Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.590 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4953-2020 proposto da:

GILFIN SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, ed il Sig. G.N., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA ANTONIO MANCINI N. 4, presso lo studio dell’avvocato ALICE COGLIATI DEZZA, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – DIREZIONE PROVINCIALE DI MANTOVA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3034/26/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA SEZIONE DISTACCATA di BRESCIA, depositata il 09/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 04/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE CATALDI.

RILEVATO

che:

1.Gilfin s.p.a., in persona dell’Amministratore Unico Monica Grassi, quale unica socia della Giudici s.p.a. in liquidazione ed estinta, e G.N., quale ex amministratore unico e liquidatore della Giudici s.p.a. in liquidazione ed estinta, propongono ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza di cui all’epigrafe, con la quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia – sezione staccata di Brescia, ha rigettato il loro appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Mantova, che aveva rigettato il loro ricorso contro l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro con il quale l’Agenzia delle entrate, nel 2015, aveva riqualificato come cessione di ramo d’azienda una serie di tre diversi atti, tutti perfezionatisi nel 2012, sottoponendo l’operazione complessiva, così riqualificata, all’imposizione in misura proporzionale.

L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, vigente ratione temporis, ovvero come novellato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), che, ai sensi della L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 1084, andrebbe ritenuto norma di interpretazione autentica e con efficacia retroattiva ed interpretato nel senso che sarebbe inapplicabile l’imposta di registro in misura proporzionale a singoli atti i quali, secondo l’Ufficio, unitariamente considerati, presenterebbero natura di cessione di ramo d’azienda, avendo attribuito l’Amministrazione rilevanza decisiva, ai fini dell’accertamento della contestata cessione, ad elementi extratestuali, rinvenuti nei diversi atti in oggetto, sul presupposto di un loro collegamento negoziale o, comunque, di una loro preordinazione alla realizzazione di un risultato economico unitario.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, assumendo che, ferma restando, in ragione delle argomentazioni di cui al primo motivo, l’interpretazione dell’imposta di registro come mera “imposta d’atto”, ed escluso pertanto che il D.P.R. n. 131 del 1986, predetto art. 20, specie nel testo novellato applicabile ratione temporis, si presti ex se alla repressione di finalità abusive perseguite dal contribuente, queste ultime comunque non sussisterebbero nel caso di specie, nel quale la scelta della contribuente tra operazioni diverse, utilizzabili per conseguire lecitamente il medesimo risultato, poteva legittimamente orientarsi verso quella sequenza cui conseguiva un carico fiscale inferiore, come consentito dalla L. n. 212 del 2000, ridetto art. 10-bis, stesso comma 4.

3. I due motivi, da trattare congiuntamente per la loro correlazione, sono fondati.

Infatti il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nella versione originariamente vigente, stabiliva che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

Nell’interpretazione giurisprudenziale di tale disposizione prevaleva l’orientamento costante secondo cui, nella lettura degli atti registrati, dovesse prevalere la sostanza della loro natura funzionale e dei loro effetti giuridici, piuttosto che il loro titolo, derivante dal relativo tipo negoziale, e la loro forma (cfr. Cass. 30 maggio 2018, n. 13610; Cass., ord., 20 marzo 2018, n. 7637; Cass., ord., 28 dicembre 2017, n. 31069).

Isolate, invece, sono rimaste quelle pronunce nelle quali si è detto che l’Amministrazione finanziaria, pur non essendo tenuta a conformarsi alla qualificazione attribuita dalle parti al contratto, non potesse travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risultava inquadrabile, salva la prova, da parte sua, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici (cfr. Cass., ord., 15 gennaio 2020, n. 722; Cass. 27 gennaio 2017, n. 2954).

Con la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, è stato così modificato: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

Questa Corte, nell’interpretare la nuova formulazione della norma, ha ritenuto che essa abbia ristretto l’oggetto dell’interpretazione negoziale al solo atto e agli elementi solo da questo desumibili, non rilevando più gli elementi evincibili da atti eventualmente collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali (Cass. ord. 23 settembre 2019, n. 23549).

Successivamente, la L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 1084, ha disposto che “La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), costituisce interpretazione autentica del testo unico di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, comma 1".

Pertanto il legislatore, a fronte di un’interpretazione giurisprudenziale che escludeva che la novella di cui alla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), avesse effetto retroattivo (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4407; Cass. 26 gennaio 2018, n. 2207), ha esplicitato, con l’interpretazione autentica offerta dalla L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 1084, l’intenzione di attribuire efficacia retroattiva alla nuova versione del D.P.R. n. 131 del 1986, ridetto art. 20 (cfr. Cass. ord. 23/09/2019, n. 23549).

