LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25590/2017 proposto da:
Fustellificio P.M. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, nonché personalmente dei soci P.F., e Pu.Ma., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dagli avvocati Cimini Letizia, Ferrari Giuseppe, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
M.M., in proprio e quale legale rappresentante dell’Immobiliare M. di M. M&C S.n.c., elettivamente domiciliati in Roma, Piazza di Villa Carpegna n. 43, press lo studio dell’avvocato Gregroris Marco, rappresentato e difeso dall’avvocato Formica Domenico, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 944/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, pubblicata il 15/06/2017.
FATTI DI CAUSA
I coniugi Pu.Ma. e P.F., da un lato, e i coniugi M.M. e E.A., dall’altro, detenevano il 100% del capitale (25% per ciascun socio) della “s.r.l. Fustellificio P.M.”, società che produce “fustelle” per calzature, e della “Fustellificio PM di M., Pu. & C. s.n.c.”, che svolgeva attività immobiliare.
Avendo i soci maturato l’intenzione di sciogliere i rispettivi vincoli societari, in vista del trasferimento delle quote, hanno stipulato nell’agosto 2003 una scrittura privata, denominata “scrittura privata contratto preliminare di cessione di quote sociali” con cui i coniugi M. – E. si impegnavano ad acquisire l’intero capitale sociale della “Fustellicifio PM di M., Pu. & C s.n.c.” e correlativamente a cedere le loro quote della “s.r.l. Fustellificio P.M.” ai coniugi Pu. – P., i quali si impegnavano a versare ai primi, a conguaglio dell’intera operazione, la somma di Euro 460.000,00.
La scrittura privata prevedeva, altresì, tra i vari punti:
– il n. 5, secondo cui i coniugi M. – E., entro 10 giorni dall’atto notarile di cessione di quote, si impegnavano a ridenominare la propria società (quella immobiliare) affinché non nascessero equivoci circa l’entità della produzione delle fustelle: “oltre a ciò tutti i componenti – sia attuali che futuri – della compagine sociale della Società Immobiliare da ridenominarsi, si impegnavano a non svolgere attività concorrenziale – sia in maniera diretta che indiretta – che concerna esclusivamente la sola produzione di fustelle. Tale patto di non concorrenza viene assunto sino alla fine del primo anno dalla stipula della cessione di quote;
– il n. 6 secondo cui “le parti, nell’accettare in toto quanto sopra definito” stabilivano “di quantificare in Euro 200.000,00 la penale che la parte inadempiente anche ad un solo punto sopra definito riconoscerà all’altra, fatto salvo il diritto per la parte lesa di richiedere all’altra il risarcimento del maggior danno subito”. I coniugi P. – Pu., quest’ultimo anche nella veste di legale rappresentante della Fustellificio PM s.r.l., hanno quindi convenuto in giudizio M.M., in proprio e quale legale rappresentante della “Immobiliare M. di M. M. & C. s.n.c.” per far accertare la violazione da parte dei convenuti del patto di non concorrenza convenuto con la predetta scrittura privata e per sentirli condannare “al pagamento della penale di Euro 200.000,00, così come stabilita nel contratto preliminare di cessione di quote sociali”.
Il Tribunale di Macerata ha accolto la domanda degli attori.
La Corte d’Appello di Ancona, in accoglimento dell’appello proposto da M.M., in proprio e quale legale rappresentante della “Immobiliare M. di M. M. & C. s.n.c.”, e in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da Fustellificio P.M. s.r.l., Pu.Ma. e P.F., disponendo la restituzione delle somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado.
La Corte d’Appello ha ritenuto che la mancata riproduzione nel contratto definitivo del 18.09.2003 del patto di non concorrenza, contenuto nel contratto preliminare di cessione quote sociali del 7.08.2003, non consente di affermarne la sopravvivenza e l’autonomia, non essendo emersi, nel caso concreto, elementi tali da dimostrare che l’omessa riproduzione non esprimesse una rinuncia alla pattuizione contenuta nel contratto preliminare.
