LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21374/2020 proposto da:
B.B., rappresentato e difeso dall’avv. MARCO UGO MELANO, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del medesimo in Torino, Corso Lione 72;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO;
– intimato –
avverso la sentenza n. 208/2020 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 17/02/2020, NRG 2478/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/11/2021 dal Dott. Roberto BELLE’.
FATTI DI CAUSA
la Corte d’Appello di Torino ha confermato l’ordinanza con cui il Tribunale della stessa città aveva rigettato le domande di protezione internazionale, nelle forme della tutela per i rifugiati, della protezione c.d. sussidiaria e in subordine umanitaria, proposte da B.B., cittadino della *****;
la Corte territoriale ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, lett. a) e b) evidenziando plurimi profili di non credibilità, per varie contraddizioni riscontrate nel racconto del ricorrente in ordine alla propria asserita persecuzione politico-religiosa;
rispetto alla protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), la Corte territoriale evidenziava, attraverso citazione di alcune fonti informative, come la situazione della *****, per quanto non tranquilla, neppure fosse tale da potersi parlare di violenza indiscriminata;
la Corte di merito riteneva infine insussistenti i presupposti per la tutela atipica umanitaria, stante il fatto che le attività svolte in Italia (corsi, lavoro come badante etc.) dimostravano una vita attiva e ponessero i presupposti per un’utile integrazione, ma non sopperivano in sé alla mancanza dei requisiti di vulnerabilità, anche in relazione ai rischi di rientro nel Paese di origine, necessari per la tutela richiesta;
B.B. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, mentre il Ministero dell’Interno si è limitato a depositare atto di costituzione in giudizio.
RAGIONI DELLA DECISIONE
il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3 (comma 3 e 5),4,5,6 e 7, nonché del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3 e art. 27 per errata valutazione rispetto alla credibilità del proprio racconto;
il motivo è inammissibile;
il ricorrente ha agito esponendo di appartenere all’etnia ***** e di avere militato, fin da giovane, nel partito di opposizione *****, emigrando per i contrasti esistenti con l’etnia *****, più potente e partecipata dai membri del partito rivale *****, raccontando altresì di due arresti subiti, con maltrattamenti;
la Corte territoriale, nel respingere la domanda sul punto, ha evidenziato:
le diverse versioni del racconto fornite nel modello C3, poi davanti alla Commissione, e quindi in sede giudiziale con particolare riferimento all’appartenenza ad organizzazioni politiche, originariamente esclusa e poi affermata;
le diverse datazioni dell’inizio dell’attività politica da parte del ricorrente, fissata al 2009 davanti alla Commissione ed al 2013 in sede di audizione presso il Tribunale, in questo caso anche contraddittoriamente rispetto al fatto che il padre, con cui il ricorrente si recava secondo le sue dichiarazioni alle manifestazioni politiche, fosse stato ucciso nel 2013;
la difformità esistente tra la rottura dei denti subita, che è stata dapprima riferita come conseguente a maltrattamenti in una manifestazione e poi a torture presso una stazione di Polizia;
la non credibilità del fatto che il rilascio, dopo due arresti, fosse avvenuto sulla base del pagamento di somma pari a circa 50 Euro e con il solo avvertimento di non partecipare più a manifestazioni;
si tratta dunque di motivazione incentrata sulla carenza di elementi di credibilità c.d. intrinseca del racconto reso dal ricorrente, nel loro insieme agganciate a dati obiettivi emersi nei vari tempi e modi del racconto stesso;
neppure può seguirsi l’assunto del ricorrente secondo cui in tal modo sarebbero stati valorizzati singoli aspetti, talvolta marginali, in quanto viceversa la motivazione della Corte territoriale si focalizza principalmente e proprio sui profili che costituiscono l’asse centrale del racconto posto alla base dell’istanza di protezione;
il motivo di ricorso tenta di rimediare a tali contraddizioni ed incongruenze attraverso varie possibili spiegazioni di esse, richiamando ad esempio situazioni di stress o incomprensioni delle domande poste;
tuttavia, il giudice dell’appello ha espressamente motivato anche su tali aspetti evidenziando come carenze culturali o situazioni di tensione non potessero essere ritenute tali da giustificare contraddizioni su “episodi fondamentali”, quali l’attività politica o le occasioni in cui vi sarebbero state le torture;
tali argomentazioni, sull’esistenza delle contraddizioni e sulla loro non giustificabilità, appartengono alla sfera del convincimento di merito, rispetto al quale la riproposizione di diverse spiegazioni non individua un vizio di legittimità della pronuncia impugnata, traducendosi piuttosto in una diversa prospettazione valutativa dell’istruttoria, come tale non pertinente rispetto al giudizio di cassazione (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148);
il ricorrente sostiene altresì che il rigetto della domanda non potrebbe fondarsi su un giudizio di non credibilità, se il giudice non abbia sentito personalmente il richiedente, ma si tratta di assunto infondato nella sua assolutezza e nel caso concreto;
infatti, il ricorrente fu ascoltato dal Tribunale, che ciononostante concluse nel senso della esistenza di contraddizioni che non rendevano credibile il racconto;
