Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.540 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6085/2017 proposto da:

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Banco Popolare Società Cooperativa;

– intimato –

e contro

Credito Emiliano Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Della Scrofa, 57, presso lo studio dell’avvocato Caumont Caimi Cristiano, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Russo Corvace Giuseppe, Pizzonia Giuseppe;

– controricorrente –

e contro

Banco Bpm Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Viale Della Scrofa, N. 57, presso lo studio dell’avvocato Caumont Caimi Cristiano che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Pizzonia Giuseppe, Russo Corvace Giuseppe

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4414/2016 della COMM. TRIB. REG., LOMBARDIA, depositata il 05/08/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/10/2021 dal Consigliere Dott. FASANO ANNA MARIA.

RITENUTO

che:

Credito Italiano S.p.A. impugnava l’avviso di liquidazione n. ***** con cui l’Agenzia delle entrate accertava la maggiore imposta di registro dovuta per l’operazione di acquisto da Banca Popolare di Verona S. Geminiano e S. Prospero S.p.A. di un complesso aziendale, composto da due aree di affari autonome dalle filiali e dal complesso di beni e dei rapporti contrattuali organizzati per l’esercizio dell’attività bancaria, come svolta nei luoghi dove si trovava ciascuna filiale.

L’operazione di cessione veniva realizzata mediante due atti successivi, ossia un contratto di cessione stipulato tra CREDEM e BPV in data *****, nel quale le parti contraenti dichiaravano che il prezzo indicato in atto era da considerarsi provvisorio, restando suscettibile di eventuali variazioni dipendenti da rettifiche di valore dell’ammontare della raccolta effettiva di capitali afferente il ramo di azienda oggetto di cessione, ed un secondo accordo, concluso in data *****, nel quale, preso atto delle variazioni di valore effettivamente verificatesi, il prezzo finale di cessione veniva fissato in complessivi Euro 132.332.000, sicché BPV restituiva a CREDEM l’importo di Euro 22.668.000. L’Ufficio applicava l’imposta di registro seguendo il criterio di imputazione “pro quota” delle passività ai singoli elementi di prezzo previsto dal D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 23, commi 1 e 4, ai valori dei beni e dei diritti separatamente individuati nel contratto di cessione di ramo d’azienda, determinando l’aliquota del 3% al valore complessivo dei beni, sul presupposto che le parti, in sede di cessione, non avevano separatamente indicato il prezzo/valore dei singoli beni componenti l’azienda.

La Comissione Tributaria Provinciale di Milano, con sentenza n. 11547/47/14, annullava l’avviso di liquidazione ritenendo che dall’esame degli atti sottoposti a registrazione era emerso che le parti avevano valorizzato separatamente i singoli beni componenti il ramo d’azienda. L’Agenzia delle entrate proponeva appello, che veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con sentenza n. 4414/2016.

Avverso la pronuncia l’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione svolgendo due motivi. Credito Emiliano S.p.A. e Banco BPM S.p.A. si sono costituiti con controricorso, quest’ultimo ha depositato anche memorie.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 23, commi 1 e 4, e art. 51, commi 1 e 4, nonché degli artt. 1367,2727 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. L’Agenzia delle entrate deduce che sarebbe circostanza pacifica quella secondo cui nella contrattazione mancava una pattuizione dei corrispettivi differenziata, e che all’art. 4.2. dell’atto di cessione di ramo d’azienda del ***** le parti avevano previsto un prezzo provvisorio e, in base all’art. 4.3., era previsto che sarebbe stato oggetto di aggiustamento in relazione alla situazione patrimoniale all’atto della cessione definitiva. Secondo l’Ufficio dalla lettura degli atti, compresi i vali allegati, non emergerebbe la volontà di attribuire un distinto prezzo agli ‘impieghì agli ‘altri creditì e all’avviamento a differenza della tesi sostenuta dalla contribuente. Nella fattispecie, secondo il ricorrente, dall’esame dell’atto di cessione di ramo d’azienda e dall’accordo consensuale di determinazione della “situazione definitiva di cessione” sarebbe pacifico che le parti avevano inequivocabilmente pattuito un unico prezzo, globale ed indifferenziato riferito all’intero compendio dei beni alienati. L’indicazione di valori a singoli beni sarebbe avvenuta al solo fine di definire la situazione patrimoniale del ramo d’azienda al 31 dicembre 2008, ossia al fine di definire la base imponibile, data dal valore corrente dell’azienda ceduta, ossia dal valore complessivo dei beni che la compongono, comprensivo dell’avviamento e al netto di debiti ed altre passività.

2. Con il secondo motivo si denuncia, in subordine, omesso esame di un fatto decisivo controverso fra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto i giudici di appello avrebbero omesso di tenere conto del fatto che mancherebbe nella contrattazione una pattuizione differenziata dei corrispettivi, e che all’art. 4.2. dell’atto di cessione di ramo d’azienda le parti avevano previsto un prezzo provvisorio, oggetto di futuro aggiustamento in relazione alla situazione patrimoniale all’atto di cessione definitiva.

Secondo l’Ufficio, in nessuno dei documenti prodotti emergerebbe chiaramente che le parti avevano pattuito e concordato distinti prezzi per tali beni oggetto di contrattazione, inoltre, non risulterebbe alcuna perizia di stima del valore dell’azienda ceduta, allegata all’atto di cessione, con indicazione pedissequa dei valori e dei prezzi dei singoli cespiti ceduti.

