Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.65 del 04/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31991/2020 proposto da:

S.M.A., rappresentato e difeso dall’avv. GIANLUCA VITALE, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del medesimo in Torino, Via Cibrario 12;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi 12;

– resistente –

avverso la sentenza n. 414/2020 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 28.4.2020, NRG 376/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/11/2021 dal Dott. Roberto BELLE’.

FATTI DI CAUSA

la Corte d’Appello di Torino, rigettando il gravame proposto avverso l’ordinanza del Tribunale della stessa città, ha disatteso l’impugnativa proposta da S.M.A., cittadino *****, avverso il decreto del Prefetto di Torino che, in data 9.11.2017, aveva disposto il suo allontanamento dal territorio nazionale per motifi afferenti alla pubblica sicurezza ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20 normativa di attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;

la Corte territoriale, dopo avere incidentalmente fatto riferimento ad una dubbia ammissibilità dell’appello, per insufficiente specificità di esso, ha comunque deciso nel merito, rigettando il gravame e ciò sul presupposto che non vi fossero ragioni per discostarsi dalla decisione assunta dal giudice di prime cure, anche sotto il profilo della prova di un regolare inserimento lavorativo del ricorrente nel nostro Paese;

S.M.A. ha impugnato per cassazione tale pronuncia con quattro motivi, mentre il Ministero dell’Interno si è limitato a depositare atto di costituzione in giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE

il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 158 c.p.c., per avere partecipato al collegio d’appello, in veste altresì di relatore ed estensore, un magistrato onorario, come giudice ausiliario;

il motivo, come anche il profilo di legittimità costituzionale ad esso sotteso, va rigettato, richiamandosi l’indirizzo qui condiviso, secondo cui “e’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 98 del 2013, artt. 62-72 in relazione all’art. 106 Cost., commi 1 e 2, nella parte in cui consentono la partecipazione di un giudice ausiliario al collegio di corte d’appello, atteso che la Corte costituzionale con la sentenza n. 41 del 2021, ha ritenuto la “temporanea tollerabilità costituzionale” per l’incidenza di concorrenti valori di rango costituzionale, della formazione dei collegi delle corti d’appello con la partecipazione di non più di un giudice ausiliario a collegio e nel rispetto di tutte le altre disposizioni che garantiscono l’indipendenza e la terzietà anche di questi magistrati onorari fino al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria, nei tempi contemplati dal D.Lgs. n. 116 del 2017, art. 32" (Cass. 28 maggio 2021, n. 15045).

il secondo motivo di ricorso è rubricato come violazione di legge, in relazione agli artt. 29,30 e 31 Cost., all’art. 8 della C.E.D.U., al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 2, art. 5, comma 6 e art. 13, comma 2, agli artt. 5 e 6 par. 4 Direttiva 2008/115/CE, oltre ad omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione;

con esso si fa leva sul fatto che il provvedimento di allontanamento avrebbe dovuto essere assunto previa valutazione della situazione familiare, in quanto previsto dalla normativa di settore in attuazione dei principi internazionali e costituzionali sopra indicati;

al riguardo, rileva il ricorrente, era stata data prova dell’esistenza di un suo legame con la madre, deceduta poi nel ***** e con una compagna, tale R.E., segnalandosi anche la necessità di restare in Italia al fine di gestire i beni lasciati in eredità dalla madre;

il terzo motivo di ricorso censura la decisione sub specie di violazione e falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 28 ss. della Direttiva 2004/38/CE ed eccesso di potere nella valutazione della situazione economica, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittorietà della motivazione, e ciò sul presupposto che non fosse stata data giusta considerazione ai documenti prodotti al fine di comprovare la propria condizione lavorativa, senza contare che i provvedimenti di allontanamento, secondo quanto stabilito dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20, comma 4, devono ispirarsi a proporzionalità e non possono trovare fondamento in ragioni economiche o estranee ai comportamenti individuali dell’interessato, il tutto tra l’altro in un contesto, quale quello di cui all’art. 27 della Direttiva 2004/38, ispirato alla libera circolazione delle persone nell’ambito Eurounitario e dovendosi considerare anche i legami con il territorio italiano e con quello di cittadinanza nazionale;

il quarto motivo è dedicato alla denuncia di violazione del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 13, comma 3 e art. 20, commi 3 e 4 anche in relazione all’art. 27 Cost., con affermazione di eccesso di potere, anche in punto di interesse pubblico, ed ancora omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione;

il motivo è articolato segnalando come l’art. 20, comma 4, cit. escluda che l’esistenza di condanne penali giustifichi di per sé l’adozione del provvedimento di allontanamento;

il ricorrente rimarca altresì di essere stato rimesso in termini per impugnare le sentenze emesse a suo carico in data 10.2.2015 e 24.3.2016, che quindi non erano definitive e non potevano pertanto fondare il provvedimento adottato;

