LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRO Massimo – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21559-2020 proposto da:
A.C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA COLA DI RIENZO 92, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA NARDONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE LA SPINA;
– ricorrente –
contro
A.D.M.L., A.D.M.E., elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE MANLIO GELSOMINI 4, presso lo studio dell’avvocato CARLO ALBERTO TROILI MOLOSSI, rappresentate e difese dall’avvocato FRANCESCO CRISI;
– controricorrenti –
contro
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI PERUGIA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 108/2020 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 04/02/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CLOTILDE PARISE.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente A.C.S. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia n. 108/2020 pubblicata il 4-2-2020 e non notificata, con cui è stata rigettata la sua domanda di revocazione, ex art. 395 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, della sentenza n. 212/2013 della Corte d’appello di Perugia-Sezione Minorenni – emessa in data 13-3-2013. Con detta ultima sentenza era stato rigettato l’appello proposto dall’odierno ricorrente ed era stata confermata la sentenza del Tribunale per i minorenni di Perugia che, accogliendo il ricorso proposto da A.D.M.L., madre di A.D.M.E., nata il 4-2-1992 e all’epoca minorenne, aveva dichiarato la paternità di A.C.S. nei confronti della suddetta minore. Resistono con controricorso A.D.M.L. e A.D.M.E..
Le parti hanno depositato memorie illustrative.
2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, sub.pecie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3. Nel prestare acquiescenza alla statuizione sull’insussistenza dei presupposti del motivo di revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, e quindi non svolgendo censure sotto tale profilo, deduce il ricorrente che il documento decisivo (esame del suo liquido seminale eseguito il 22-41985) era stato reperito dalla Dott.ssa S.O., che ne aveva dato atto nella relazione del 16-4-2019, inviata all’odierno ricorrente dal suo difensore il 29-4-2019, e rileva che, ove avesse saputo tempestivamente dell’esistenza di quel documento, lo avrebbe certamente consegnato al proprio C.T.P. del giudizio di merito. Ad avviso del ricorrente risulta, pertanto, dimostrata l’ignoranza incolpevole e la forza maggiore, atteso che anche il C.T.U. e il C.T.P. dell’odierno ricorrente, pur in grado di reperire il documento “per evitare una conclusione solo in via di supposizione indiretta” (pag.7 ricorso), non erano riusciti in concreto a reperirlo. Con il secondo motivo denuncia, sub.pecie dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e n. 3, l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti e la violazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto in ogni caso non decisivo il documento scoperto dalla predetta Dott.ssa, in contrasto con quanto accertato da quest’ultima nella sua relazione 16-42019, circa la totale e irrimediabile compromissione della capacità di generare dell’odierno ricorrente alla data del 2-4-1985. Con il terzo motivo denuncia, sub ipecie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte di merito disposto la richiesta C.T.U. genetica, necessaria per vagliare in concreto la decisività del documento reperito, ribadendo la propria volontà di sottoporsi al test genetico, ed essendo irrilevante il riferimento al giudicato precedente, formatosi in via presuntiva in ragione del suo rifiuto, in allora, di sottoporsi a quel medesimo test.
3. I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili sotto plurimi profili, poiché, come di seguito nello specifico si andrà ad illustrare, le censure sono generiche, difettano di pertinenza rispetto ai requisiti dell’impugnazione proposta (revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3 della sentenza di accertamento di paternità naturale) e non si confrontano con il decisum mediante una critica basata su argomentazioni di rilevanza rispetto al thema decidendum.
3.1. Il percorso motivazionale della sentenza impugnata si sviluppa attraverso i seguenti passaggi: a) il ricorrente non aveva fornito la prova dell’ignoranza dell’esistenza del documento non imputabile a sua colpa e dipendente da causa di forza maggiore; b) in ogni caso il documento non era decisivo; c) la richiesta di C.T.U. genetica era inaccoglibile perché non poteva essere riaperta una fase di merito chiusa da anni e sulla quale era intervenuto il giudicato.
3.2. Sul primo e dirimente passaggio argomentativo, il ricorrente si limita ad affermare che la sua incolpevole ignoranza dell’esistenza del documento sarebbe unicamente desumibile dal fatto che detto documento non era stato prodotto nei giudizi di merito, dovendosi ritenere la forza maggiore in re ipsa dimostrata in base allo stesso comportamento del ricorrente (primo motivo).
