Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.533 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27123/2018 R.G. proposto da:

PARC HOTEL VILLA IMMACOLATA srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Lorenzo del Federico, e dall’Avv. Valeria D’Ilio, con domicilio eletto in Roma, via F.

Denza, n. 20, presso lo studio dell’Avv. Laura Rosa;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI PESCARA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Paola Di Marco, e dall’Avv. Antonella Manso, elettivamente domiciliato presso l’Avvocatura del Comune di Pescara, p.zza Italia n. 1;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, n. 145/V/2018, depositata il 13 febbraio 2018.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 6 ottobre 2021 dal Consigliere Maria Elena Mele.

RITENUTO

che:

Parc Hotel Villa Immacolata srl, in persona del legale rappresentate pro tempore, impugnava l’avviso di pagamento con cui il Comune di Pescara aveva richiesto il pagamento della tassa per lo smaltimento rifiuti (TARI) per l’anno 2014, deducendo il difetto di motivazione dell’atto, l’illegittimità della tariffa applicata in quanto non commisurata alla quantità e qualità medie dei rifiuti prodotti, la mancata applicazione della riduzione prevista nel caso di avvio al recupero di rifiuti assimilati agli urbani, l’errata determinazione della superficie tassabili, non essendo stata scomputata l’area ove si producono rifiuti speciali smaltiti in proprio dalla società.

La Commissione tributaria provinciale di Pescara rigettava il ricorso con sentenza confermata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo.

La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza affidata a tre motivi.

Il Comune di Pescara ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, della L. n. 212 del 2000, art. 7, della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la CTR ritenuto l’avviso di accertamento sufficientemente motivato. In realtà in esso mancherebbe ogni riferimento all’istruttoria svolta ed in particolare la specificazione del metodo seguito per la determinazione della tariffa con riguardo alla quantità e tipologia dei rifiuti e alle ragioni per le quali è stata applicata all’intera superficie dell’immobile la tariffa prevista per gli alberghi con ristorante.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 649, del Reg. comunale UIC, art. 28, e art. 38, comma 5, nonché della L. n. 212 del 2000, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Il giudice d’appello avrebbe escluso l’applicabilità delle riduzioni ed esenzioni previste dalla L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 649, in ragione del mancato assolvimento da parte della contribuente deli obblighi dichiarativi su di essa gravanti. In tal modo, la CTR non avrebbe considerato che il Comune sulla base della documentazione di cui era già in possesso avrebbe “dovuto trarre le debite conclusioni in termini di produzione di rifiuti assimilabili agli urbani, speciali e così di seguito”. Inoltre, non aveva tenuto conto della documentazione prodotta dalla contribuente nel giudizio di appello.

Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 652, del Reg. comunale UIC, art. 31, del D.P.R. n. 158 del 1999, art. 6, nonché del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 3-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo la CTR escluso l’illegittimità del regolamento comunale TARI nella parte in cui determina la tariffa applicabile agli alberghi con ristorazione, senza aver svolto l’attività istruttoria necessaria per determinare la quantità e qualità dei rifiuti conferiti. Il giudice d’appello, inoltre, non avrebbe considerato che l’applicazione della tariffa maggiorata prevista per gli alberghi con ristorazione all’intera superficie e ad un albergo posto in zona poco appetibile e con flusso di clientela non costante, violerebbe il limite della equità contributiva e della necessità che i costi siano commisurati ai volumi e alla natura dei rifiuti prodotti.

La prima censura è inammissibile.

La verifica in ordine all’esistenza e all’adeguatezza della motivazione dell’avviso di accertamento va condotta secondo la disciplina specificamente dettata, in ordine al contenuto dell’atto in esame, dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, a tenore del quale “Gli avvisi di accertamento in rettifica e d’ufficio devono essere motivati in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che li hanno determinati; se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”.

Tale norma, ricalcando sostanzialmente gli obblighi motivazionali richiesti in linea generale dello Statuto del contribuente, impone dunque esclusivamente che, previa enunciazione del criterio astratto, vengano specificati gli elementi su cui si fonda la ripresa a tassazione, necessari per consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa.

