Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.539 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1389/2017 proposto da:

A.G., elettivamente domiciliato in Messina, Via Cavalieri Della Stella, 33, presso lo studio dell’avvocato Marullo Di Condojanni Ferdinando, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Marullo Di Condojanni Sergio;

– ricorrente –

contro

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3629/2016 della COMM. TRIB. REG., LOMBARDIA, depositata il 20/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/10/2021 dal Consigliere Dott. FASANO ANNA MARIA.

RITENUTO

che:

Con atto registrato il ***** presso l’Agenzia delle Entrate, Selor S.n.c. di G. e R. S., cedevano la propria azienda con immobili a Fosca s.n.c. di S. e F., al prezzo complessivo di Euro 410.000,00. Gli immobili aziendali erano gravati da mutuo ipotecario. Le parti contraenti sottoponevano l’atto di cessione di azienda all’imposta di registro nella misura del 3% per i beni mobili e del 7% per i beni immobili. La passività immobiliare derivante dal mutuo ipotecario veniva imputata proporzionalmente al valore dei fabbricati, ai sensi del D.Lgs. n. 131 del 1986, art. 51, comma 4, pertanto veniva applicata l’imposta di registro sul valore dei cespiti immobiliari al netto della passività, costituita dal mutuo gravante su alcuni fabbricati appartenenti al complesso aziendale trasferito.

L’Ufficio notificava al notaio rogante un avviso di liquidazione, applicando l’imposta di registro con aliquota del 7% sull’intero importo della cessione relativo ai beni immobili (pari ad Euro 355.000), ed includendo, quindi, anche il prezzo del mutuo, con recupero a tassazione pari ad Euro 16.890. Il contribuente impugnava l’atto impositivo, assumendo l’inerenza della passività all’immobile del complesso aziendale. La Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con sentenza n. 3658/17/15, accoglieva il ricorso, ritenendo che le passività inerenti all’azienda oggetto di accollo da parte dell’acquirente dovevano concorrere in diminuzione alla determinazione della base imponibile ai fini dell’imposta di registro, poiché l’accollo non poteva considerarsi come atto separato ed autonomo, essendo componente del valore – corrispettivo.

L’Ufficio proponeva appello dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che, con sentenza n. 3629/2016, accoglieva il gravame, atteso che nel caso di cessione di azienda le passività, a prescindere se inerenti o meno all’azienda, concorrevano a formare la base imponibile.

A.G. ricorre per la cassazione della sentenza, svolgendo quattro motivi. L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 4, art. 23, comma 2, e art, 43, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto i giudici della Commissione Tributaria Regionale avrebbero erratamente applicato il dato normativo escludendo dalla base imponibile la passività inerente all’azienda. Il ricorrente deduce che l’inerenza della passività all’azienda sarebbe stata ampiamente provata nei gradi di merito, tramite la produzione del contratto di mutuo fondiario stipulato il *****, per Euro 350.000, dalla società cedente azienda (Selor s.n.c.) con Banca di Credito Cooperativo Orobica di Bairano e Cologno al Serio, fornito da ipoteca. Il mutuo graverebbe sui fabbricati aziendali in cui si svolge l’attività ceduta. La tassazione ai fini dell’imposta di registro della cessione del complesso aziendale andrebbe intesa in senso unitario ed inscindibile di componenti positivi e negativi collegati fra loro funzionalmente.

2. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto i giudici di appello avrebbero omesso di tenere conto della dimostrazione nel corso del giudizio del requisito della inerenza della passività, che non sarebbe mai stata contestata da controparte. Nelle memorie in appello sarebbe stato appunto rilevato che questa “circostanza è dimostrata e non contestata nel caso qui in giudizio”. Elemento che assumerebbe rilievo in virtù del principio processuali di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c..

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto i giudici di appello avrebbero erroneamente rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello, in quanto l’atto non recherebbe i motivi specifici di impugnazione della sentenza, pur rilevando che l’impugnazione riporta il contenuto dell’atto di primo grado. Secondo il ricorrente, l’unico motivo di appello sarebbe viziato da indeterminatezza e sommarietà, da non consentire l’individuazione del nucleo della censura rivolta contro la decisione impugnata.

4. Con il quarto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per illegittimità dell’avviso di liquidazione in quanto carente di motivazione. Il ricorrente deduce che nel ricorso di primo grado avrebbe dedotto la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, per carente motivazione sotto vari profili dell’atto impositivo. L’avviso di liquidazione sarebbe privo dell’indicazione della maggiore aliquota applicata alla rettifica e del prospetto che indica l’imposta dovuta in caso di presentazione del ricorso.

5. Per ragioni di priorità logica va esaminato il terzo motivo di ricorso. Le critiche sono infondate.

Questa Corte ha, in più occasioni, precisato che: “In tema di contenzioso tributario, la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione, le quali, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, determinano l’inammissibilità dell’appello, non sono ravvisabili qualora il gravame, benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità dei motivi ricavarsi, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni; ciò in quanto l’articolo cit. deve essere interpretato restrittivamente, in conformità con l’art. 14 preleggi, trattandosi di disposizione eccezionale che limita l’accesso alla giustizia, dovendosi pertanto consentire, ogni qual volta nell’atto sia comunque espressa la volontà di contestare la decisione di primo grado, l’effettività del sindacato sul merito dell’impugnazione”(Cass. n. 15519 del 2020).

