LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. r.g. 17317-2020 proposto da:
J.A., rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Federica Montanari, con cui elettivamente domicilia in Roma, al viale Bruno Buozzi n. 68, presso lo studio dell’Avvocato Luca Zanacchi.
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore.
– intimato –
avverso il decreto n. cronol. 3452/2020 del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositato il 29/05/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del giorno 22/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO CAMPESE.
FATTI DI CAUSA
1. Con decreto del 29 maggio 2020, il Tribunale di Bologna ha respinto la domanda di J.A., nativo del Bangladesh, volta al riconoscimento della protezione internazionale o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
1.1. In estrema sintesi, quel tribunale ritenne insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato in favore del richiedente, non credibili le sue dichiarazioni e, comunque, i motivi addotti da lui a sostegno delle sue richieste inidonei a consentirne l’accoglimento.
2. Avverso il descritto decreto J.A. ricorre per cassazione affidandosi a quattro motivi. Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge, ma ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine di prendere eventualmente parte alla udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:
I) “Violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5”, censurandosi la ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni rilasciate dall’odierno ricorrente;
II) “Violazione e falsa applicazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), dell’art. 10 Cost., comma 3, del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,3,14 e 17 (…); del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 32, comma 3, (…);del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6; del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, e della Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati, art. 33”, criticandosi il mancato riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria;
III) “Violazione e falsa applicazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6; del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1; della Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati, art. 33”, in relazione al diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari;
IV) “Omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in riferimento ai presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria. Violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 2 e 35 Cost.”, nuovamente contestandosi il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, senza valutare il buon grado di integrazione raggiunto in Italia dall’odierno ricorrente, come desumibile dall’aver frequentato un corso di lingua italiana e dall’avere svolto ivi attività lavorativa.
2. Le descritte doglianze, scrutinabili congiuntamente per la loro stretta connessione, si rivelano insuscettibili di accoglimento nel loro complesso.
2.1. Invero, il tribunale bolognese: i) ha negato credibilità al racconto del richiedente protezione circa le ragioni (asseritamente di carattere economico) che lo avevano indotto a lasciare il proprio Paese, così conseguentemente disattendendo la richiesta di riconoscimento, oltre che dello status di rifugiato, anche della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b); ii) ha escluso, sulla base della consultazione di affidabili fonti di informazioni, delle quali ha pure dato puntualmente conto nel provvedimento impugnato, che nel Bangladesh sia attualmente riscontrabile una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che consente il riconoscimento nei confronti dello straniero della forma di protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (cfr. amplius, pag. 5-6, del menzionato decreto);
iii) quanto alla invocata protezione umanitaria (da scrutinarsi alla stregua della disciplina, da ritenersi applicabile ratione temporis –
cfr. Cass., SU, nn. 29459-29461 del 2019 – di cui al D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6), ha evidenziato l’assenza di stati patologici di rilievo o di peculiari situazioni soggettive attestanti condizioni di vulnerabilità del richiedente protezione, altresì precisando che da circostanza che il ricorrente abbia svolto brevi periodi di lavoro in Italia (con contratti stagionali e della durata di alcuni mesi), abbia seguito corsi di lingua italiana ed partecipato ad attività formative – pur certamente meritevole – non è di per sé tale da evidenziare un radicamento del ricorrente sul territorio, ostativo al suo rientro in patria…”.