3. I motivi di ricorso, in quanto inerenti alla medesima questione, vanno trattati congiungamente per connessione logica.

a) In disparte l’inammissibilità delle censure – in quanto l’Ufficio omette di riportare in ricorso il contenuto degli atti a cui fa riferimento nello sviluppo illustrativo dei motivi, in ossequio al principio di autosufficienza ed al fine di sostenere la decisività della critica avanzata alla sentenza oggetto di impugnazione – le stesse non possono essere condivise.

L’Ufficio deduce che “in nessuno dei documenti prodotti dalle parti emergerebbe chiaramente che le parti abbiano pattuito e concordato distinti prezzi per tali beni e diritti”, a fronte dell’accertamento in fatto operato dal giudice di appello che, al contrario, sostiene “Risulta, infatti, dall’esame degli atti negoziali con i quali si è perfezionata la cessione del ramo d’azienda, che i singoli beni e diritti oggetto dell’operazione assunsero ciascuno un distinto e preciso valore monetario. Tali valori sono stati infatti descritti negli allegati ai singoli contratti di cessione in esame, e in quanto tali potevano essere identificati dall’amministrazione finanziaria che avrebbe quindi potuto – e dovuto – applicare agli stessi l’aliquota corrispondente. A nulla rileva, inoltre, che per la compravendita sia stato previsto un corrispettivo unitario, in quanto nella determinazione dello stesso le parti hanno certamente tenuto conto del valore dei singoli beni e diritti, il quale è stato dunque oggetto di specifica pattuizione, come peraltro espressamente indicato nell’atto di cessione stesso e nei relativi allegati”.

Dal tenore della motivazione della sentenza impugnata emerge all’evidenza che il giudice di appello con le parole “distinto e preciso valore monetario” ha voluto intendere “corrispettivo specifico” per ogni singolo bene oggetto di pattuizione.

L’attività di interpretazione del contratto che è diretta alla ricerca della comune volontà dei contraenti, integra un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito (Cass. n. 15603 del 2021), che non può essere oggetto di sindacato in sede di legittimità se, come nella specie, è congruamente motivato e privo di vizi logici.

L’adita Commissione, invero, precisa: “Tali valori sono stati infatti espressamente descritti negli allegati ai singoli contratti di cessione in esame, e in quanto tali potevano essere identificati dall’amministrazione finanziaria che avrebbe quindi potuto – e dovuto – applicare agli stessi l’aliquota corrispondente”.

b) Ciò premesso, va evidenziato che ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 23: “1. Se una disposizione ha per oggetto più beni o diritti, per i quali sono previste aliquote diverse, si applica l’aliquota più elevata, salvo che per i singoli beni o diritti siano stati pattuiti corrispettivi distinti. 2. La disposizione del comma 1, non si applica per i crediti, né per i beni mobili e le rendite facenti parte di una eredità indivisa o di una comunione, i quali sono soggetti, in occasione delle cessioni dell’eredità, o di quote di comunione, alle aliquote stabilite per ciascuno di essi. 3. Le pertinenze sono in ogni caso soggette alla disciplina prevista per il bene al cui servizio od ornamento sono destinate. 4. Nelle cessioni di aziende o di complessi aziendali relativi a singoli rami della impresa, ai fini dell’applicazione delle diverse aliquote le passività si imputano ai diversi beni sia mobili che immobili in proporzione al loro rispettivo valore.”

Questa Corte ha affermato che: “In tema di imposta di registro, la cessione di azienda è tassata applicando al suo valore complessivo (o al maggior prezzo pattuito) l’aliquota più elevata fra quelle contemplate per i singoli beni che la compongono, giusta il combinato disposto di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 23, comma 1, e art. 51, commi 1 e 4, facendo salva la separata tassazione dei cespiti nel caso in cui sia pattuito un corrispettivo distinto. Ne consegue che, ove le parti convengano il corrispettivo in relazione a ciascuno dei diritti congiuntamente trasferiti, l’accertamento dell’Ufficio, il quale ritenga il prezzo incongruo in relazione al suo valore in comune commercio, può essere limitato ad uno solo di tali diritti, ai sensi del citato art. 51, u.c., che disciplina il caso in cui i beni aziendali siano stati negoziati con autonomi corrispettivi” (Cass. n. 6716 del 2015).

c) Il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 23, comma 1, nel prevedere l’applicazione dell’aliquota più elevata nell’ipotesi in cui un’unica disposizione abbia per oggetto più beni o diritti per i quali siano previste aliquote diverse, fa salva la separata tassazione dei cespiti nel caso in cui sia pattuito un corrispettivo distinto, anche nella norma di cui all’ultimo comma del medesimo articolo che, per il caso di cessione d’azienda, precisa ai fini dell’applicazione delle diverse aliquote, le passività si imputano ai diversi beni sia mobili che immobili in proporzione del loro rispettivo valore’, in evidente riferimento al caso, fatto salvo dal comma 1, in cui i beni del compendio aziendale siano negoziati con autonomi corrispettivi (Cass. n. 7196 del 2000, Cass. n. 6716 del 2015).

Da siffatti rilievi consegue che i giudici del merito hanno fatto buon governo dei principi espressi, precisando, sul presupposto della differente determinazione del valore dei beni, che la previsione di un corrispettivo complessivo dell’intera operazione negoziale non ha pregiudicato l’applicazione di aliquote distinte in relazione ai singoli beni ceduti, “in quanto risulta versato in atti che le parti hanno valorizzato separatamente i singoli beni componenti il ramo d’azienda, calcolando la base imponibile dell’imposta di registro sui valori dichiarati al netto delle passività, ed applicando le aliquote riferibili a ciascun bene”.

4. In definitiva, il ricorso va rigettato e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte soccombente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 20.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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