E’ stato anche affermato che: “Nel processo tributario, la riproposizione, a supporto dell’appello proposto dal contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, atteso il carattere devolutivo pieno, in tale giudizio, dell’appello, quale mezzo di gravame non limitato al controllo di vizi specifici, ma volto ad ottenere il riesame della causa di merito”(Cass. n. 30525 del 2018).

Il giudice del merito, previo accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente motivato e privo di vizi logici, ha rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dalla resistente, ritenendo correttamente che il ricorrente può riproporre a sostegno del gravame le stesse argomentazioni illustrate nel giudizio di primo grado, così assolvendo all’onere di specificità dei motivi imposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53.

6. Il primo ed il secondo mezzo vanno trattati congiuntamente in quanto inerenti alla medesima questione.

Il tema all’esame della Corte riguarda la determinazione dell’imposta di registro in ipotesi di cessione di azienda con pagamento del prezzo in parte mediante accollo del mutuo. Il contribuente ha adempiuto all’obbligazione tributaria, determinando la base imponibile sottraendo dal valore complessivo (il prezzo di vendita) il mutuo accollato. L’Ufficio ha, invece, richiamato il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 2, secondo cui i debiti e gli altri oneri accollati e le obbligazioni estinte, per effetto dell’atto, concorrono a formare la base imponibile.

6.1. In tema di cessione di azienda, per la determinazione della base imponibile non si può prescindere dall’effetto principale del contratto che, trasferendo il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, comporta anche il trasferimento all’acquirente dell’intero sistema aziendale, la cui corretta valorizzazione è strettamente connessa ad un esame complessivo dei differenti fattori economici, quali beni strumentali e non, comprese le passività, tutti funzionalmente collegati al raggiungimento del fine dell’impresa.

La totalità di questi fattori costituisce la base di commisurazione del tributo, poiché esprime la capacità contributiva complessiva dell’azienda ceduta.

Nel sistema dell’imposta di registro, il calcolo della base imponibile, previsto dall’art. 51 T.U.R., comma 4, è effettuato in base alla c.d. valorizzazione al netto delle passività aziendali, basandosi sull’assunto che le passività aziendali vengono normalmente prese in carico dal concessionario. La disposizione, infatti, precisa che: “per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse il valore di cui al comma 1, è controllato dall’ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento (…) al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile”.

La norma va letta in combinato disposto con l’art. 43 T.U.R., comma 2, secondo cui: “i debiti e gli altri oneri accollati e le obbligazioni estinte per effetto dell’atto concorrono a formare la base imponibile tale statuizione specifica che gli oneri e le passività che si accolla il concessionario per effetto della vendita costituiscono parte del corrispettivo, ovvero del vantaggio che il cedente trae dalla cessione aggiunta al prezzo dichiarato.

In sostanza, gli oneri e le passività che, per effetto della vendita, saranno caricati al concessionario rappresentano un vantaggio ulteriore che il cedente consegue dalla cessione.

Le suddette disposizioni vanno lette anche tenendo conto del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 21, comma 3, che consente l’esonero espresso da autonoma imposizione di accolli di debiti connessi ad una cessione, in quanto già tassati sotto forma di corrispettivo della cessione, essendo inclusi nel calcolo della base imponibile.

Ne consegue che mentre le passività aziendali di cui all’art. 2560 c.c., inerenti all’esercizio di attività di impresa, vanno scomputate dal calcolo della base imponibile, gli accolli di debiti diversi vanno, invece, inseriti nel medesimo calcolo.

Nell’ipotesi, come nella specie, in cui il prezzo di compravendita è comprensivo della cessione alla parte acquirente del residuo mutuo gravamente sui fabbricati oggetto di cessione (v. pag. 2 ricorso per cassazione), ossia l’accollo del debito è espressamente pattuito come modalità di pagamento del prezzo di cessione, l’Amministrazione fiscale può procedere ad una rettifica in aumento della base imponibile. Tuttavia, questa Corte ha, in più occasioni, precisato che: “In tema di imposta di registro su atti di cessione di azienda (o di diritti reali su di esse), il valore effettivo, rispetto a quello dichiarato, deve essere accertato tenendo conto del criterio di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 4, che non esclude, peraltro, una verifica sulla inerenza delle passività risultanti dalla documentazione contabile rispetto all’attività svolta dall’azienda trasferita, in quanto l’estraneità dei debiti, ancorché appostati in contabilità ed assunti dalla concessionaria, fa sorgere, in capo all’acquirente, una responsabilità ex art. 2560 c.c., comma 2, assimilabile all’accollo che, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 2, concorre a determinare la base imponibile “(Cass. n. 27838 del 2018).

