Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.596 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. r.g. 19333-2020 proposto da:

ASSOCIAZIONE “DEMOCRAZIA E’ LIBERTA – LA MARGHERITA”, in liquidazione, con sede in *****, in persona del Presidente del Collegio dei liquidatori Dott. M.R., elettivamente domiciliata in Roma, alla via Tacito n. 41, presso lo studio dell’Avvocato Maurizio Morganti, che la rappresenta e difende giusta procura speciale allegata in calce al ricorso (dichiara di voler ricevere le comunicazioni all’indirizzo pec:

mauriziomorganti.ordineavvocatiroma.org).

– ricorrente –

contro

C.E., elettivamente domiciliato in Roma, al Lungotevere delle Navi n. 30, presso lo studio dell’Avvocato Oreste Michele Fasano, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale apposta in calce al controricorso (dichiara di voler ricevere le comunicazioni all’indirizzo pec: oreste.fasano.pec.studiofasano.com).

– controricorrente –

nonché

P.C.; B.B.; N.G.;

L.R..

– intimati-

avverso la sentenza n. cronol. 6860/2019 della CORTE DI APPELLO di ROMA, depositata il giorno 07/11/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del giorno 22/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO CAMPESE.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 7 novembre 2019, n. 6860, la Corte di appello di Roma respinse il gravame proposto dall’Associazione “Democrazia è libertà – La Margherita” in liquidazione (d’ora in avanti, breviter, Associazione) contro la decisione resa dal tribunale di quella stessa città che, accogliendo la corrispondente domanda di C.E., L.R., P.C., B.B. e N.G., aveva dichiarato invalida la Delib. dell’Associazione 21 giugno 2011, di approvazione del rendiconto consuntivo 2010 e preventivo 2011, per essere stata omessa la convocazione dei predetti soggetti all’Assemblea Federale che l’aveva adottata.

1.1. In particolare, quella corte, premettendo che “la questione si incentra praticamente sull’accertamento della permanenza della qualità di associati in capo ad alcuni soggetti che, alla data di convocazione dell’Assemblea Federale, avevano aderito ad altre formazioni politiche di rilevanza nazionale (circostanza incontestata)”, affermò che: i) “lo Statuto prevede l’incompatibilità con l’iscrizione o la permanenza nell’associazione di coloro che aderiscono ad altre formazioni politiche di rilevanza nazionale (Statuto, art. 6, comma 3), mentre tale incompatibilità non sussiste di fronte all’iscrizione ad una formazione operante a livello regionale”; ii) “non è previsto dallo Statuto che l’esistenza di tale incompatibilità sopravvenuta debba essere fatta valere dagli organi di gestione attraverso un provvedimento espresso di esclusione”; iii) “e’ irrilevante che le associazioni a cui hanno aderito altri iscritti a La Margherita, regolarmente convocati per l’Assemblea Federale, presentino affinità di programma o di impostazione ideologica, in quanto circostanza inidonea a giustificare la diversità di trattamento fra associati a La Margherita aderenti ad altre formazioni”. Muovendo da tali assunti, quindi, opinò che “l’Associazione, consentendo ad alcuni iscritti di partecipare alle assemblee pur sussistendo una chiara ipotesi statutaria che rendeva non più accettabile la permanenza della loro adesione, abbia di fatto derogato alla previsione statutaria, dando vita ad una prassi generalizzata che non poteva non essere applicata anche agli odierni appellati. Se, da un lato, è evidente che una singola forzatura della regola, eseguita per favorire un determinato soggetto non può automaticamente abilitare altri soggetti a pretendere lo stesso trattamento illegittimo, è altrettanto vero che, quando si verifichi la sistematica violazione di una norma statutaria non sia più possibile invocarne l’applicazione solo per escludere alcuni degli associati ritenuti “scomodi””.