infine, nel motivo, senza un diretto legame con la precedente argomentazione, si fa rilevare come il ricorrente fosse soggiornante da più di un decennio, sicché la competenza a pronunciare l’ordine di allontanamento era del Ministero dell’Interno e non del Prefetto;

i motivi dal secondo al quarto, data la loro connessione, possono esser esaminati congiuntamente;

oggetto del contendere è un decreto di allontanamento emesso dal Prefetto di Torino nei riguardi di cittadino Eurounitario (*****) per ragioni di pericolosità;

preliminarmente viene in evidenza la questione sulla competenza amministrativa a provvedere;

il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20 al comma 9, prevede in effetti che, rispetto ai minori (caso che qui non interessa) ed ai soggiornanti nei precedenti dieci anni nel territorio dello Stato, la competenza per l’allontanamento in forza di motivi imperativi di pubblica sicurezza sia di competenza del Ministro dell’Interno, mentre negli altri casi essa si radica in capo al Prefetto del luogo di residenza o dimora del destinatario;

deve tuttavia escludersi che la questione in esame intercetti un possibile profilo di nullità, come tale insanabile ed eventualmente, visto che nella sentenza impugnata non vi è cenno della questione, rilevabile d’ufficio;

la nullità del provvedimento amministrativo, quale certamente è l’atto con cui si dispone l’allontanamento e con il quale viene esercitato un potere autoritativo, ricorre soltanto, a parte altre ipotesi che qui non interessano, nei casi eccezionali in cui esso sia “viziato da difetto assoluto di attribuzione” (L. n. 241 del 1990, art. 21-septies), ipotesi che postula l’assenza assoluta di un potere di provvedere nel senso attuato dalla P.A. (v. ad. es Cass. 13 settembre 2006, n. 19576; Consiglio di Stato, sez. IV, 29 novembre 2018, n. 6772) o casi “in cui un atto non possa essere radicalmente emanato dall’autorità amministrativa, in quanto priva di alcun potere nel settore (Consiglio di Stato, sez. VI, 31 ottobre 2013, n. 5266)” (Cass., S.U., 23 settembre 2014, n. 19974; Cass., S.U., 28 luglio 2016, n. 15667) o addirittura di invasione rispetto ad altro potere dello Stato;

il Prefetto è una articolazione del Ministero dell’Interno ed è competente proprio in tema di allontanamento dei cittadini Eurounitari, seppure sussista riparto con il Ministro di vertice, nei termini sopra evidenziati;

si tratterebbe quindi, ammesso e non concesso che la violazione di competenza vi sia stata, di questione di incompetenza c.d. “relativa”;

d’altra parte, le impugnative in tema di protezione internazionale o diritto di soggiorno, latamente intese, non hanno per oggetto l’atto espulsivo o di allontanamento o di disconoscimento dei benefici, quanto il diritto soggettivo del richiedente o di chi si oppone all’atto espulsivo o di diniego e dunque, come si usa dire, il rapporto (tra le molte, v. Cass. 23 novembre 2020, n. 26576; Cass. 29 settembre 2020, n. 20492; Cass. 22 marzo 2017, n. 7385);

pertanto, l’ipotetica incompetenza relativa, una volta instaurato il giudizio nei riguardi dell’organo che è l’unico comunque processualmente legittimato, ovverosia il Ministero dell’Interno (Cass. 9 gennaio 2020, n. 269), resta priva di rilievo, dovendosi valutare comunque nel merito la sussistenza del diritto del ricorrente a permanere in Italia e la fondatezza o meno della contraria pretesa della P.A. convenuta al suo allontanamento;

nel merito, si rileva che il provvedimento di allontanamento risulta emesso per motivi imperativi di pubblica sicurezza, che integrano una delle ipotesi in cui tale misura può essere assunta nei riguardi di cittadino di altro stato U.E. (D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20, comma 1) e che “sussistono quando la persona da allontanare abbia tenuto comportamenti che costituiscono una minaccia concreta, effettiva e sufficientemente grave ai diritti fondamentali della persona ovvero all’incolumità pubblica” (art. 20, comma 3 D.Lgs. cit.);

rispetto a tale valutazione, lo stesso art. 20, comma 4 afferma, nella sua ultima parte, che “l’esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione di tali provvedimenti”, mentre il comma 3 espressamente afferma che “si tiene conto” di alcune condanne per reati contro la vita e l’incolumità della persona o, tra l’altro, dell’appartenenza a categorie di persone possibili destinatarie di misure di prevenzione;

