parere del P.M., al deposito della copia dell’atto nella casa comunale, all’esatta indicazione delle generalità e del contenuto dell’estratto pubblicato sulla G.U. e al deposito della copia dell’atto notificato dall’ufficiale giudiziario con la relazione di notifica ed i documenti giustificativi dell’attività svolta.
3. Con il terzo mezzo i ricorrenti hanno denunciato l’inesistenza della sentenza n. 16392/2002 del Tribunale di Roma, siccome da ritenersi “inutiliter data” per omessa integrazione del contraddittorio e lesione del diritto di difesa in una fattispecie processuale caratterizzata da litisconsorzio necessario, con conseguente inidoneità della stessa a passare in cosa giudicata. In particolare, con questo motivo, i ricorrenti hanno inteso dedurre che sia l’atto di citazione dell’8 febbraio 2001 del Pa.Eu. che la correlata notificazione per pubblici proclami con pubblicazione dell’estratto sulla G.U. ai sensi dell’art. 150 c.p.c., nonché l’indicata sentenza del Tribunale romano oggetto della domanda di revocazione, erano stati rivolti nei confronti di B.S., il quale, tuttavia, risultava essere già deceduto, senza che l’attore avesse proceduto ad integrare il contraddittorio nei confronti dei suoi successori Va.Cl., Br.Si. e B.F., i quali, perciò, non avevano potuto partecipare al relativo giudizio.
4. Con la quarta ed ultima doglianza i ricorrenti hanno prospettato il vizio di mancata motivazione nell’impugnata sentenza con riferimento all’omessa valutazione della necessità di trasmettere gli atti al competente P.M., al fine dell’accertamento dell’eventuale rilevanza penale delle relative circostanze riguardanti la prospettazione del dolo e della falsità delle prove come dedotti a sostegno dei motivi di revocazione straordinaria.
5. Rileva il collegio che, in primo luogo, occorre farsi carico dell’eccezione preliminare sollevata dal controricorrente circa la supposta inammissibilità del ricorso per l’intervenuto passaggio in giudicato della declaratoria di improcedibilità adottata con la sentenza di primo grado in relazione al mancato assolvimento dell’onere processuale prescritto dall’art. 399 c.p.c., comma 1.
Essa è da ritenersi manifestamente infondata dal momento che – per come emerge dal contenuto della stessa sentenza qui impugnata (v. pag. 9) – gli odierni ricorrenti avevano specificamente denunciato in appello, con i primi due motivi, proprio l’illegittimità della dichiarata violazione di detto onere circa il necessario deposito tempestivo dell’atto di citazione unitamente alla copia autentica dell’impugnata sentenza.
6. Passando all’esame dei formulati motivi va rilevato che il primo è destituito di fondamento e deve, perciò, essere respinto.
Occorre, innanzitutto, osservare come sia incontestato che i V., quali attori in revocazione, non avevano assolto alle necessarie e specifiche indicazioni previste dall’art. 398 c.p.c., comma 2 (né, del resto, le stesse risultato riportate nel motivo), essendosi gli stessi, al riguardo, limitati soltanto a fare un riferimento contenuto nella comparsa di intervento volontario della società “Collina Verde” (pure ricorrente), relativo alla circostanza che quest’ultima aveva avuto cognizione dell’esistenza della sentenza del Tribunale di Roma n. 16392/2002 solo 10 giorni prima.
Orbene, tale riferimento – palesemente generico – è del tutto inidoneo ai fini dell’osservanza del prescritto requisito ed, inoltre, tenendosi conto che la domanda di revocazione era stata proposta dai tre V. relativamente alla pronuncia riguardante la declaratoria di acquisto per usucapione del fondo di loro proprietà, avrebbero dovuto essere loro tenuti ad assolvere direttamente al suddetto onere processuale, non potendosi intendere sanato con l’indicazione di una parte interveniente adesiva, in ogni caso – come evidenziato – del tutto generica, dovendosi, invero, porre specifico riguardo al giorno della scoperta o dell’accertamento del prospettato dolo e/o della falsità delle relative prove, da precisare dettagliatamente – a pena di inammissibilità – nell’atto introduttivo.
