Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.5602 del 21/02/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 78-2020 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE *****, in persona del Direttore Generale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente-

contro

TERNA – RETE ELETTRICA NAZIONALE SPA, in persona del procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CONSULTA N. 1/B, presso lo studio dell’avvocato RUSSO CORVACE GIUSEPPE, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati EMMA MARCO, TRIMARCHI LAURA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6072/11/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL LAZIO, depositata il 18/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/01/2022 dal Consigliere Relatore Dott. ESPOSITO ANTONIO FRANCESCO.

RILEVATO

Che:

Con sentenza depositata il 18 settembre 2018 la Commissione tributaria regionale del Lazio confermava la decisione della Commissione tributaria provinciale di Roma che aveva accolto il ricorso proposto da Terna – Rete Elettrica Nazionale S.p.A. contro l’avviso con il quale l’Agenzia delle entrate aveva liquidato imposte di registro, ipotecaria e catastale, in relazione all’atto stipulato tra la società contribuente e Rete Rinnovabile s.r.l., nominalmente indicato come contratto di affitto, relativo ad un terreno destinato alla costruzione di un impianto fotovoltaico, e riqualificato dall’Ufficio, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come contratto di concessione del diritto reale di superficie.

Osservava la CTR che la realizzazione di opere sul fondo altrui comporta agevolmente l’attribuzione delle spese straordinarie a carico del conduttore, senza che ciò sia incompatibile con la natura obbligatoria del contratto. Rilevava che la concessione ad aedificandum può, in taluni casi, avere contenuto diverso da quello della costituzione di un diritto reale, integrandosi con i caratteri di un diritto personale di natura obbligatoria, quale il contratto di locazione, in cui al conduttore si concede il godimento del terreno con facoltà di realizzarvi delle costruzioni, di cui godrà come conduttore del terreno.

Avverso la suddetta sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.

Resiste con controricorso Terna – Rete Elettrica Nazionale S.p.A..

Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380-bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

CONSIDERATO

Che:

1. Con unico mezzo l’Agenzia delle entrate denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nonché degli artt. 952,953,1322,1571,1576,1587,1590 e 1615 c.c., per avere la CTR escluso, nel caso di specie, la sussistenza, ai fini tributari, del contratto di concessione del diritto di superficie.

Assume la ricorrente che il contratto di affitto/locazione concede il godimento di un bene, mobile o immobile, dietro corrispettivo, ma non consente la trasformazione radicale della res locata ad opera del conduttore, il quale deve utilizzarla secondo la destinazione economica attribuitale dal proprietario concedente. Viceversa, nel caso di specie il contratto consente all’affittuario la trasformazione del bene e la realizzazione di impianti fotovoltaici, effetto che di regola si realizza attraverso la concessione dello ius aedificandi, ed è caratterizzato dalla traslazione, alla scadenza, della proprietà dei manufatti realizzati sul suolo altrui, con accessione della proprietà della costruzione al terreno ex art. 953 c.c.; mentre nel contratto di affitto sussiste l’obbligo dell’affittuario di rimuovere le addizioni eseguite dal conduttore, salva la possibilità per il proprietario locatore di trattenerle, accordando al conduttore un indennizzo.

Pertanto la ricorrente contesta la correttezza dell’interpretazione del negozio che ha portato il giudice di secondo grado a qualificare l’atto, come recante un contratto ad effetto obbligatorio e non reale, nonostante sussistano anomalie rispetto alla causa tipica del contratto di affitto, consistenti nella concessione dello ius aedificandi sul terreno affittato; negli oneri di manutenzione straordinaria posti a carico dell’affittuario; nell’acquisto della proprietà degli impianti fotovoltaici da parte del proprietario del terreno, al termine della concessione.

2. Il motivo è inammissibile e comunque infondato e la pronuncia impugnata risulta coerente con decisioni recentemente rese da questa Corte – in tema di interpretazione e qualificazione, ai fini dell’imposta di registro, del contratto de quo come costitutivo di effetti obbligatori – in fattispecie analoghe, anche tra le medesime parti (cfr. Cass. nn. 38677, 33776, 33774, 33773, 33772, 33771, 33770, 33769, 33768, 33767, 32610, 32609, 28263, 28261 e 28260 del 2021).