il ricorrente, in particolare con il quarto motivo, assume che illegittimamente ed anche in violazione del principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. sarebbero state valorizzate in sede amministrativa e poi giudiziale alcune condanne penali (tra cui – si rileva qui – quella per atti sessuali con minorenni e quella per rapina, potenzialmente idonee ad integrare anche i requisiti di cui all’art. 20, comma 2, cit.) rispetto alle quali il processo era ancora pendente, in quanto egli era stato rimesso in termini per le relative impugnazioni;

il profilo di censura è infondato;

il provvedimento di allontanamento non è conseguenza di diritto delle condanne penali ma deriva da una concreta valutazione, caso per caso, di pericolosità;

si tratta infatti di provvedimento di natura amministrativa, sicché alla P.A. non può impedirsi di apprezzare anche l’esistenza di accertamenti penali non definitivi, sotto la propria responsabilità, nell’ambito di una valutazione di pericolosità che deve essere comunque complessivamente sorretta, in senso prognostico, da adeguato apprezzamento complessivo della situazione coinvolta;

in concreto la sentenza di appello ha sostanzialmente condiviso la decisione e quindi, per relationem, le valutazioni svolte in primo grado, ove si era ritenuto che il Prefetto avesse fornito nel proprio provvedimento tutti gli elementi indispensabili per dimostrare la sussistenza dei motivi imperativi di pubblica sicurezza di cui al D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20, comma 3;

ciò è stato fatto dalla Corte distrettuale richiamando i precedenti penali “pendenti” (riguardanti condanne impugnate per atti sessuali con minorenne, ricettazione, rapina, estorsione e minaccia) e “definitive” (riguardanti furto continuato, detenzione abusiva di munizioni, guida in stato di ebbrezza ed un altro furto in abitazione), ritenuti “non certo lievi”, richiamandosi altresì il giudizio di “elevato pericolo di recidiva” formulato, alla luce dei precedenti e dei carichi pendenti, dal Magistrato di Sorveglianza con provvedimento 12.10.2016;

il quadro si è poi ulteriormente integrato, al fine di rispondere all’assunto del ricorrente in ordine all’inattualità della sua asserita pericolosità, per avere egli reperito una stabile attività lavorativa;

in proposito sono stati valutati sfavorevolmente i documenti a tal fine prodotti, ritenuti in primo grado frutto di artificio, con apprezzamento non disatteso dalla Corte territoriale, che ha anzi concluso nel senso che il S. si fosse infine “sottratto all’onere di dimostrare di vivere nel nostro paese grazie ai proventi di un lavoro onesto”;

non può dunque affermarsi che sia stato dato rilievo di per sé al solo fatto delle condanne penali, in quanto se ne è apprezzata invece la gravità, la pluralità, in una con la valutazione di pericolosità resa in sede di esecuzione penale e con quanto ulteriormente apprezzato in sede giudiziale;

e’ dunque di tutta evidenza il ricorrere di un fondamento articolato, del tutto coerente anche con il canone di “proporzionalità” di cui del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20, comma 4, in cui le condanne non ancora in giudicato sono solo un elemento del complessivo giudizio prognostico (v., per un caso con elementi di similitudine, Cass. 17 maggio 2013, n. 12071);

dovendosi aggiungere, rispetto alle valutazioni sfavorevoli nei riguardi del ricorrente svolte (anche) dalla Corte territoriale sotto il profilo della situazione lavorativa, che, per un verso, non integra rituale motivo di ricorso la mera affermazione che di tale situazione vi sarebbe stata prova sulla base “dell’iscrizione alla Camera di Commercio e con il deposito cartaceo del F24”, trattandosi, a fronte di una esplicita motivazione in entrambi i gradi sull’inidoneità ed insufficienza delle prove addotte, della mera proposizione di una diversa lettura dell’istruttoria di merito, inammissibile in sede di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148) e per giunta sviluppata con una mera affermazione, apodittica e generica;

per altro verso e sotto il profilo giuridico, è erroneo il richiamo del ricorrente, nell’ambito del terzo motivo, al fatto che, secondo il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20, comma 4, l’allontanamento non potrebbe fondarsi su ragioni di ordine economico;

queste ultime non riguardano infatti l’apprezzamento dello svolgimento di attività lavorativa, quando essa sia, come è avvenuto in questo caso, esaminata sotto il diverso profilo della rilevanza di essa al fine di verificare l’integrazione sociale, nei termini in cui essa, come si dirà di seguito, rileva ai fini del giudizio di pericolosità;

da altro punto di vista, il ricorrente, con il secondo motivo, evidenzia come la valutazione sull’allontanamento avrebbe dovuto essere svolta tenendo conto dei suoi legami familiari, con la madre e con la compagna, richiamandosi in proposito i principi dell’art. 8 CEDU e il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20, comma 5;

