LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. r.g. 15666-2020 proposto da:
A.K., rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Augusto Sebastio, con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via Pietro Borsieri n. 12, presso lo studio dell’Avvocato Angelo Averni.
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore.
– intimato –
avverso il decreto n. cronol. 3176/2020 del TRIBUNALE di LECCE, depositato il 22/05/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del giorno 22/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO CAMPESE.
FATTI DI CAUSA
1. A.K., nativo della Nigeria (*****), ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi, avverso il decreto del Tribunale di Lecce del 22 maggio 2020, reso nel procedimento n. 7878/2018, reiettivo della sua domanda volta ad ottenere una delle forme di protezione internazionale (status di rifugiato; protezione sussidiaria; rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari). Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge, ma ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine di prendere eventualmente parte alla udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.
1.1. Quel tribunale ritenne: i) la vicenda riferita dall’istante inidonea, anche ove credibile, a configurare una situazione di persecuzione idonea ad integrare il requisito fondamentale ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato; ii) insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 131,134 c.p.c., e art. 156 c.p.c., comma 2, nonché art. 111 Cost., comma 6”, lamenta l’assoluto difetto di motivazione del provvedimento impugnato perché non consentirebbe di comprendere l’iter logico giustificativo delle conclusioni ivi raggiunte. Lo stesso è manifestamente infondato.
1.1. Invero, occorre innanzitutto ricordare che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio reso il 22 maggio 2020), ha ormai ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché si è chiarito (cfr. tra le più recenti, Cass. n. 26199 del 2021, in motivazione; Cass. n. 395 del 2021, in motivazione; Cass. n. 9017 del 2018) che è oggi denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti Cass. n. 26199 del 2021; Cass. n. 20042 del 2020 e Cass. n. 23620 del 2020; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 1522 del 2021).
1.2. In particolare, il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (cfr. Cass. n. 26199 del 2021; Cass. n. 1522 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 23684 del 2020; Cass. n. 20042 del 2020; Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012). In altri termini, la motivazione deve mancare del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero esistere formalmente come parte del documento, ma le sue argomentazioni svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum. Un simile vizio, inoltre, deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva (cfr. Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 26893 del 2020; Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017).
1.2.1. Alla stregua di questo insegnamento, che il Collegio condivide integralmente, la censura in esame è manifestamente infondata posto che le argomentazioni con cui il tribunale leccese ha respinto la domanda di protezione dell'*****, da un lato, soddisfano ampiamente il minimum costituzionale imposto da Cass., SU, n. 8053 del 2014; dall’altro, si rivelano pienamente lineari, così agevolmente permettendo di individuarle, cioè di riconoscerle, come giustificazione del decisum (natura sostanzialmente privata della vicenda narrata, ove pure credibile; insussistenza dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), alla stregua delle fonti internazionali consultate e puntualmente indicate; carenza di ragioni di concreta vulnerabilità dimostrate dall’odierno ricorrente).
2. Il secondo motivo, recante “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e art. 5, art. 8, commi 2 e 3, nonché del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1-bis, del D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, della Dir. n. 2013/32/UE, art. 16, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 comma 1, lett. g), artt. 5 e 14, della Dir. n. 2011/95/UE, art. 15, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, contesta al tribunale di avere valutato la credibilità dell'***** e la situazione del Paese di sua provenienza, ai fini della protezione sussidiaria, del D.Lgs. n. 251 del 2007 ex art. 14, lett. c), ed umanitaria, senza adempiere al necessario obbligo di cooperazione istruttoria del giudice, acquisendo diverse fonti autorevoli, né disponendone l’audizione al fine di ottenere chiarimenti sulle sue dichiarazioni ivi ritenute lacunose e contraddittorie.
2.1. Una siffatta doglianza si rivela complessivamente inammissibile.
2.2. Giova subito rimarcare che il tribunale, come si è già detto, ha ritenuto: i) di natura sostanzialmente privata la vicenda narrata dall’odierno ricorrente (che aveva riferito di aver lasciato il proprio Paese temendo di essere accusato della morte della ex fidanzata, invece cagionata da un altro ragazzo anch’egli interessato a quest’ultima), ove pure credibile; ii) insussistenti i presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), alla stregua delle fonti internazionali consultate e puntualmente indicate; indimostrate eventuali situazioni di concreta vulnerabilità dell'*****.
