Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.571 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 732-2016 proposto da:

P.G., P.A.F., P.E., P.C.M., P.A., PE.GI., P.B., PE.AN., P.F.M., P.D., questi ultimi due nella loro qualità di eredi di PE.CL., tutti domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI GRECO;

– ricorrenti –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, GIUSEPPE MATANO, ESTER ADA SCIPLINO;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 1578/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 16/06/2015 R.G.N. 1162/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/11/2021 dal Consigliere Dott. ALFONSINA DE FELICE.

RILEVATO

che:

sulla base di due pronunce di merito favorevoli e di una sentenza della Corte di Cassazione (Cass. n. 16279 del 2005), l’Inps veniva condannato in via definitiva a corrispondere ad alcuni datori di lavoro agricoli, fra cui Pe.Cl., la differenza contributiva (anni 1996-1997) tra salario convenzionale e salario reale, avendo il giudizio accertato che i predetti datori, i quali avevano sottoscritto il contratto di riallineamento stipulato tra l’Unione Provinciale agricoltori di Lecce e le associazioni dei lavoratori agricoli subordinati, avevano diritto di versare all’ente previdenziale i contributi in misura inferiore a quella, corrispondente al salario medio convenzionale, sancita dal D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28;

in ragione dell’inerzia dell’Inps, intendendo ottenere la concreta realizzazione del proprio diritto – affermato da due pronunce di merito e dalla pronuncia di legittimità Pe.Cl. inoltrava diffida, chiedendo la restituzione della differenza (pari ad Euro 7.892,55) di quanto versato, a lui dovuta in base al giudicato;

gli eredi di P., nel frattempo deceduto, adivano successivamente il Tribunale di Lecce, chiedendo la restituzione di quanto ingiustamente versato dal loro dante causa, oltre al danno risarcibile per la mancata disponibilità della somma relativa all’acconto versato e il maggior danno da svalutazione monetaria, quantificabile nel tasso di interesse pagato alle banche sulla cifra di Euro 7.892,55;

il Tribunale accoglieva la domanda, dichiarando l’Inps tenuto a restituire quanto indebitamente trattenuto (art. 2033 c.c.) a titolo di pagamento dei contributi da parte del P., oltre interessi legali, dalla data di notificazione del ricorso introduttivo fino al saldo;

l’Inps appellava tale decisione, e la Corte d’appello di Lecce, in riforma della pronuncia di primo grado, accoglieva il ricorso, considerando provato in giudizio dalla stessa parte appellante che il debito era stato condonato, che i versamenti erano stati effettuati ben prima dell’instaurazione del giudizio d’appello e che il provvedimento di condono non conteneva nessuna riserva di ripetizione (p. 6 e 7 sent.);

la cassazione della sentenza è domandata dagli eredi P. sulla base di tre motivi;

Inps ha depositato procura speciale in calce al ricorso.

CONSIDERATO

che:

col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, parte ricorrente deduce “Nullità del processo e della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c.”; la Corte d’appello non avrebbe considerato l’eccezione di giudicato sollevata dagli odierni ricorrenti nella comparsa di costituzione di secondo grado, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio; la statuizione sulla ricorrenza del debito dell’Inps, per sentenza sfavorevole confermata dalla Cassazione n. 16279 del 2005, avrebbe precluso al Giudice dell’appello di valorizzare l’istanza di condono senza riserva di ripetizione, presentata in pendenza del giudizio, non avendo sollevato l’Inps questioni sul quantum;

col secondo motivo, formulato sulla base dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”; l’eccezione di giudicato costituirebbe questione decisiva per il giudizio, né l’omesso esame potrebbe considerarsi decisione implicita di rigetto, poiché il giudice avrebbe dovuto motivare su di essa;

col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 324 c.p.c. e all’art. 2909 c.c.”; la sentenza impugnata valorizza la circostanza per la quale l’odierno ricorrente aveva versato i contributi a seguito dell’accoglimento di due domande di condono (29 maggio 1997 e 18 ottobre 1999) e in tale procedura non risultava contemplata nessuna riserva di restituzione;

assume che, così decidendo, la sentenza avrebbe violato il precedente giudicato della Corte di Cassazione (Cass. n. 16279 del 2005), che aveva definitivamente accertato che i datori avevano diritto a versare i contributi per glì anni dedotti in controversia in base al salario reale e non convenzionale percepito, come previsto dagli accordi di riallineamento sottoscritti; sostiene che l’ulteriore fatto concernente il condono con versamento delle minori somme a titolo contributivo, era venuto in essere quando era ancora in corso il giudizio originariamente proposto dall’Inps e che era in quel giudizio che l’istituto avrebbe dovuto far valere le sue eccezioni;