2. Avverso questa sentenza ricorre per cassazione l’Associazione, affidandosi ad un motivo. Resiste, con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria ex art. 380-bis c.p.c., C.E., mentre sono rimasti solo intimati P.C., L.R., B.B. e N.G..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. L’unico formulato motivo, lamenta la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 24 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poiché la Corte di appello non ha tenuto in considerazione il potere delle associazioni di darsi uno statuto che contenga norme di esclusione degli associati”. In estrema sintesi, si deduce che la costruzione logico giuridica effettuata dalla corte capitolina “ricalca quella fornita dalla difesa dell’Associazione, tuttavia il giudice di secondo grado giunge a delle conclusioni per le quali la decisione è avversa all’Associazione stessa”, posto che: i) è rimasto accertato che “il comportamento tenuto dagli odierni convenuti è stato effettivamente incompatibile con la previsione statutaria dell’Associazione di cui facevano parte” e che “lo Statuto dell’Associazione non prevede che l’incompatibilità sopravvenuta degli iscritti debba essere dichiarata dagli organi dell’Associazione in modo esplicito e formale”; ii) “la corte d’appello non ha dato la corretta rilevanza all’obbligo di rigetto delle norme statutarie da parte dell’Associazione”, ponendo in essere un ragionamento logico giuridico basato “su presunzioni non sostenibili. Infatti, la Corte d’Appello ha apoditticamente affermato che l’Associazione avrebbe “sistematicamente” coinvolto nelle assemblee soggetti che avevano tenuto comportamenti assimilabili a quelli degli odierni convenuti e che questi ultimi fossero “scomodi. Tali affermazioni della Corte d’Appello non trovano alcun riscontro negli atti di causa in quanto mai dimostrate da controparte, né tanto meno possono rappresentare un fatto notorio. In altre parole, la Corte d’Appello, dopo aver ammesso che vi è stata una violazione della regola statutaria che legittimerebbe l’Associazione ad escludere gli odierni convenuti, ha fondato la decisione di nullità della delibera assembleare sulla circostanza non provata che l’Associazione stessa avrebbe “sistematicamente” violato tale regola creando una “prassi” contraria alle norme statutarie”. Tale ragionamento non può condividersi, atteso che la circostanza presunta dalla corte distrettuale, “peraltro in assenza di qualsiasi fatto noto da cui ricavare il fatto ignoto che la norma statutaria non sia stata eventualmente rispettata”, non può comunque far giungere alla conseguenza che la stessa norma non possa o non debba essere applicata in altri casi. “In altre parole, non solo la Corte d’Appello ha presunto, senza fondamenti, che l’Associazione avrebbe disapplicato la norma statutaria in situazioni del tutto assimilabili a quelle degli odierni convenuti, ma ha anche presunto che tale disapplicazione sarebbe avvenuta talmente tante volte da ingenerare una prassi. Sulla base di tali infondate presunzioni, la Corte d’Appello ha creato una deroga alle norme statutarie tale per cui gli odierni convenuti non sarebbero stati esclusi dall’Associazione e avrebbero dovuto essere convocati all’assemblea del 21 giugno 2011. Così facendo la Corte d’Appello ha disapplicato le norme previste per il funzionamento delle persone giuridiche e, in particolare, l’art. 16 c.c., in quanto prevede la funzione dello Statuto e l’art. 24 c.c., che prevede l’esclusione degli associati”.

2. La descritta doglianza si rivela inammissibile.

2.1. Invero, giova premettere che questa Corte, ancora recentemente (cfr., ex aliis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 4226 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 27909 del 2020; Cass. n. 4343 del 2020; Cass. n. 27686 del 2018), ha ribadito che: a) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto, intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente (perché, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro) ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua (pur corretta) interpretazione Cass. n. 8782 del 2005); b) non integra, invece, violazione, né falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poiché essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretative ed applicativo della norma di legge; c) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa Cass., Sez. U., n. 10313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); d) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015).

2.2. Va ricordato, altresì, il pacifico principio secondo cui il vizio di un provvedimento decisorio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella decisione gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 16700 del 2020. Si veda pure Cass., SU, n. 23745 del 2020, a tenore della quale, “in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa”). Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007).

2.3. Fermo quanto precede, la formulata doglianza dell’Associazione ricorrente, lungi dall’argomentare il prospettato vizio interpretativo, sotto il profilo della violazione di legge o sotto quello della falsa applicazione di legge, come sopra correttamente intesi, è volta sostanzialmente a contestare la ricostruzione, evidentemente di carattere fattuale e qui non ulteriormente sindacabile, con cui la corte distrettuale, proprio muovendo dalle previsione statutarie invocate dalla prima e confermate nella loro esatta interpretazione, ha ritenuto, poi, che l’avere l’Associazione medesima reiteratamente consentito la partecipazione a pregresse assemblee di soggetti, diversi dal C. e dagli altri attori originari, che, proprio in base a quelle previsioni, rendevano non più accettabile la permanenza della loro adesione all’Associazione stessa, aveva dato luogo, ormai, ad una prassi generalizzata di deroga delle previsioni predette, sicché non poteva oggi invocarsene l’applicazione al solo fine di pregiudicare l’odierno controricorrente e gli altri originari attori.

2.3.1. A fronte di tale operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge ed alle previsioni statutarie di cui la ricorrente ha chiesto l’applicazione, la critica sviluppata nel suo motivo di ricorso investe il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, della prassi derogatoria predetta), senza assolutamente considerare che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposta, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 2959 del 2021, in motivazione; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017, Cass. n. 2959 del 2021 e Cass., SU, n. 34476 del 2019).

3. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità, tra le sole parti costituite, regolate dal principio di soccombenza e liquidate come in dispositivo, dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte dell’Associazione ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

3.1. Da ultimo, va disattesa la domanda ex art. 96 c.p.c., proposta dal C. (cfr. pag. 18 e 19 del suo controricorso), atteso che il tenore letterale della sua formulazione, assolutamente generico, nemmeno consente di stabilire, con la necessaria certezza, se trattasi di istanza riconducibile alla fattispecie di cui alla citata norma, comma 1, oppure a quella (affatto diversa per tipologia e presupposti) di cui alla medesima Disp., comma 3.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Rigetta la domanda ex art. 96 c.p.c., proposta dal C..

Condanna l’Associazione “Democrazia è libertà – La Margherita” in liquidazione al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dal C., liquidate in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusto lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 22 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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