2.3. Deve osservarsi, poi, che come recentemente puntualizzato da Cass. 11 novembre del 2020, n. 25312 (nello stesso senso, si veda, peraltro, anche la successiva Cass. n. 1522 del 2021), il giudice che sia investito del ricorso contro il provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale può esimersi dall’audizione del richiedente se a quest’ultimo, nella fase amministrativa, sia stata data la facoltà di essere sentito e il verbale del colloquio, ove avvenuto, sia stato reso disponibile (cfr. Cass. n. 15318 del 2020). Difatti nel giudizio d’impugnazione innanzi all’autorità giudiziaria, ove sia mancata la videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla commissione territoriale, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purché sia stata garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni o davanti alla commissione territoriale (cfr. Cass. n. 2917 del 2019; Cass. n. 5973 del 2019; Cass. n. 1088 del 2020). Ciò è quanto, in base al decreto oggi impugnato, si evince esser avvenuto nel caso di specie. Occorre precisare che la ripetuta interpretazione è conforme alla Dir. n. 2013/32-UE, artt. 12, 14, 31 e 46, secondo l’interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia con la sentenza 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko, sicché neppure sarebbe ravvisabile una violazione processuale, sanzionabile a pena di nullità, nell’omessa audizione personale del richiedente, poiché l’audizione comunque non si traduce in un incombente automatico, neppure dinanzi all’affermata non credibilità del racconto. Vi e’, semmai, il diritto della parte di richiedere l’audizione personale a fronte di specifiche circostanze di fatto che si intendano chiarire. Diritto cui si collega, tuttavia, il potere officioso del giudice di valutare la rilevanza di quelle circostanze nel complesso degli elementi acquisiti, ben potendo il giudice respingere la domanda di protezione internazionale che risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dagli atti e di quelli emersi attraverso l’audizione svoltasi nella fase amministrativa (cfr. Cass. n. 8931 del 2020, per quanto correlata a fattispecie soggetta al previgente del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35). Contigua a codesti principi appare anche la recente affermazione della sentenza di questa sezione n. 21584 del 2020, che, all’esito di ampia motivazione, ha fissato il principio per cui: “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinnanzi alla commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di diOorre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile”. Sennonché affermare l’inesistenza dell’obbligo di audizione a meno che nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi, ovvero il giudice ritenga necessaria l’acquisizione (chiarimenti, ovvero ancora l’istanza sia corredata da precise indicazioni sui singoli aspetti da chiarire, e “sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile”), equivale a costruire l’audizione pur sempre come oggetto di una facoltà, non di un obbligo; sebbene di una facoltà che, laddove esercitata in un senso o nell’altro, presupponga (come ovvio) l’esplicitazione dei motivi della afferente decisione. Cosicché anche in base al citato precedente l’istanza di audizione non può essere dal ricorrente considerata come finalizzata all’esercizio di un diritto potestativo, come sarebbe se al fondo di essa fosse riscontrabile un incombente processuale automatico, necessariamente insito nella fissazione dell’udienza e tale da impedire al giudice di rigettare altrimenti la domanda. Pertanto, nel solco di quanto affermato dalla citata Cass. n. 21584 del 2020 vi è da aggiungere che il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; nel senso che il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza. Tale onere nella specie non risulta adempiuto, non emergendo dal ricorso che l’audizione dell'***** fosse stata effettivamente domandata (tutt’altro, ovviamente, è dire che il tribunale ben avrebbe potuto disporre l’audizione del ricorrente per superare la lacunosità e contraddittorietà delle sue dichiarazioni. (Cfr. pag. 5-7 del ricorso), né le puntuali circostanze su cui egli avrebbe dovuto ulteriormente riferire.
2.4. Per il resto, è sufficiente ribadire che: i) il già descritto racconto dell'***** concerne chiaramente una vicenda inidonea a configurare i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b). Questa Corte, infatti, ha già affermato che le liti tra privati non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e)), né nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. A), atteso che i cd. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave solo ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi (cfr. Cass. n. 23281 del 2020). Nella specie, nemmeno è stato allegato, ancor prima che dimostrato, che l'***** abbia chiesto protezione alle autorità locali in relazione alle aggressioni ed alle minacce subite; ii) il tribunale leccese ha correttamente provveduto ad attivare i propri doveri di cooperazione istruttoria attraverso l’estensione della propria cognizione alle informazioni sul Paese (Nigeria, *****) di origine dell’odierno ricorrente, dando ampiamente conto gr. pag. 5-6 del decreto impugnato) delle fonti, specifiche ed aggiornate, dalle quali ha tratto le proprie conclusioni circa l’insussistenza, nel Paese suddetto, delle condizioni legittimanti la sua richiesta di protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). La censura, dunque, si rivela, in parte qua, inammissibilmente diretta ad una nuova valutazione fattuale, peraltro alla stregua di fonti alternative a quelle utilizzate dal tribunale di cui nemmeno è dato sapere se già sottoposte all’attenzione di quest’ultimo al fine di indurlo a conclusioni differenti; il medesimo tribunale, dopo aver rimarcato l’insussistenza di particolari condizioni di vulnerabilità connesse alla condizione personale del ricorrente (non adeguatamente e specificatamente censurata in questa sede), ha comunque proceduto alla sostanziale comparazione della vicenda personale dell’istante con la situazione obiettiva in cui lo stesso sarebbe esposto in caso di rientro nel Paese di origine, a tali conclusioni pervenendo sulla base di un’analisi delle fonti informative disponibili sufficientemente congrua ed adeguata, suscettibile di corroborare in modo esaustivo il giudizio formulato in ordine alla non prospettabilità di alcuna grave sproporzione tra la vita condotta dal ricorrente nel territorio italiano e quella prospettata nel Paese di origine, con specifico riferimento alla perdurante possibilità, per lo stesso ricorrente, di godere delle prerogative connesse all’esercizio dei propri diritti fondamentali.
3. Il ricorso, dunque, va respinto senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusto dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 22 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022