Preliminarmente, va precisato che le pronunce della Corte costituzionale (sentenza n. 158 del 21 luglio 2020 e sentenza n. 39 del 16 marzo 2021) in tema di legittimità costituzionale dell’art. 20 T.U.R. non incidono (fatto salvo quanto infra si dirà) sulla fattispecie in esame, rispetto alla quale non è in contestazione una riqualificazione negoziale che sia stata eseguita, ai fini dell’imposizione, tramite contratti collegati a quello sub iudice o altri elementi extratestuali, vertendo il petitum esclusivamente sulla corretta interpretazione di un unico atto negoziale. In materia, questa Corte ha già chiarito che, in tema di imposte di registro, ipotecaria e catastale, in applicazione della regola interpretativa di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che consente all’Ufficio di dare una qualificazione oggettiva dell’atto o degli atti soggetti a registrazione, secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessivamente considerata, l’Amministrazione finanziaria, pur non essendo tenuta a conformarsi alla qualificazione attribuita dalle parti al contratto, non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, salva la prova, da parte sua, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici (Cass. n. 722 del 2019). E’ stato affermato che il criterio fissato dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, impone di privilegiare l’intrinseca natura e gli effetti giuridici, rispetto al titolo e alla forma apparente degli stessi, con la conseguenza che i concetti privatistici relativi all’autonomia negoziale regrediscono, di fronte alle esigenze antielusive poste dalla norma, a semplici elementi della fattispecie tributaria, per ricostruire la quale dovrà, dunque, darsi preminenza alla causa dei negozi giuridici (cfr. Cass. n. 23584/12, n. 6835/13, n. 17965/13, n. 3481/14; più di recente, Cass. n. 6790 del 2020). Tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte ha anche escluso che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, sia predisposto al recupero di imposte “eluse”, perché l’istituto dell'”abuso del diritto” – disciplinato oggi dall’art. 10 bis L. n. 212 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015 presuppone una mancanza di “causa economica” che non è viceversa prevista per l’applicazione dell’art. 20 citato, disposizione la quale semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto, o il collegamento di più atti, in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio (Cass. n. 7637 del 2018; da ultimo, cfr. Cass. nn. 9065, 10688 e 22988 del 2021). Soprattutto, al fine di escludere, in conformità a quest’ultimo orientamento, che al ridetto art. 20 possa attribuirsi una funzione antielusiva, giova ricordare quanto recentemente argomentato dal giudice delle leggi, il quale ha osservato che il legislatore “ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico” (Corte Cost. sent. n. 158 del 2020). Ed ha aggiunto che un’interpretazione dell’art. 20 che fosse basata sulla nozione di causa reale “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale” (Corte Cost. sent. n. 158 del 2020 cit.), sebbene pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea. Fermo restando, comunque, che eventuali condotte di sottrazione all’imposizione di effettiva ricchezza imponibile possano rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto, alla cui repressione, tuttavia, non è funzionale la disposizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 (né, comunque, potrebbe in ipotesi riqualificarsi l’atto impositivo come emesso in ragione di disposizioni antielusive, ove non contenga anche la contestazione della violazione di queste ultime, pena un inammissibile allargamento del thema decidendum a presupposti di fatto e di diritto non contestati con l’atto impugnato: così Cass. n. 9065 del 2021 cit.).

Tanto premesso, nel caso di specie, il giudice di merito, cui spetta l’interpretazione dei negozi giuridici ai fini della loro qualificazione, ha analizzato le ragioni dell’accertamento dell’Ufficio, relativamente alla qualificazione dell’atto tassato, escludendo la decisività di talune pattuizioni, pur sottolineate dall’Agenzia, che ha ritenuto non sufficienti a neutralizzare l’essenza obbligatoria del contratto, argomentando circa la non univocità degli elementi addotti dall’Ufficio a sostegno di un’interpretazione dell’atto diversa da quella voluta dalle parti contraenti e condivisa infine dalla CTR. Invero l’opera del giudice di merito, nell’accertamento e nella qualificazione di un contratto, è articolata in due fasi, la prima delle quali consiste nell’interpretare la volontà delle parti, per stabilire – con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità quale sia stata la loro comune volontà negoziale. Solo dopo aver stabilito l’effettivo oggetto della volontà comune delle parti è quindi possibile, nella seconda fase del percorso decisorio, qualificare giuridicamente il negozio, riconducendolo ad uno dei modelli contrattuali già tipizzati dall’ordinamento o identificandone la causa atipica. Ed è la qualificazione giuridica che è possibile sindacare in sede di legittimità per violazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. (Cass. n. 3590 del 2021). Pertanto, il sindacato di legittimità, in ordine all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale eseguita dal giudice di merito, non può attingere il risultato interpretativo in sé, che appartiene al giudizio di fatto, ma può avere per oggetto esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. Ne consegue che è inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati da quest’ultimo (Cass. n. 2465 del 2015; Cass. n. 7280 del 2019). Ne’ le relative censure possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 28319 del 2017). Quindi, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate e dei principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (Cass. n. 27136 del 2017), non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. n. 28319 del 2017 cit.).