2.2. Fermo quanto precede, rileva il Collegio che:
i) il tribunale ha esaurientemente esposto le ragioni del proprio convincimento circa la non credibilità del racconto dell’odierno ricorrente (cfr. amplius, pag. 4-5 del decreto impugnato);
ii) la giurisprudenza di legittimità, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 17536 del 2020; Cass. n. 18446 del 2019), ha chiarito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (cfr., ex multix, Cass. n. 6191 del 2020, in motivazione; Cass. n. 32064 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018), il quale deve ponderare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (tutte fattispecie qui insussistenti), dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 18550 del 2020; Cass. n. 17539 del 2020; Cass. n. 3340 del 2019). Deve, peraltro, rimarcarsi che, nella specie, la semplice lettura del decreto oggi impugnato, nella parte in cui ha negato l’attendibilità dell’odierno ricorrente, presenta una motivazione ampiamente in linea con il minimo costituzionale sancito da Cass. SU, n. 8053 del 2014;
iii) quanto al diniego della protezione sussidiaria, giova ricordare che la valutazione di inattendibilità del racconto del dichiarante osta al riconoscimento, oltre che dello status di rifugiato, anche di quest’ultima quanto alle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, alle lett. a) e b), (cfr. Cass. n. 2959 del 2021, in motivazione), mentre, quanto a quella proposta giusta del medesimo decreto, alla lett. c), il provvedimento oggi impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica del Paese di provenienza del richiedente, compiutamente indicando le fonti internazionali consultate, debitamente aggiornate, ed ha rilevato che, sostanzialmente, nel Bangladesh, non si segnala attualmente una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Va solo rimarcato che, come recentemente chiarito da Cass. n. 29056 del 2019, l’eventuale omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI (country of origin information) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché, in tal caso, l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il tribunale renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio. Nella specie, però, non vi è prova alcuna, né è stato specificamente dedotto dal ricorrente, di aver sottoposto all’attenzione del tribunale le fonti oggi richiamate in ricorso;
iv) la censura complessivamente afferente il diniego di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari si rivela inammissibile, risolvendosi, sostanzialmente, in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice di merito, cui il ricorrente intenderebbe opporre una diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie. Nessun decisivo rilievo assume, infine, da sola, ai fini della corretta applicazione delle norme di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, l’eventuale integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente (ma concretamente esclusa dal tribunale), posto che vige nella materia de qua il principio secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (cfr., nelle rispettive motivazioni, Cass., SU, n. 24413 del 2021, secondo cui “… occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano”; Cass., SU, n. 24959 del 2019. Cfr. anche Cass. n. 24104 del 2021, secondo cui “…lo svolgimento di attività lavorativa nel nostro Paese, da solo, non costituisce una ragione sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per più ragioni: i) perché la legge non stabilisce alcun automatismo tra lo svolgimento in Italia di attività lavorativa e la sussistenza di una condizione di “vulnerabilità”; ii) perché il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura temporanea, mentre lo svolgimento di attività lavorativa, in particolare a tempo indeterminato, legittimerebbe un permesso di soggiorno sine die; iii) perché la “vulnerabilità” richiesta ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, non può ravvisarsi nel mero rischio di regressione a condizioni economiche meno favorevoli (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 17832 del 3.7.2019; Sez. 1, Ordinanza n. 17287 del 27.6.2019). Lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, per contro, può essere solo uno dei fattori indizianti che, valutati unitamente a tutte le altre circostanze del caso concreto, può dimostrare la sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo…”). A tanto deve solo aggiungersi che, come condivisibilmente affermato da Cass. n. 24904 del 2020, “in tema di protezione umanitaria, la condizione di vulnerabilità che legittima il rilascio del permesso di soggiorno di cui alla L. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non comprende quella di svantaggio economico o di povertà estrema del richiedente asilo, perché non è ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire ai cittadini stranieri parametri di benessere o di impedire, in caso di rimpatrio, l’insorgere di gravi difficoltà economiche e sociali”. Inoltre, la situazione del Paese di origine prospettata in termini generali ed astratti, come nel caso di specie, è di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (cfr. Cass. n. 17787 del 2021, in motivazione). Nemmeno risponde al vero, poi, atteso il passo motivazionale del decreto impugnato riportato in precedenza, la mancata considerazione, ad opera del tribunale, dell’attività lavorativa sporadicamente svolta in Italia da J.A.;
v) circa la valutazione della permanenza in Libia, asserito Paese di transito, oggi dedotta dal ricorrente, la corrispondente doglianza nemmeno specifica, adeguatamente, ragioni di rilevanza di un tale accertamento, non riguardante il Paese di origine e dunque di rimpatrio del richiedente protezione internazionale (cfr. Cass. n. 9302 del 2018, in motivazione; Cass. n. 1526 del 2021, in motivazione).
vi) a fronte di tale corretta operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge di cui il ricorrente ha chiesto l’applicazione, le doglianze sviluppate nei motivi di ricorso in esame investono, sostanzialmente, il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, della prova dei presupposti per la invocata protezione internazionale ed umanitaria), senza assolutamente considerare che, da un lato, la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposte, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 2959 del 2021, in motivazione; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017, Cass. n. 2959 del 2021 e Cass., SU, n. 34476 del 2019); dall’altro, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, qui applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio reso il 29 maggio 2020), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 2959 del 2021, in motivazione; Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).
3. Il ricorso, dunque, va respinto, senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 22 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022