Con la pronuncia n. 10218 del 2016, la Corte aveva già distinto tra passività inerenti all’azienda e passività non inerenti ai fini della determinazione della base imponibile: le prime sarebbero deducibili, mentre le seconde, per le quali sia accertata l’estraneità all’azienda, costituirebbero un’ipotesi di accollo da parte del concessionario del debito del cedente, di guisa che tale accollo rappresenterebbe una modalità di determinazione e corresponsione del prezzo di acquisto, così come concordato dalle parti.

Di recente, con le pronunce n. 888 e 891 del 2019, questa Corte, ha precisato che i debiti aziendali trasferiti nell’ambito della vicenda circolatoria dell’azienda concorrono a determinare, se inerenti, in negativo il valore dell’oggetto della cessione, senza che possa trovare applicazione rispetto ad essi il principio di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 2. Con la conseguenza che, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 1, l’imposta di registro deve essere applicata alla cessione di azienda sulla base del valore dichiarato in atto o (in mancanza o se superiore) del corrispettivo pattuito, che ben le parti possono parametrare al valore netto dell’azienda, senza che ad esso si debbano aggiungere le passività aziendali trasferite. In particolare, con la pronuncia n. 888 del 2019 è stato precisato: “Ancorché il citato art. 51, comma 4, preveda che l’Ufficio, nel caso di atti che abbia per oggetto aziende o diritti reali su di essi, effettui il controllo del valore dichiarato con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, “al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile tranne quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere (…)”, senza, pertanto, fare riferimento esplicito al requisito di inerenza, deve pur tuttavia, ritenersi che il suddetto controllo non possa prescindere dal riscontro altresì di quest’ultimo requisito al fine dell’adeguamento dell’imposizione al valore effettivo del complesso aziendale trasferito. Il richiamo testuale di legge vuole indicare che, in tanto dovrà tenersi conto delle passività aziendali, in quanto queste ultime risultino dalle scritture contabili obbligatorie (o da altri atti con data certa); e anche che le passività effettivamente risultanti in contabilità comportino per ciò solo, in sede di controllo, la diminuzione della base imponibile dell’imposta di registro indipendentemente dalla loro comprovata inerenza all’azienda ceduta. E’ pur vero che in quest’ultima ipotesi sussiste, per il solo fatto che i debiti risultino dai libri contabili obbligatori, la responsabilità dell’acquirente dell’azienda ex art. 2560 c.c., comma 2; ma, allorquando emerge che tali debiti siano in realtà estranei all’azienda, l’assunzione di tale responsabilità da parte dell’acquirente non può che configurare un’ipotesi sostanzialmente riconducibile all’accollo da parte del cessionario del debito del cedente (indipendentemente dalla inerenza soltanto contabile, e non operativa, della posta passiva). Senonché, tale accollo non rappresenta che una modalità di determinazione e corresponsione del prezzo di acquisto, così come concordato in ragione dell’effettivo valore attribuito dalle parti all’azienda; il quale dovrà pertanto essere individuato, ai fini dell’imposta di registro, non al “netto”, ma al lordo della passività non inerente (Cass. n. 12215/08)”.

6.2. Nella fattispecie, i giudici di appello non hanno fatto buon governo dei principi espressi, omettendo di valutare se il mutuo accollato dall’acquirente fosse inerente all’attività di impresa, circostanza pure dedotta dal contribuente nel corso del giudizio di merito. Si argomenta in ricorso (pag. 12) che, nel corso dei giudizi dinanzi alle Commissioni Tributarie, l’inerenza della passività all’azienda era stata ampiamente provata tramite la produzione del contratto di muto fondiario stipulato il ***** per Euro 350.000 dalla società cedente l’azienda e garantito da ipoteca sui fabbricati aziendali, in cui si svolgeva l’attività ceduta. Tale accertamento sarebbe stato necessario, in ragione degli enunciati principi di diritto, atteso che l’inerenza della passività discende dalla individuazione degli atti che hanno dato origine e corpo all’attività trasferita, valutando la diretta connessione del debito con l’esercizio delle attività e avendo riguardo a specifici elementi fattuali, che consentano di individuare il confine con i debiti contratti per esigenze personali. Ne consegue che la sentenza va in parte qua cassata.

7. Va, invece, rigettato il quarto motivo di ricorso, tenuto conto che, con indirizzo condiviso, questa Corte ha precisato che l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur” (Cass. n. 27800 del 2019; Cass. 30039 del 2018), come nella specie avvenuto. Il ricorrente, infatti, ha riferito nel ricorso per cassazione di essere al corrente delle ragioni della pretesa impositiva, precisando che l’avviso di liquidazione riportava l’applicazione dell’imposta di registro con aliquota del 7 per cento sull’intero importo della cessione relativo ai beni immobili, includendo quindi anche il prezzo del mutuo (v. pag. 3 del ricorso per cassazione).

8. In definitiva vanno accolti il primo ed il secondo motivo, rigettati i restanti. La sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione, per il riesame della controversia sulla base dei principi espressi, e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso e rigetta i restanti, cassa la sentenza impugnata con riferimento ai motivi accolti e rinvia per il riesame alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione, la quale provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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