Al riguardo è opportuno rimarcare che la giurisprudenza di questa Corte è univoca (v., ad es., Cass. n. 2287/2005, Cass. n. 11451/2011 e Cass. n. 9652/2016) nel ritenere che il precetto – sancito, a pena di inammissibilità, dell’art. 398 c.p.c., comma 2 – di indicare, fin dall’istanza di revocazione, le prove del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo o della falsità, o del recupero dei documenti, impone che la data in questione debba costituire un preciso “thema probandum” e risultare “ab initio”, perché, dandosi ingresso al giudizio rescindente, è necessario conoscere, ai fini della decorrenza del termine perentorio, se almeno, secondo l’assunto di chi agisce, questo non appaia scaduto. Non vale, perciò, ad escludere la sanzione di inammissibilità, l’integrazione di tali indicazioni negli atti difensivi successivi a quello introduttivo, né l’eventuale accertamento d’ufficio delle inerenti circostanze da parte del giudice, inteso a precisare il giorno della scoperta, che verrebbe a risolversi in una non consentita “relevatio ab onere probandi” della parte tenuta al rispetto di tale onere processuale, che, se omesso, comporta, per l’appunto, l’inammissibilità della domanda di revocazione riferita ai predetti motivi, rilevabile d’ufficio (cfr. Cass. n. 108/1984).
7. Anche la seconda censura è infondata e va rigettata.
Al riguardo occorre rilevare come, in effetti, dal relativo atto di citazione riguardante la domanda di revocazione emerge che gli attori non avevano eccepito la nullità e l’inesistenza della notificazione avvenuta ai sensi dell’art. 150 c.p.c., avendo prospettato l’insussistenza “a monte” dei relativi presupposti, correlando ad essa l’emergenza di un dolo revocatorio, che, tuttavia, non è chiaramente riconducibile all’ipotesi di cui dell’art. 395 c.p.c., n. 1)).
Infatti, essendo la revocazione prevista per i soli motivi tassativamente indicati nell’art. 395 c.p.c., deve considerarsi preclusa la proposizione di ogni altro motivo, compreso quello concernente la deduzione del vizio di inesistenza o di nullità radicale della sentenza (anche, perciò, per un vizio processuale originario del giudizio riflettentesi sulla sentenza), che rimane deducibile con le ordinarie impugnazioni (cfr. Cass. n. 11299/2018) ovvero con l’actio nullitatis.
Peraltro, con riferimento alla specifica fattispecie, deve reputarsi che il Pa. aveva fatto legittimamente ricorso al procedimento notificatorio previsto dall’art. 150 c.p.c., posto che la sussistenza dei relativi presupposti era stata valutata dal competente Presidente del Tribunale previa acquisizione dei necessari documenti e del parere del P.M., per come risultante dagli atti processuali, così come specificamente richiamati anche nel controricorso (v. pagg. 10-12).
8. Il terzo motivo è propriamente inammissibile perché viene per la prima volta dedotto con il ricorso per cassazione non essendo stata formulata la relativa censura con l’atto di appello nel giudizio di revocazione. Oltretutto la prospettata rilevabilità d’ufficio anche nel giudizio di cassazione dell’omessa integrazione del contraddittorio in processo litisconsortile non ha modo di operare in questa sede poiché tale vizio (peraltro attinente a rapporto processuale non involgente il Pa. con gli attori in revocazione, poiché riguardante il “petitum” della richiesta di usucapione nei confronti di altra parte) non attiene al giudizio revocatorio (cui si riferisce la sentenza ora impugnata) ma al giudizio presupposto; quindi, avrebbe dovuto essere il giudice di quel processo a rilevarlo eventualmente d’ufficio e il mancato rilievo avrebbe dovuto essere fatto valere in sede di impugnazione avverso quella sentenza, ragion per cui la questione deve intendersi preclusa per effetto del sopravvenuto giudicato.
9. Anche il quarto ed ultimo motivo si profila inammissibile, dovendosi, all’evidenza, ritenere che, malgrado la deduzione con l’atto di appello della mancata motivazione circa la richiesta di invio degli atti al P.M., con la sentenza qui impugnata la Corte di appello ha ritenuto implicitamente assorbita la relativa doglianza per effetto della dichiarata inammissibilità della domanda di revocazione in dipendenza delle spiegate ragioni attinenti a vizi processuali riguardanti, invero, ancor prima il mancato assolvimento dell’onere processuale di cui all’art. 398 c.p.c., comma 2, e, quindi, senza nemmeno entrare nella valutazione implicante il possibile rilievo di circostanze aventi un’eventuale rilevanza penale, tale da poter comportare l’esercizio del potere previsto dall’art. 331 c.p.p..
10. In definitiva, alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei ricorrenti, con vincolo solidale, al pagamento delle spese del presente giudizio in favore del controricorrente Pa.Eu., che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo. Non occorre provvedere ad alcuna ulteriore pronuncia sulle spese in relazione agli ulteriori rapporti processuali, non avendo nessuna delle altre parti intimate svolto attività difensiva.
Infine, in virtù del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti, sempre in via solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio in favore del controricorrente Pa.Eu., liquidate in complessivi Euro 3.700,00, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle voci come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, in via solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2022
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