Ne deriva che, in tema di tassa di smaltimento dei rifiuti, nel caso in cui la rettifica venga operata sulla base di una variazione di superficie o di tariffa o di categoria, deve ritenersi sufficiente l’indicazione della maggiore superficie accertata o della diversa tariffa o categoria ritenuta applicabile, elementi che, integrati con gli atti generali, quali le delibere comunali o altri regolamenti comunali – che non è necessario allegare, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, perché si rivolgono ad una pluralità indistinta, anche se determinabile ex post, di destinatari occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili (cfr. Cass. sez. 5, 23 ottobre 2006, n. 22804; Cass. sez. 5, 26 marzo 2014, n. 7044; Cass. n. 16165 del 2018 e n. 7437 del 2019) – risultano idonei a rendere intellegibili i presupposti di fatto e di diritto della pretesa tributaria, posta anche la semplicità del procedimento logico che in questi casi caratterizza la determinazione del tributo in esame, il cui ammontare viene determinato moltiplicando la tariffa, individuata sulla base della categoria, per la superficie tassata. Va pertanto escluso che possa essere censurata come mancanza di motivazione l’omessa individuazione di tutte le fonti probatorie o delle indagini effettuate per rideterminare l’area, ben potendo tali indicazioni essere fornite nell’eventuale successiva fase contenziosa, in cui l’Amministrazione ha l’onere di provare l’effettiva sussistenza dei presupposti per l’applicazione del criterio prescelto ed il contribuente la possibilità di contrapporre altri elementi sulla base del medesimo criterio o di altri parametri.

Nella specie, tuttavia, la società contribuente, pur lamentando la carente motivazione dell’avviso di accertamento e censurando sotto tale profilo la sentenza impugnata, non ha riprodotto il contenuto dell’atto impositivo.

In base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione in relazione alla motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso (ex plurimis v. Cass., sez. 5, n. 22119 del 2021; n. 28776 del 2021).

Ciò nella specie la ricorrente non ha fatto precludendo, dunque, a questa Corte di verificare il vizio lamentato.

Il secondo motivo è infondato.

Si osserva preliminarmente che la tassa rifiuti (TARI) ha sostituito, a decorrere dal 1 gennaio 2014, i preesistenti tributi dovuti ai Comuni dai cittadini, enti ed imprese quale pagamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (noti in precedenza con gli acronimi di TARSU e, successivamente, di TIA e TARES), conservandone, peraltro, la medesima natura tributaria. L’imposta è dovuta, ai sensi della L. 27 dicembre 2013, n. 147, per la disponibilità dell’area produttrice di rifiuti e, dunque, unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, mentre le deroghe indicate e le riduzioni delle tariffe non operano in via automatica in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo il contribuente dedurre e provare i relativi presupposti. Ai sensi della L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 649, nella determinazione della superficie assoggettabile alla TARI non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori, a condizione che ne dimostrino l’avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente.

Per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella determinazione della TARI, il Comune con proprio regolamento può prevedere riduzioni della parte variabile della tariffa proporzionali alle quantità che i produttori stessi dimostrino di avere avviato al recupero.

Ciò premesso, alla luce della normativa sopra richiamata, ben può trovare applicazione alla fattispecie la giurisprudenza di questa Corte in tema di TARSU con riguardo alla D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, secondo la quale la tariffa deve essere applicata nei confronti di chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, salva l’applicazione sulla stessa di un “coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi” e chiaramente presuppone l’assoggettamento all’imposta dei soli rifiuti urbani e salvo il diritto ad una riduzione della tassa in caso di produzione di rifiuti assimilati “smaltiti in proprio” (Cass. n. 6359 del 2016).

In tale materia grava sul contribuente l’onere di provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare dell’esenzione, atteso che, pur operando il principio secondo il quale è l’Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell’obbligazione tributaria, esso non può operare con riferimento al diritto ad ottenere una riduzione della superficie tassabile, o addirittura l’esenzione, costituendo questa, un’eccezione alla regola del pagamento del tributo da parte di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale (Cass., Sez. 5, n. 12979 del 15/05/2019, Rv. 653733-01; n. 22130/2017; n. 17622 del 2016; n. 26725 del 2016).

Da tanto discende che correttamente la CTR ha interpretato la normativa in esame, ritenendo che fosse obbligo della contribuente, in sede di dichiarazione informare il Comune della particolare destinazione dei locali documentando la produzione in essi di rifiuti speciali e il loro smaltimento, e che nella specie essa non vi aveva adempiuto.

Il terzo motivo è infondato.

Deve, innanzitutto, osservarsi che ai fini della determinazione della tariffa annuale la L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 652 (nella formulazione applicabile ratione temporis), riconosce al Comune la possibilità di commisurarla alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia delle attività svolte nonché al costo del servizio sui rifiuti. E’ previsto, inoltre, che “Le tariffe per ogni categoria o sottocategoria omogenea sono determinate dal comune moltiplicando il costo del servizio per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti”. Si dispone altresì che tale determinazione avvenga nel rispetto del principio “chi inquina paga”, sancito dalla Dir. del Parlamento Europeo e del Consiglio 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE, art. 14.