Posto che l’attore che agisce in revocazione per aver scoperto un documento decisivo ha l’onere di allegare e provare l’impossibilità di produzione del documento per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario (tra le tante Cass. 885/2018), all’evidenza la prova del fattore esterno, estraneo alla sfera cognitiva e volitiva della parte, tale da assurgere a forza maggiore causativa della mancata conoscenza dedotta, non può certamente desumersi dal comportamento processuale dell’odierno ricorrente nei precedenti giudizi di accertamento di paternità e ciò, secondo quanto è prospettato in ricorso, sulla base di un procedimento presuntivo/induttivo non meglio specificato e in ogni caso anche contraddittoriamente declinato tramite il riferimento ad una sorta di automaticità del risultato istruttorio raggiunto (in re ipsa).
A ciò si aggiunga che il documento e’, in tesi, rappresentativo di un fatto che ha coinvolto direttamente e personalmente l’odierno ricorrente, per essersi egli, per l’appunto, volontariamente sottoposto all’esame del proprio liquido seminale nel 1985, e che non sono state minimamente specificate in ricorso le circostanze di rinvenimento del documento da parte della Dott.ssa S. (consulente, per quanto è dato comprendere, incaricata dal ricorrente di ulteriori accertamenti dopo il passaggio in giudicato delle sentenze di accertamento della paternità).
3.3. Sono inammissibili sotto plurimi profili anche le censure svolte, sub ipecie dei vizi di omesso esame di fatti decisivi e di violazione di legge, in ordine alla decisività del documento, da accertarsi, ad avviso del ricorrente, integrando le risultanze del documento stesso con quanto affermato dalla Dott.ssa S. nella relazione prodotta (secondo motivo) e con un rinnovato accertamento peritale d’ufficio (terzo motivo).
Sotto un primo profilo, difetta di autosufficienza la denuncia di omesso esame di fatto decisivo (infertilità del ricorrente) nella parte in cui è richiamata la relazione della Dott.ssa S., asseritamente comprovante quel fatto, atteso che nel ricorso è riportata solo la frase finale della suddetta relazione, e non anche il ragionamento dalla stessa esplicitato per giungere alla conclusione della “totale e irrimediabile” compromissione della capacità di generare del ricorrente sin dal 1985.
Sotto altro profilo e con riguardo alla formulazione del terzo motivo, la mancata ammissione della consulenza genetica è denunciata in ricorso quale omesso esame di fatto decisivo con un percorso argomentativo non lineare e in ogni caso non rispondente al paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012. Detta norma ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico, deducibile in cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico che sia già presente nel panorama istruttorio del precedente giudizio di merito, mentre il ricorrente si duole dell’omesso esame in relazione ad un fatto storico (la propria infertilità nel 1992) che chiede accertarsi mediante l’esame genetico.
Sotto ulteriore profilo, le censure difettano di pertinenza rispetto ai requisiti dell’impugnazione proposta e non si confrontano con il decisum mediante una critica basata su argomentazioni giuridiche di rilevanza rispetto al thema decidendum. In particolare, deve premettersi che la Corte d’appello ha esaminato anche la questione della decisività del documento in questione (esame del liquido seminale del ricorrente eseguito in data 22/4/1985) e, con adeguata motivazione, incensurabile perché meritale ed inerente alla valutazione probatoria del contenuto di quel documento, ha ritenuto che non fossero dallo stesso evincibili non solo le cause concrete dell’infertilità del ricorrente, indicata solo nel grado, ma anche e soprattutto la temporaneità o definitività della stessa, rimarcando che la nascita di A.D.M.E. era avvenuta circa sette anni dopo l’esame. La Corte di merito ha inoltre esaminato, pur non essendo a ciò tenuta per quanto di seguito si dirà, le risultanze della relazione della Dott.ssa S., ritenendole prive di rilievo perché basate su concetti generali e mere presunzioni, e ha disatteso la richiesta di ammissione di C.T.U. genetica rilevando l’impossibilità di riaprire la cognizione di merito su questioni coperte dal giudicato.