In particolare, il giudice di primo grado non aveva spiegato per quale motivo tale clausola – che era evidentemente accessoria alla cessione di quote sociali assumesse natura di pattuizione autonoma svincolata dal preliminare, tanto da non esservi bisogno di trasfonderla nel contratto definitivo. Ne’ era dato individuare altre clausole del contratto preliminare che non fossero state trasfuse nel definitivo, atteso che, con riguardo ad altri impegni assunti dalle parti con il preliminare, la modifica della ragione sociale della PM s.n.c. era stata trasfusa nel definitivo, e la stipula del contratto di locazione commerciale di beni mobili era stata effettuata con atto del 15.9.2003 prima del definitivo. Quanto poi all’impegno alla risoluzione anticipata del contratto di locazione commerciale dell’immobile di proprietà della PM s.n.c. condotto in locazione dalla PM s.r.l., esso integrava una autonoma pattuizione preliminare, analiticamente disciplinata, cui era stata data esecuzione con il nuovo contratto del 1.10.2003. Il giudice di secondo grado ha ritenuto inoltre che, anche ammettendo la validità del patto di non concorrenza contenuto nel preliminare, tale patto riguardava esclusivamente la produzione di fustelle, rimanendovi esclusa l’attività di commercializzazione.
Infine, la Corte d’Appello ha escluso la configurabilità, nel caso di specie, della fattispecie di cui all’art. 2557 c.c., non essendosi in presenza di cessione di azienda né, vertendosi in fattispecie di cessione di quote sociali, di situazione che concreti un caso simile alla alienazione d’azienda specificamente prevista dalla norma, ossia che produca sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nella conduzione della azienda: nella specie infatti i coniugi M. – E. erano già titolari del 25% ciascuno delle quote della Fustellicificio PM s.n.c. che svolgeva attività immobiliare.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Fustellificio P.M. s.r.l., Pu.Ma. e P.F. affidandolo a cinque motivi.
M.M., in proprio e quale legale rappresentante della “Immobiliare M. di M. M. & C. s.n.c.” ha resistito in giudizio con controricorso.
La parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione/falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366 e 1382 c.c., nonché l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’avvenuto pagamento del prezzo indicato nella scrittura dell’agosto 2003 nonché della riferibilità della clausola penale e del patto di non concorrenza a tutti gli obblighi assunti dalle parti con l’accordo quadro.
Espongono i ricorrenti che il giudice d’appello, con violazione delle regole ermeneutiche poste dagli artt. 1362 e 1363 c.c., ha omesso di considerare che la penale pattuita nella scrittura privata non riguardava solo la violazione del patto di non concorrenza, ma anche degli altri obblighi rispettivamente assunti nell’accordo-quadro.
Il giudice di secondo grado ha erroneamente isolato la clausola penale e il patto di non concorrenza, relegandoli a meri accessori del negozio di cessione di quote. La scrittura privata non aveva la natura di semplice contratto preliminare di cessione di quote sociali, tanto è vero che il rogito con cui le stesse furono trasferite non aveva esaurito gli impegni e gli obblighi assunti dalle parti, non facendo quindi venire meno l’interesse delle stesse al mantenimento della clausola penale.
Tenuto conto del tenore letterale degli atti negoziali e, specificamente, del fatto che la scrittura privata disciplinava distinti negozi giuridici tra loro funzionalmente connessi, e valutati i comportamenti oggettivi posti in essere dalle parti, la ricostruzione dell’inquadramento giuridico della fattispecie è stato operato dalla Corte d’Appello in violazione dei precetti ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c., commi 1 e 2 e art. 1363 c.c., stante il non corretto esame letterale della scrittura privata dell’agosto 2003 e del comportamento oggettivo delle parti contraenti.
