Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.6156 del 24/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32090-2018 proposto da:

G.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO, 109, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI D’AMICO, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO VINCENZO PAPADIA, MONICA PAPADIA;

– ricorrente –

contro

TRENITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso lo studio ALFREDO PLACIDI, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTO SAVINO FU GIACOMO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2611/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 23/11/2017 R.G.N. 2407/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23/12/2021 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE.

RILEVATO

che:

Con sentenza del 23 novembre 2011, la Corte d’Appello di Bari ha confermato, modificandone in parte la motivazione, la sentenza del locale Tribunale che aveva respinto la domanda avanzata da G.N. nei confronti di Trenitalia S.p.A. volta ad ottenere la condanna della società al pagamento della somma di Euro 148.681,62 a titolo di risarcimento del danno conseguente alla dedotta violazione dell’art. 2087 c.c.;

in particolare, la Corte, non condividendo l’assunto del Tribunale circa l’intervenuta prescrizione del credito vantato per aver escluso che l’atto di promovimento del tentativo di conciliazione non fosse stato conosciuto da Trenitalia, ha, tuttavia, ritenuto il difetto di prova circa la nocività dell’ambiente quale presupposto indispensabile per il risarcimento ex art. 2087, pervenendo, quindi, a reputare infondata la domanda;

per la cassazione della sentenza propone ricorso Nicola G., affidandolo a tre motivi;

resiste, con controricorso, Trenitalia S.p.A..

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo di ricorso si deduce la erronea applicazione degli artt. 1218,2697 e 2087 c.c., per aver la Corte posto a carico del lavoratore oneri probatori asseritamente gravanti sulla controparte;

con il secondo motivo si allega l’erronea applicazione dell’art. 132 c.p.c., punto 4, e dell’art. 118 disp. att., per difetto di motivazione, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., per aver ritenuto “intrinsecamente usuranti” le lavorazioni del ricorrente, con ciò esonerando da responsabilità il datore;

con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 113 c.p.c., e degli artt. 40 e 41 c.p., per aver la Corte omesso di prendere in esame la CTU da cui avrebbe potuto evincersi l’incidenza causale del lavoro sulla patologia del ricorrente;

tutti e tre i motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico – sistematiche, sono infondati;

non v’e’ dubbio che, come evidenziato da parte ricorrente, alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte di legittimità, (cfr, explurimis, Cass. nn. 13956/12; 17092/12; 18626/13; 22710/15; 10145/2017) la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass. nn. 6377/2003; 16645/2003; Cass. n. 10145/2017 cit.);

nondimeno, deve ricordarsi che i principi che rilevano ai fini della risoluzione in punto di diritto della questione controversa possono essere così sintetizzati:

elemento costitutivo della responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c., è la colpa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore (Cass. n. 28516/2019, n. 6002/ 2012, n. 14102 /2012);

l’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c., impone all’imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene protetto dall’art. 41 Cost., comma 2 (ex p lurimis, Cass. 6337 del 2012);

il concetto di specificità del rischio, da cui consegue l’obbligo del datore di provare di avere adottato le misure idonee a prevenire ragioni di danno al lavoratore, va inteso nel senso che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di allegare e provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (da ultimo, Cass. n. 28516 del 2019 cit., nn. 24742 e 26495 del 2018);

gli indici della nocività dell’ambiente lavorativo, che devono essere indicati dal lavoratore, non sono altro che i concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa; tale allegazione rientra nell’ambito dei fatti che devono essere indicati da colui che agisce deducendo l’inadempimento datoriale; correttamente, la Corte di appello ha affermato che l’estensione della norma di protezione (art. 2087 c.c.), sulla cui violazione è fondato l’inadempimento contrattuale, necessariamente postula l’identificazione della concreta fattispecie e delle specifiche modalità del fatto cui ricondurre quell’obbligo di protezione, cioè una compiuta identificazione degli indici di rischio e di pericolosità dell’ambiente lavorativo in cui la prestazione viene resa (nella specie, la prestazione resa su convoglio ferroviario), con particolare riguardo alle misure di sicurezza cosiddette innominate, che non conseguono a più specifiche disposizioni di legge;

come si evince dalla sentenza impugnata, il G. si era limitato ad allegare la patologia pseudoartrosica, riconosciuta con equo indennizzo, tendendo ad ottenere, esclusivamente su tale presupposto, il riconoscimento della responsabilità datoriale in termini di responsabilità causale in ordine alla nocività dell’ambiente;

la Corte, in particolare, ha escluso, sulla base delle dichiarazioni testimoniali raccolte, che lo svolgimento delle mansioni di capotreno fosse espletato in condizioni “nocive”, atte, quindi, a ledere l’incolumità del dipendente, talché la lesione non poteva dirsi etiologicamente collegata all’espletamento dell’attività lavorativa;

sono, infatti, totalmente mancate indicazioni circostanziali circa l’esistenza di un rischio specifico e di concreti fattori di pericolo atti a differenziare la situazione lavorativa in cui si trovava ad operare il dipendente rispetto al generico rischio cui va incontro qualunque individuo che svolga le mansioni di capotreno, non avendo trovato riscontro, in sede probatoria, l’allegazione concernente la movimentazione di carichi, attività che, piuttosto, è stata esclusa sulla base delle dichiarazioni testimoniali acquisite;

la sentenza impugnata resta, dunque, immune da vizi giuridici laddove ha affermato che, in assenza delle suddette indicazioni, deve essere ritenuto insussistente (o non provato) l’inadempimento, essendo mancate le indicazioni occorrenti a definire la “nocività” dell’ambiente lavorativo, tali da esigere l’apprestamento di misure appropriate alla situazione;

relativamente alla denunziata violazione dell’art. 2697 c.c., va, quindi, osservato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Cass. n. 18092 del 2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, in particolar modo in quanto correttamente la Corte ha ricondotto all’onere del lavoratore l’allegazione circa la nocività dell’ambiente lavorativo; con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre evidenziare che, secondo quanto statuito recentemente dalle Sezioni Unite, per la violazione delle disposizioni che presiedono all’ammissione delle prove, occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione delle relative norme, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr., SU n. 20867 del 20/09/2020), ed inoltre anche che una violazione dell’art. 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960);

quanto alla dedotta violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, va rilevato che si verte nell’ambito di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 – che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”- al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017; si veda altresì, quanto statuito da SU n. 8053 del 2014);

appare, conclusivamente, evidente, dalla piana lettura del ricorso introduttivo, che riporta il contenuto delle dichiarazioni testimoniali, che pur veicolando parte ricorrente le proprie censure per il tramite della violazione di legge o del vizio di motivazione, ella mira, in realtà, ad una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali che deve ritenersi non consentita in sede di legittimità;

deve, pertanto, concludersi che parte ricorrente non si è conformata a quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360, comma 1, nn. 3 e 5, e cioè che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 14476 del 2021); alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;

sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 1-bis, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022

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