Investita da questa Corte, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 158 del 21 luglio 2020, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 205 del 2017, artt. 1, comma 87, e della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, sollevata in relazione agli artt. 3 e 53 Cost..

Con la successiva sentenza n. 39 del 16 marzo 2021 la Corte Costituzionale ha ribadito il giudizio di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, in relazione alla violazione degli artt. 3 e 53 Cost..

Il giudice delle leggi ha osservato che il legislatore ” ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico” (Corte Cost. sent. n. 158 del 2020). Ed ha aggiunto che un’ interpretazione dell’art. 20 che fosse basata sulla nozione di causa reale “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale” (Corte Cost. sent. n. 158 del 2020), sebbene pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea.

Fermo restando, comunque, che eventuali condotte di sottrazione all’imposizione di effettiva ricchezza imponibile possano rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto, alla cui repressione, tuttavia, non è funzionale la disposizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (né, comunque, potrebbe in ipotesi riqualificarsi l’atto impositivo come emesso in ragione di disposizioni antielusive, ove non contenga anche la contestazione della votazione di queste ultime, pena un inammissibile allargamento del thema decidendum a presupposti di fatto e di diritto non contestati con l’atto impugnato: così Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 9065 del 01/04/2021, in motivazione).

All’esito dell’intervento della Corte costituzionale, è stato quindi affermato che “In tema di imposta di registro, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nella formulazione successiva alla L. n. 205 del 2017, cui, ai sensi della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, va riconosciuta efficacia retroattiva (norme ritenute esenti da profili di illegittimità dalla Corte costituzionale, rispettivamente, con sentenze n. 158 del 21 luglio 2020 e n. 39 del 16 marzo 2021), deve essere inteso nel senso che l’Amministrazione finanziaria nell’attività di qualificazione degli atti negoziali, deve attenersi alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extra-testuali e gli atti, pur collegati, ma privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo.” (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 9065 del 01/04/2021, cit.).

Ed è stato ritenuto che “In tema di imposta di registro, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 – nella formulazione successiva alla L. n. 205 del 2017 che, secondo la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, ne ha fornito l’interpretazione autentica e alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 158 del 2020 e n. 39 del 2021 – è legittima l’attività di riqualificazione dell’atto da registrare da parte dell’Amministrazione soltanto se operata “ab intriseco”, cioè senza alcun riferimento agli atti ad esso collegati e agli elementi extra-testuali, non potendosi essa fondare sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dall’atto.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 10688 del 22/04/2021).

La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (così come interpretato alla luce della norma di interpretazione autentica introdotta con la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a); delle predette pronunce della Corte Costituzionale; e del richiamato orientamento conseguente di questa Corte) poiché ha ritenuto applicabile l’imposta di registro in misura proporzionale, piuttosto che fissa, a singoli atti i quali, secondo l’Ufficio, collegati ed unitariamente considerati, presentavano natura di cessione di ramo d’azienda, attribuendo l’Amministrazione rilevanza decisiva, ai fini dell’accertamento della contestata cessione, ad elementi extratestuali, rappresentati dai diversi atti in oggetto, sul presupposto di un loro collegamento negoziale o, comunque, di una loro preordinazione alla realizzazione di un risultato economico unitario.

Inoltre la CTR ha errato nella parte in cui, pur avendo premesso che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, “non configura una “disposizione antielusiva””, ha contestualmente (ed ambiguamente) affermato che si tratterebbe di norma “ispirata pure a finalità genericamente antielusive” e, rifacendosi ad “un generale principio antielusivo”, ha ritenuto fondato l’accertamento sulla circostanza che la contribuente non avrebbe dato prova “della sussistenza di ragioni economiche tali da giustificare la combinazione di atti posta in essere”.

Invero, nel caso di specie è la stessa Amministrazione che, nel controricorso, espressamente conferma che l’Ufficio non ha svolto alcun tipo di controllo specificamente antielusivo, ma solo un accertamento volto alla corretta applicazione dell’imposta di registro. Pertanto nella fattispecie sub iudice (nella quale peraltro la stessa CTR contemporaneamente afferma la natura non essenziale del contraddittorio preventivo mancato) il mero richiamo a generiche ed immanenti finalità antielusive, che dovrebbero orientare l’interpretazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, realizza proprio quell’effetto distorsivo che la stessa Corte costituzionale ha paventato, giacché “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale” (Corte Cost. sent. n. 158 del 2020, cit.).

La sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, perché provveda in applicazione dei predetti principi, per effetto dei quali l’imposta è dovuta in misura fissa e non proporzionale.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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