2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 1362,1363,1382 c.c., in relazione alla ritenuta accessorietà della clausola di non concorrenza al contratto definitivo di trasferimento di quote. Si espone che il collegamento della clausola penale prevista nella scrittura privata al puntuale adempimento dei distinti obblighi assunti impone di valutarne l’efficacia indipendentemente dalla sua mancata trasposizione nel contratto definitivo; e che, conseguentemente, anche il patto di non concorrenza previsto nella stessa scrittura deve ritenersi parimenti efficace anche se non riprodotto nel definitivo.
3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 2470 c.c., in relazione alla necessità di riprodurre il patto di non concorrenza e la clausola penale nell’atto di trasferimento delle quote sociali. Espongono i ricorrenti che per la validità ed efficacia tra le parti della cessione di quote sociali non è richiesta la forma scritta, né tantomeno l’atto pubblico, ad substantiam o ad probationem, con la conseguenza che la prova dell’accordo tra le parti può essere data con qualunque mezzo istruttorio, anche indiziario. Erroneamente la Corte d’Appello ha assimilato la cessione di quote sociali alla compravendita immobiliare, così violando l’art. 2470 c.c..
4. I primi tre motivi, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, presentano profili di infondatezza e di inammissibilità.
Va osservato che questa Corte (Cass. n. 22984/2014) ha già enunciato il principio secondo cui l’omessa riproduzione, nel contratto definitivo di cessione di quote sociali, di una clausola già inserita nel preliminare non comporta, necessariamente, la rinunzia alla pattuizione ivi contenuta, che non resta assorbita ove sussistano elementi in senso contrario ricavabili dagli atti ovvero offerti dalle parti. Ne consegue che il giudice è tenuto ad indagare sulla concreta intenzione delle parti, tanto più che il negozio di cessione richiede la forma scritta solo al fine dell’opponibilità del trasferimento delle quote alla società e non per la validità o la prova dell’accordo, per cui occorre verificare se, con la nuova scrittura, le parti si siano limitate, o meno, solo a “formalizzare” la cessione nei confronti della società, senza riprodurre tutti gli impegni.
La Corte d’Appello, nel richiamare espressamente il principio sopra enunciato, ne ha fatto retta applicazione, non limitandosi ad affermare tout court il principio secondo cui l’omessa riproduzione, nel contratto definitivo di cessione di quote sociali, di una clausola già inserita nel preliminare comporta la rinunzia alla pattuizione ivi contenuta, ma si è interrogata, addivenendo ad una soluzione negativa, se, nel caso concreto, risultassero elementi tali da dimostrare la volontà delle parti di non rinunciare al patto di non concorrenza. A tal fine, la Corte d’Appello ha indagato la concreta intenzione delle parti, anche alla luce del comportamento delle medesime successivo alla stipula della scrittura privata.
In particolare, dopo aver accertato che la scrittura privata dell’agosto 2003 aveva la natura di contratto preliminare non solo con riferimento alla cessione delle quote ma anche in relazione agli altri obblighi che le parti avevano assunto, ha osservato che i suddetti obblighi erano, in parte, stati trasfusi nell’atto definitivo, ed altri erano stati adempiuti con atti separati rispetto al rogito di cessione di quote. Ne conseguiva che l’unica pattuizione non riprodotta nel definitivo era quella relativa al patto di non concorrenza, alla quale doveva attribuirsi natura evidentemente accessoria alla cessione di quote sociali.
I ricorrenti, con l’apparente doglianza relativa alla violazione delle norme di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362,1363 e 1366 c.c., in riferimento al contenuto letterale della scrittura privata in oggetto ed al comportamento delle parti, hanno, in realtà, richiesto una interpretazione alternativa della scrittura, non consentita in sede di legittimità.
In proposito, va osservato che è orientamento consolidato di questa Corte (vedi ex plurimis Cass. n. 10554/2010) che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'”iter” logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto, onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno lamentato solo apoditticamente la violazione delle norme di interpretazione contrattuale del contratto di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., senza, infatti, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice d’appello se ne sarebbe discostato e non cogliendo neppure in modo corretto la ratio decidendi.