Questa Corte ha affermato che “in tema di TARSU, la disciplina contenuta nel D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, sulla individuazione dei presupposti della tassa e sui criteri per la sua quantificazione non contrasta con il principio comunitario “chi inquina paga”, sia perché è consentita la quantificazione del costo di smaltimento sulla base della superficie dell’immobile posseduto, sia perché la detta disciplina non fa applicazione di regimi presuntivi che non consentano un’ampia prova contraria, ma contiene previsioni (v. artt. 65 e 66) che commisurano la tassa ad una serie di presupposti variabili o a particolari condizioni”. Tali pronunce hanno preso in esame, ritenendoli dirimenti in ordine all’esclusione della violazione del principio in esame, le sentenze CGUE 24.6.08 in causa C-188/07 e 16.7.09 in causa C-254/08 (quest’ultima, avente ad oggetto un rinvio pregiudiziale in una causa pendente dinanzi al TAR Campania, nella quale veniva contestata proprio la legittimità, per affermato contrasto con la Dir. n. 2006/12/CE, art. 15, della disciplina legislativa sulla TARSU, nonché di norme di un regolamento comunale in base alle quali le imprese alberghiere sarebbero state tenute al versamento della tassa sui rifiuti in misura superiore ai privati).Nella valutazione di conformità della disciplina nazionale al principio evincibile dalla Dir. n. 2006/12, art. 15, lett. a) (già desumibile dalla Dir. n. 75/442, art. 11), la CGUE ha affermato che: “e’ spesso difficile, persino oneroso, determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da ciascun detentore; – in tali circostanze, ricorrere a criteri basati sulla capacità produttiva dei detentori, calcolata in funzione della superficie dei beni immobili che occupano, nonché della loro destinazione e/o sulla natura dei rifiuti prodotti può consentire di calcolare i costi dello smaltimento e ripartirli tra i vari detentori; – sotto tale profilo, la normativa nazionale che preveda, ai fini del finanziamento, una tassa calcolata in base ad una stima del volume dei rifiuti generato e non sulla base del quantitativo effettivamente prodotto non può essere considerata in contrasto con la Dir. n. 2006/12, art. 15, lett. a); – nella materia, le autorità nazionali dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto riguarda le modalità di calcolo della tassa; – per quanto riguarda la differenziazione tra categorie di detentori, la stessa deve ritenersi ammessa, purché non venga fatto carico ad alcuni di costi manifestamente non commisurati ai volumi o alla natura dei rifiuti da essi producibili”. Sicché, in definitiva, “il metodo di calcolo basato sulla superficie di immobile posseduto non e’, di per sé, contrario al principio “chi inquina paga” recepito dalla Dir. n. 75/442, art. 11" (Cass., Sez. 5 n. 28676 del 2018; n. 2202 del 2011).

Si è altresì rilevato che non è configurabile alcun obbligo di motivazione della delibera comunale di determinazione della tariffa dal momento che essa, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se determinabile ex post, di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili (ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 7437 del 2019; Sez. 6-5, n. 16165 del 2018).

Con riguardo al potere di disapplicare l’atto amministrativo in relazione alla decisione del caso concreto che spetta al giudice tributario, questa Corte ha anche affermato che esso può conseguire solo alla dimostrazione della sussistenza di ben precisi vizi di legittimità dell’atto (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) e che la contestazione della validità dei criteri seguiti dal Comune nell’adottare la delibera non è sufficiente per pervenire alla dichiarazione (incidentale) d’illegittimità della stessa, dovendo, al riguardo rilevarsi che, nell’ambito degli atti regolamentari dei comuni, esiste uno spazio di discrezionalità di orientamento politico-amministrativo, insindacabile in sede giudiziaria (Cass., sez. 5, n. 7044 del 26/03/2014; v. altresì, sez. 5, n. 5355 del 27/02/2020, Rv. 657361 – 01).

La decisione della CTR si è allineata ai suddetti principi avendo affermato che le modalità di determinazione della tariffa, recate dal regolamento comunale, sono rispettose delle disposizioni di legge e che la distinzione delle utenze in varie categorie e sottocategorie omogenee risulta coerente con la diversa capacità di produrre quantità diverse di rifiuti, ed essendo la distinzione della categoria dei ristoranti rispetto a quella degli alberghi con ristorante coerente con la diversa capacità di produzione dei rifiuti.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in Euro 4.100 per compensi, oltre spese forfetarie, accessori di legge e oltre Euro 200 per esborsi.

Visto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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