Ciò posto, occorre precisare che l’indagine sulla decisività deve essere condotta sul documento scoperto, che in sé deve essere assolutamente probante e incompatibile con le prove raccolte nei precedenti giudizi e col giudizio formato in base ad esse, sicché il carattere di decisività va negato ai documenti che non forniscono prova diretta, ma solo meri elementi indiziari, dei fatti di causa (Cass. 8515/2009; Cass. 11056/2006; Cass. 13650/2004).
In altri termini e in coerenza con la ratio della fattispecie disciplinata dall’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3, nelle ipotesi ivi tassativamente previste al giudice della revocazione è consentito di valutare il fatto sulla base di un panorama istruttorio che il giudice a quo, a causa di un evento sottratto alla sfera di controllo delle parti, aveva conosciuto in modo incompleto. In detto contesto di eccezionalità, la riapertura della cognizione di merito, nonostante il passaggio in giudicato del provvedimento decisorio in tesi revocando, richiede, imprescindibilmente, la decisività della nuova prova documentale, che deve dimostrare direttamente il fatto di causa (nella specie la capacità di generare dell’odierno ricorrente funzionale all’accertamento di paternità della controricorrente A.D.M.E.), il che certamente non è nel caso scrutinato, e ciò anche per ammissione dello stesso ricorrente, il quale assume necessaria la C.T.U. genetica per vagliare la decisività del documento reperito (pag. 11 ricorso). Il richiamo al giudicato effettuato nella sentenza impugnata, pertanto, non è inconferente, contrariamente a quanto si assume in ricorso, poiché è riferito alla chiara e netta configurazione dell’impugnazione per revocazione dipendente dalla ratio di cui si è detto.
Alla stregua delle suesposte considerazioni, neppure alcuna delle doglianze sulla decisività del documento coglie nel segno e ha attinenza al thema decidendum nel senso precisato, sollecitando, invece e in buona sostanza, il ricorrente la riapertura del giudizio di cognizione in totale assenza dei requisiti del motivo di revocazione di cui trattasi.
4. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
5. Ritiene inoltre il Collegio che la condotta processuale del ricorrente nel presente giudizio sia oggettivamente valutabile alla stregua di “‘abuso del processo”.
5.1. La condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, che è applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, si configura, secondo il più recente indirizzo di questa Corte al quale il Collegio intende dare continuità, come una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, (da ultimo Cass. S.U. 25041/2021; Cass. 3830/2021; Cass. 20018/2020), e ciò in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo, sia alla evoluzione della fattispecie dei “danni punitivi” che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento (cfr. Cass. S.U. 16601/2017, in particolare quanto all’inserimento della fattispecie legale di cui trattasi nell’elenco di quelle con funzioni di deterrenza rinvenibili nel nostro ordinamento).
5.2. Nella specie, come emerso nei precedenti paragrafi, il ricorso per cassazione è basato su motivi palesemente inammissibili sotto i plurimi profili illustrati, perché incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, e/o privi di autosufficienza, e/o contenenti una complessiva richiesta di mera riapertura del giudizio di merito in totale assenza dei presupposti richiesti dall’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3.
Detti motivi di impugnazione, poiché si connotano oggettivamente come degatifatori e dilatori, e non già finalizzati alla tutela dei diritti e alla risposta ad istanza di giustizia, hanno determinato un concreto sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali e un’ingiustificata dilatazione-accrescimento dell’ordinario, per quanto anche infondato, contenzioso posto ad ostacolo della ragionevole durata del presente giudizio.
Ritiene questa Corte di dovere, infatti, ribadire la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario, come mezzo dissuasivo, al fine di evitare la palese dispersione delle scarse risorse poste al servizio della giurisdizione (cfr. Cass. S.U.12310/2015 in motivazione) e consentirne l’accesso ai soggetti bisognosi di ricevere una risposta giustiziale.
Deve, pertanto, concludersi per la condanna del ricorrente, d’ufficio, al pagamento in favore delle controparti, in aggiunta alle spese di lite, di una ulteriore somma, equitativamente determinata in Euro8.000,00, proporzionata (cfr. Cass. SU 16601/2017 sopra richiamata) al valore medio dei compensi da liquidare per il presente giudizio.
6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020). Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro8.100,00 di cui Euro100,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15%) ed accessori, come per legge.
Condanna il ricorrente al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, in favore delle controricorrenti, che liquida in Euro 8.000,00. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022