egli ora afferma di avere chiesto anche al giudice di appello di essere ascoltato, ma non precisa quale indicazione puntuale dei fatti fosse stata posta a base di tale richiesta, come è necessario che sia (Cass. 7 ottobre 2020, n. 21584; Cass. 11 novembre 2020, n. 25312), il che impedisce di ravvisare un vizio di legittimità nel provvedimento infine assunto dalla Corte territoriale;
mal evocato è poi il “principio del beneficio del dubbio”, in presenza di una valutazione di non credibilità “intrinseca”, basata sul convergere di plurimi elementi di contraddizione, sia individualmente indicati, sia complessivamente valutati nel loro insieme;
e’ infatti evidente che nessuna concreta valutazione sul fondamento giuridico della pretesa può essere svolta, ai fini del riconoscimento di protezioni che si basino su situazioni anche personali del richiedente, se le sue dichiarazioni a tale riguardo non siano ritenute utilizzabili perché intrinsecamente inidonee, secondo indicatori di genuinità soggettiva previsti dalla legge (D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5), ad essere apprezzate come credibili (Cass. 3 agosto 2021, n. 22196; Cass. 04/11/2020 n. 24575; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27503);
il secondo motivo assume la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3 e D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, nonché del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7, lett. f) e art. 8 e D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 2, lett. c) e art. 5, comma 6 e art. 19 ed infine del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3 e D.P.R. n. 394 del 2004, art. 28, comma 1, lett. d) (art. 360 c.p.c., n. 3) oltre ad omesso esame di fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5) e motivazione apparente (art. 360 c.p.c., n. 4);
il motivo è inammissibile;
la Corte d’Appello ha infatti motivato, nei termini già in precedenza evidenziati, richiamando rettamente informazioni tratte da specifiche fonti (rapporto annuale di Amnesty International 2017-2018; *****; Humans rights watch), da cui ha desunto l’esistenza di alcune tensioni, ma le ha ritenute tali da non poter essere riportate al caso della violenza indiscriminata, di cui alla norma di legge;
e’ dunque del tutto da escludere l’ipotesi dell’insussistenza della motivazione, o di una sua apparenza, così come privo di fondamento è il richiamo ad un fatto decisivo discusso tra le parti che non sarebbe stato valutato: la sentenza impugnata ha riferito degli scontri di piazza e di altre criticità per i diritti fondamentali di riunione, ritenendoli rettamente situazione diversa da quella di conflitto armato che ha motivatamente escluso e che sola giustificherebbe, ove sussistente, il riconoscimento della protezione sussidiaria al richiedente per il solo fatto di provenire da una zona interessata da tale situazione (a differenza della protezione umanitaria, che richiede una correlazione tra le criticità del Paese di provenienza e la situazione individuale del richiedente);
il terzo motivo è infine destinato alla tutela umanitaria ed è formulato come violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, nonché D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3, e D.P.R. n. 394 del 2004, art. 28, comma 1 lett. D) (art. 360 c.p.c., n. 3) oltre a difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 ed omesso esame di documenti decisivi;
la Corte territoriale, rispetto al radicamento in Italia, ha dubitato della documentazione previdenziale prodotta, in quanto mera fotocopia, ed anche della sua pertinenza al ricorrente, in quanto priva di elementi di riferimento certo al medesimo, evidenziando altresì l’assenza di buste paga idonee ad attestare un’autonomia economica del medesimo;
oltre a ciò, la sentenza impugnata ha escluso che le attività di formazione svolte dal ricorrente dopo l’arrivo in Italia, tra cui un corso da panettiere, possano costituire esse sole titolo per il riconoscimento del diritto alla protezione;
in sostanza, il ragionamento della Corte di merito si fonda sulla mancata prova del raggiungimento di un effettivo livello di integrazione lavorativa nel nostro Paese che giustifichi una utile comparazione a fini umanitari;
rispetto a tale chiaramente motivata ratio decidendi, costituente accertamento di fatto riservato al giudice di merito, il motivo si limita, da un lato, a fare riferimento alle criticità già evocate nel rispetto delle libertà di riunione e manifestazione del pensiero nel Paese di provenienza (che non si correlano all’accertamento di fatto relativo alla implausibilità della attività politica del ricorrente) dall’altro a proporre – non utilmente in questa sede di legittimità – una diversa “lettura” dei dati esaminati dalla Corte distrettuale;
il motivo contiene infine un cenno alle vicende subite dal ricorrente nel proprio passaggio in Libia, ma si tratta di deduzioni assolutamente generiche, in relazione alla propria giovane età ed a una asserita detenzione di cui non risulta allegato in sede di merito alcun dettaglio di luoghi, durata, tempi e motivi, e le cui conseguenze quali gravi ragioni di vulnerabilità del ricorrente non sono state precisate;
il ricorso è dunque nel suo complesso da disattendere;
nulla è a disporsi sulle spese, in quanto il Ministero è rimasto intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 4 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2022