In particolare, i ricorrenti non hanno avuto cura di indicare in che termini l’interpretazione della scrittura fornita dal giudice d’appello contrasti con il tenore letterale della scrittura medesima o con la condotta delle parti successiva alla sua stipula, concentrando gran parte dell’illustrazione del primo motivo sull’asserito mancato riconoscimento da parte della Corte di merito dell’autonoma natura della clausola penale pattuita nella scrittura dell’agosto 2003, anche se non riprodotta nei contratti definitivi, circostanza che non risulta, tuttavia, mai messa in discussione dalla Corte d’Appello.
Sul punto, i ricorrenti non hanno colto la ratio decidendi, atteso che la Corte non ha negato autonoma natura (e sua sopravvivenza rispetto al definitivo) alla clausola penale, ma al patto di non concorrenza – non a caso l’affermazione di accessorietà alla cessione delle quote sociali è circoscritta solo a tale patto (vedi pag. 12 sentenza impugnata) – contestando che dalla violazione di tale patto, se non riprodotto nel contratto definitivo, derivasse l’applicazione della penale. I ricorrenti hanno, invece, posto ingiustificatamente in stretta correlazione la clausola penale con il patto di non concorrenza, pervenendo inopinatamente ad affermare che l’autonoma efficacia della clausola, indipendentemente dalla sua riproduzione nel contratto definitivo, comportasse “conseguentemente” l’autonoma efficacia del patto di non concorrenza.
I ricorrenti dunque, nel legare le sorti della clausola penale al patto di non concorrenza, hanno compiuto un evidente salto logico, non considerando che la clausola penale era stata pattuita dalle parti nella scrittura privata di cui è causa come sanzione nel caso di inadempimento delle parti agli obblighi assunti nella scrittura privata dell’agosto 2003, consistenti nell’impegno ad una futura manifestazione di consenso negoziale (che doveva avere ad oggetto non solo la cessione delle quote sociali, ma anche la stipula di un contratto di locazione commerciale di beni mobili e lo scioglimento anticipato di un contratto di locazione commerciale di un immobile già condotto dalla Fustellificio PM s.r.l.). Il patto di non concorrenza rientrava, invece, nel contenuto di una sola delle varie manifestazioni di consenso negoziale che le parti si erano impegnate a prestare, contenuto che poteva essere legittimamente modificato in sede di definitivo, salvo che non risultasse una volontà contraria delle parti di far sopravvivere alcune clausole inserite nel preliminare. Priva di giustificazione apprezzabile è quindi l’affermazione contenuta nel ricorso (pag. 11) secondo cui il patto di non concorrenza doveva ritenersi funzionalmente connesso non solo alla cessione delle quote sociali, ma anche a tutti gli altri patti della scrittura privata “tra cui principalmente quello relativo al prezzo effettivamente corrisposto per il trasferimento delle quote”. In particolare, tale affermazione non è stata accompagnata né dall’esame letterale del testo della scrittura privata, né dalla valutazione della condotta delle parti successiva alla pattuizione della scrittura privata.
Infine, priva di fondamento è la denuncia di omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento all’omessa valutazione della circostanza che il prezzo delle cessioni delle quote sociali avrebbe superato di circa Euro 200.000,00 il prezzo indicato nel rogito, giacché tale circostanza non appare assumere rilevanza decisiva ai fini dell’interpretazione del contratto.
Altrettanto vale per la circostanza – non risultante peraltro, neppure dal ricorso, essere stata oggetto di discussione tra le parti nel giudizio di merito – che il prezzo pattuito per la cessione di quote, pari ad Euro 460.000,00, corrispondesse asseritamente all’intero patrimonio aziendale.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 2470 c.c., anche su tale punto i ricorrenti non hanno colto la ratio decidendi, non avendo la Corte d’Appello fatto alcun riferimento alla mancanza di forma scritta della volontà delle parti del negozio traslativo che fosse richiesta dalla legge ad substantiam o ad probationem, bensì semplicemente rilevato che non erano emersi elementi tali da dimostrare che l’omessa riproduzione nel contratto definitivo del patto di non concorrenza non esprimesse rinuncia a tale pattuizione.
5. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 1, artt. 1363 e 1369 c.c., in relazione all’esame letterale della clausola di non concorrenza.
Lamentano i ricorrenti che la Corte d’Appello è incorsa in errore interpretativo nel ritenere che fosse vietata esclusivamente la produzione delle fustelle e che il patto di non concorrenza non riguardasse l’attività di commercializzazione di tali beni.
6. Con il quinto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 1, artt. 1363 e 1369 c.c., in relazione al concreto oggetto del divieto previsto dalla clausola di non concorrenza, nonché l’omesso esame della concreta natura e qualità delle fustelle prodotte dal Fustellificio P.M..
7. Il quarto ed il quinto motivo, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, afferenti l’oggetto del patto di non concorrenza, sono assorbiti nella ritenuta infondatezza e/o inammissibilità dei primi tre, diretti a censurare la stessa vigenza del patto stesso tra le parti.
8. Con il sesto motivo è censurato, perché in violazione/falsa applicazione dell’art. 2557 c.c., il diniego di applicazione nella specie del divieto di concorrenza previsto da tale norma.
Espongono i ricorrenti che la verifica della sostituzione nella conduzione della società le cui quote sono state trasferite avrebbe dovuto essere effettuata con riferimento al Fustellificio PM s.r.l., e non – come invece si esprime la sentenza impugnata – nell’ambito della Fustellificio PM s.n.c..
9. Il motivo è infondato, anche se la motivazione deve essere corretta a norma dell’art. 384 c.p.c., u.c..
La Corte di Appello, nell’affrontare la questione se la cessione delle quote sociali di cui è causa ricadesse o meno nel divieto di concorrenza previsto dall’art. 2557 c.c., per la cessione d’azienda, ha rettamente richiamato l’orientamento di questa Corte (vedi Cass. 549/1997) che parifica all’alienazione dell’azienda, specificamente prevista dalla norma, la cessione di quote sociali quando essa produca sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda sociale. Tale orientamento merita condivisione, in quanto la estensione della previsione normativa relativa al presupposto di applicazione del divieto – la alienazione della azienda – deve basarsi su una fattispecie che, pur tenendo conto delle peculiarità dell’istituto societario, abbia della alienazione della azienda sociale i caratteri sostanziali.
Vero è che il giudice di secondo grado, nell’addivenire alla conclusione negativa, è incorso nell’errore di prendere in considerazione, al fine di valutare l’avvenuta sostituzione nei termini sopra descritti, non già l’azienda della società dei ricorrenti che, nella loro prospettazione, avrebbe subito la illecita attività concorrenziale, bensì quella della società che la avrebbe posta in essere.
Ma tale errore di impostazione della questione non è comunque decisivo ai fini della conformità a diritto della statuizione impugnata, che ha rettamente escluso che nella specie si sia realizzata quella sostituzione di soggetti nella azienda cui possa conseguire l’applicazione del divieto legale di concorrenza.
Tale sostituzione, infatti, va esclusa negli stessi termini espressi dalla Corte di merito anche in relazione alla cessione delle quote di partecipazione al capitale della Fustellificio P.M. s.r.l., società che avrebbe subito l’attività di concorrenza sleale, essendo incontestato che, prima della cessione, Pu.Ma. e M.M. condividevano con pari incidenza (insieme con le coniugi) la titolarità del capitale sociale di tale società, ed anche – come lo stesso ricorso evidenzia a pag. 24 – la gestione della stessa. Sicché rettamente è stato escluso che la cessione delle quote sociali abbia comportato nella specie quella sostituzione nella azienda equiparabile alla alienazione della stessa, ai fini della applicazione del divieto di cui all’art. 2557 c.c..
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al rimborso in favore dei controricorrenti delle spese di questo giudizio, in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022
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