l’art. 20, comma 5 è poi richiamato anche con il terzo motivo, con riferimento agli ulteriori parametri ivi indicati (stato di salute; integrazione nello Stato italiano etc.) che, a dire dello S., avrebbero dovuto essere considerati nell’adozione del provvedimento;

va in proposito intanto precisato che non appare in sé corretto il richiamo, da parte del ricorrente, nei motivi, delle norme sulla tutela contro i provvedimenti di espulsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, ove, come è noto, i legami familiari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c), rendono non espellibile lo straniero, salvo che nei casi (sensibilmente di maggiore gravità rispetto a quello dei motivi di pubblica sicurezza) previsti dall’art. 13, comma 1 stesso D.Lgs. e quindi per “motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” (Cass. 28 novembre 2018, n. 30828);

la disciplina riguardante l’allontanamento del cittadino U.E., che è in sé provvedimento diverso, anche per effetti, risale invece al D.Lgs. n. 30 del 2007 ed agli equilibri tra pericolosità ed altri elementi valutativi di cui si dirà (v. per la distinzione espressa, con riferimento al diverso presupposto – qui in evidenza – dei “motivi imperativi di pubblica sicurezza”, Cass. 12 gennaio 2018, n. 701; Cass. 7 ottobre 2011, n. 20719);

d’altra parte, è evidente la diversità di situazioni ed il ben diverso grado di gravosità che in genere deriva da una misura espulsiva verso un Paese non U.E. rispetto all’allontanamento dall’Italia di un cittadino U.E. che è destinato come tale, almeno in linea di principio, a poter essere reinserito in altro Paese dell’Unione da cui proviene e di cui è cittadino;

ciò posto, l’art. 20, comma 5, prevede in effetti che “nell’adottare un provvedimento di allontanamento, si tiene conto della durata del soggiorno in Italia dell’interessato, della sua età, della sua situazione familiare e economica, del suo stato di salute, della sua integrazione sociale e culturale nel territorio nazionale e dell’importanza dei suoi legami con il Paese di origine”;

tuttavia, dall’art. 20, comma 1 e ss. si evince che presupposto dell’allontanamento sono le situazioni di pericolosità, variamente gradate dalla norma;

il senso complessivo della disciplina e dei richiami di cui al comma 5 cit. è quello di indirizzare la valutazione di pericolosità sicuramente tale da consentire, per principio della Direttiva 2004/38/CE (art. 27) in coerenza con due commi dell’art. 8 C.E.D.U., limitazioni alla circolazione ed al soggiorno- in modo che essa non sia riconnessa solo ad alcuni dati (ad es. condanne penali), ma si articoli su vari aspetti della persona interessata che possono avere rilievo, quali elementi tali da mitigarne gli esiti in quanto espressione di una possibile integrazione nel tessuto sociale del Paese (v. sul tema, Cass. 23 settembre 2021, n. 25872, nonché Cass. 15 marzo 2017, n. 6666), eventualmente anche in ragione di particolari situazioni familiari che impongano adeguata valutazione;

la questione, così impostata, non consente l’accoglimento delle critiche mosse con il ricorso per cassazione;

già si è visto, al punto 6.1, come la pericolosità sia stata accertata sulla base di una positiva valutazione delle condotte aventi anche rilevanza penale, cui si è associata, al fine di disattendere le difese del ricorrente sull’inattualità di essa, da alcune valutazioni sfavorevoli al S. rispetto al suo inserimento lavorativo;

in tale quadro, risultando provato il fatto costitutivo del potere di allontanamento, consistente nei motivi imperativi di pubblica sicurezza, non è sufficiente a sorreggere il ricorso l’allegazione della presenza in Italia, all’epoca, della madre del ricorrente (poi deceduta) o di una compagna, alle cui dichiarazioni il motivo fa rinvio senza precisarne in alcun modo il contenuto concreto, il tutto dunque mediante deduzioni generiche che, come tali, nulla apportano ai fini del giudizio di legittimità e sono inidonee ad impedire la recessività, nel caso di specie, dei corrispondenti profili (Cass. 23 settembre 2021, n. 25872; Cass. 6666/2017 cit.);

così come non meglio argomentato è il richiamo non solo allo stato di salute, ma anche all’assenza di legami in *****, non potendo certamente tale generica affermazione manifestare l’esistenza di una conducente valutazione comparativa tra il recupero sociale nel Paese di origine piuttosto che in Italia, territorio ove comunque si è espressa in concreto la accertata pericolosità;

in definitiva, i menzionati aspetti non sono decisivi nel sovvertire l’apprezzamento dei motivi di pubblica sicurezza posto alla base della decisione di allontanamento;

il ricorso va quindi integralmente disatteso;

nulla è a disporsi sulle spese, in quanto il Ministero si è limitato alla costituzione in giudizio, senza svolgere reale attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 4 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2022

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