sostiene che il giudicato, il quale ricomprende il dedotto e il deducibile, si estende ad ogni possibile profilo di fatto riconducibile alla situazione controversa, che avrebbe potuto (e dovuto) essere prospettato già in quel giudizio;

i tre motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro evidente connessione, aggrediscono sotto diversi profili – ed in modo autosufficiente – la medesima questione di diritto, consistente nel fatto che la pronuncia di legittimità avrebbe dovuto inibire al giudice del merito di statuire su eccezioni – quale l’avvenuto condono e le modalità dello stesso – che la parte avrebbe potuto (e dovuto) proporre nel precedente giudizio e che ha proposto solo in un secondo giudizio intercorso tra le spesse parti e sullo stesso oggetto, eccezioni alle quali non può essere attribuita la forza di scalfire l’autorità del primo giudicato;

il ricorso merita accoglimento;

la ricorrenza di un provvedimento di condono del debito senza previsione di riserva di restituzione, non costituisce atto idoneo a superare la cogenza del giudicato che aveva già disposto, in via definitiva, circa il diritto degli odierni ricorrenti ad ottenere dall’Inps la differenza fra quanto effettivamente versato e quanto dovuto per l’adesione al contratto di riallineamento;

nel giudizio di cassazione, in caso di giudicato esterno conseguente ad una sentenza della stessa Corte, la cognizione del giudice di legittimità può avvenire anche mediante quell’attività di ricerca (relazioni, massime ufficiali e consultazione del CED) che costituisce corredo del collegio giudicante nell’adempimento della funzione nomofilattica di cui all’ordinamento giudiziario, art. 65 e del dovere di prevenire contrasti tra giudicati, in coerenza con il divieto del “ne bis in idem” (Cass. n. 24740 del 2015);

nel caso in esame, è pacifico che questa Corte, con sentenza n. 16279 del 2005, avesse definitivamente accertato che i ricorrenti avevano diritto a che il calcolo dei contributi per gli anni 1996 e 1997 dovesse avvenire in base al salario reale così come prevedeva l’accordo di riallineamento sottoscritto tra le parti;

tutti gli elementi costitutivi del diritto di credito riconosciuto da questa Corte in via definitiva nel 2005 erano già venuti ad esistenza mentre era in corso il giudizio originario e, pertanto, le due cause fondano su comuni presupposti di fatto e di diritto;

ciò vero, è nell’ambito del primo giudizio che l’Inps avrebbe dovuto far valere la circostanza di fatto secondo cui il condono non contemplava nessuna clausola di riserva di restituzione, giacché solo in quella sede tale circostanza di fatto avrebbe potuto (eventualmente) impedire al Tribunale di accogliere la pretesa di veder riconosciuto il diritto a versare i contributi nella misura inferiore;

col passaggio in giudicato della sentenza Cass. n. 16279 del 2005 che ha statuito sulla fondatezza della pretesa, ogni altro argomento ed eccezione concernente possibili circostanze impeditive del diritto, verificatesi anteriormente ad esso, divengono non più proponibili in questo giudizio, atteso che il giudicato “copre” il dedotto e il deducibile;

il primo giudizio, infatti, ha compiuto un accertamento sull’an della pretesa, ma ha, nel contempo, risolto anche ogni possibile questione circa le premesse di fatto su cui le stesse si fondano e che le parti avrebbero potuto già prospettare in quel giudizio;

in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, quando due giudizi tra le stesse parti vertono sullo stesso rapporto giuridico e uno di essi è stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento già compiuto in ordine ad una situazione giuridica e la soluzione di una questione di fatto o di diritto che abbiano inciso su un punto fondamentale comune ad entrambe le cause e abbiano costituito la logica premessa contenuta nel dispositivo della sentenza passata in giudicato precludono il riesame del punto accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo e il “petitum” del primo (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19317 del 2005, Cass. n. 13916 del 2006, Cass. n. 67 del 2007, Cass. n. 18820 del 2008);

in conclusione, la fondatezza delle censure della parte ricorrente consente di riaffermare quanto la giurisprudenza di questa Corte ha in più di una fattispecie avuto modo di stabilire, ossia che l’autorità del giudicato esterno non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma corrisponde ad un preciso interesse pubblico, volto ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, in ossequio al principio del “ne bis in idem” (Cass. n. 16589 del 2021; Cass. n. 30838 del 2018; Cass. n. 5360 del 2009);

in definitiva il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione, la quale statuirà anche in merito alle spese del giudizio di legittimità;

in considerazione dell’esito del giudizio, dà atto che non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

PQM

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione, che statuirà anche in merito alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, alla Camera di Consiglio, il 18 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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