I rilievi formulati nel ricorso debbono inoltre essere accompagnati, in ossequio al principio di autosufficienza, dalla integrale trascrizione delle clausole ritenute individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di verificare l’eventuale erronea applicazione della disciplina invocata (Cass. n. 28319 del 2017; Cass. n. 25728 del 2013; Cass. n. 22988 e n. 23180 del 2021). La formulazione del motivo di ricorso qui esaminato non è in linea con tali requisiti di ammissibilità. Infatti risultano trascritte, e comunque evocate, le sole clausole n. 6 e n. 12, oltre ad un mero stralcio della clausola n. 2, prescindendo quindi dal tenore letterale delle altre clausole contrattuali. Inoltre, il ricorso, nella sostanza, riproduce gli stessi argomenti svolti nei gradi di merito per sostenere la correttezza dell’interpretazione erariale del contenuto dell’atto presentato alla registrazione, senza indicare specificamente quali siano stati i canoni ermeneutici violati (artt. 1362 c.c. e ss.), né il modo in cui si si sia concretamente realizzata la pretesa violazione, non essendo sufficiente contrapporre, in virtù del richiamo al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, un’interpretazione diversa da quella criticata.

L’Agenzia delle entrate ha invero ribadito che l’errore commesso dalla CTR consisterebbe nell’aver “indebitamente privilegiato la valutazione “civilistica” dell’atto negoziale (…), piuttosto che quella più propriamente “tributaria”, discendente dall’applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, la quale (…) avrebbe dovuto indurre alla conferma della legittimità dell’atto impositivo.”. Tuttavia, deve ricordarsi che, come questa Corte ha puntualizzato in fattispecie analoga a quella sub iudice e relativa alle stesse parti, “l’interpretazione dell’atto prevista dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali, nonché dagli elementi comunque desumibili dall’atto presentato alla registrazione, e neppure può confondere gli effetti giuridici, rilevanti ai fini dell’imposizione di registro, con quelli economici dell’operazione negoziale, essendo la finalità antielusiva, pure evocata dalla ricorrente, profilo affatto estraneo alla disposizione in esame. L’azione accertatrice, ove intenda perseguire siffatta finalità, deve essere attuata mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia” (Cass. n. 22988 del 2021).

Tanto meno, sotto il profilo civilistico, v’e’ ragione per negare alle parti la possibilità di scegliere, nell’esercizio dell’autonomia privata riconosciuta dall’art. 1322 c.c., se perseguire risultati socio-economici analoghi, anche se non identici, mediante contratti ad effetti reali o mediante contratti ad effetti obbligatori, fattispecie negoziali giuridicamente distinte, anche facendo ricorso a figure contrattuali atipiche, per interessi meritevoli di tutela (cfr. Cass. S.U. n. 8434 del 2020 e giurisprudenza di legittimità ivi richiamata). Invero, secondo questa Corte, la differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita, dall’ampiezza ed illimitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto (Cass. n. 5034 del 2008; Cass. n. 7811 del 2006). E questa Corte ha già avuto modo di rilevare che “La concessione “ad aedificandum”, stante l’autonomia contrattuale delle parti, riconosciuta dall’art. 1322 c.c., non si concreta sempre e necessariamente in un diritto di superficie, ai sensi dell’art. 952 c.c., potendo in taluni casi assumere i caratteri e i contenuti di un diritto personale nei soli confronti del concedente, trovando la sua fonte in un contratto (atipico) con effetti meramente obbligatori non soggetto a rigori di forma o di pubblicità. Tuttavia, al fine di poter interpretare in tal senso anziché in quello conforme allo schema tipico approntato dal legislatore la concreta pattuizione intervenuta fra le parti, occorre che emergano (e vengano indicati dal giudice di merito) i peculiari indici rivelatori di una simile configurazione giuridica” (Cass. n. 1392 del 1998).

Pertanto, come premesso, stabilire se un determinato atto abbia ad oggetto la costituzione di un diritto di superficie ovvero una locazione (o altro atto a contenuto meramente obbligatorio) è questione interpretativa e di fatto, che dipende dalla valutazione analitica (in base ai canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 c.c. e ss.) del complesso delle condizioni contrattuali. A tali principi si è attenuta la decisione impugnata, non censurata utilmente, secondo quanto già rilevato, dal ricorso.

3. Il ricorso va quindi rigettato, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità, considerata la recente sopravvenienza dell’orientamento giurisprudenziale di legittimità sulla specifica fattispecie decisa.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472