LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21410/2020 proposto da:
O.P., elettivamente domiciliata in Piacenza viale Abbadia 8, preso lo studio dell’avv. Anna Maria Galimberti, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 186/2020 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 13/01/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/11/2021 dal Consigliere Dott. Rita RUSSO.
RILEVATO
Che:
La ricorrente, cittadina nigeriana, ha chiesto la protezione internazionale dichiarando: di avere contratto un “matrimonio tradizionale” nel suo paese, dove aveva anche subito un tentativo di mutilazione genitale; essersi separata dal marito che aveva avuto un figlio con una nuova compagna e di avere cercato un lavoro per mantenersi; dopo varie esperienze lavorative lasciava il paese per la Libia, dove veniva rapita e costretta a prostituirsi; veniva quindi aiutata da un amico per uscire dal meretricio e aiutata a scappare e a imbarcarsi per l’Italia; che in caso di rimpatrio non avrebbe problemi di sicurezza e che non le può succedere niente perché non ha offeso nessuno.
La domanda è stata respinta dalla competente Commissione territoriale e dal Tribunale di Bologna. La richiedente ha presentato appello che è stato respinto dalla Corte bolognese, sul rilievo che il racconto della ricorrente è molto contraddittorio con riguardo alle vicende del suo “matrimonio tradizionale” e al tentativo di mutilazione genitale non andato in porto, così come sono contraddittorie e incomplete le riferite vicende relative al compagno che si trova in Italia, e su come ella sia riuscita ad affrancarsi dall’altrui sfruttamento. Esclude quindi la protezione internazionale per difetto di credibilità, escludendo altresì la condizione di violenza indiscriminata in Edo State. Sulla domanda di protezione umanitaria evidenzia la non credibilità del racconto sulle ragioni della fuga; rileva inoltre che la richiedente non ha allegato particolari problemi di salute e non può considerarsi integrata in Italia dal punto di vista lavorativo sociale o familiare, non indicando una propria vulnerabilità soggettiva; rileva infine che non vi è prova che dal viaggio affrontato e dalle vicende libiche permangano conseguenze valutabili anche all’attualità.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione e la richiedente asilo affidandosi a tre motivi. L’Avvocatura dello Stato, non tempestivamente costituita, ha presentato istanza per la partecipazione ad eventuale discussione orale. La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 4 novembre 2021.
RITENUTO
Che:
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per non avere il Tribunale applicato il principio dell’onere della prova attenuato e per non avere valutato la credibilità alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. La ricorrente deduce che la mancanza di credibilità può essere stabilita solo attraverso il motivato esame della griglia dei criteri indicati dalla norma; non è sufficiente la mera asserzione di non veridicità delle dichiarazioni ma è necessario espletare la cooperazione istruttoria compiendo l’esame in maniera unitaria; la mancanza di credibilità soggettiva non può fondarsi sulla carenza di riscontri oggettivi relativi al contesto socio politico del paese di origine; evidenzia che né la Commissione né il Collegio hanno approfondito gli aspetti del vissuto della ricorrente mentre la richiedente ha fatto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, allegando informazioni (COI) sulla violenza domestica, sui matrimoni forzati, sulla piaga della tratta in schiavitù e il manuale per la identificazione delle vittime di tratta.
Con il secondo motivo del ricorso si lamenta si sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, deducendo che tra gli atti di persecuzione devono ricomprendersi le ingerenze nella vita privata e familiare nonché gli abusi legati al genere, come la tratta di persone finalizzata alla prostituzione o allo sfruttamento. Deduce che la ricorrente ha già subito atti persecutori consistiti nel reclutamento ingannevole per costringerla alla persecuzione e che potrebbe subirne di ulteriori, avendo pertanto diritto al riconoscimento dello status di rifugiato.
I primi due motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono inammissibili.
La Corte ha fondato la propria valutazione di inattendibilità del racconto sui criteri legali di verifica della coerenza intrinseca, rilevando una serie di elementi di contraddittorietà nel narrato nonché di contraddittorietà tra quanto dichiarato innanzi alla Commissione e quanto dichiarato innanzi al Tribunale, nonché la tardività di talune allegazioni. Così facendo il giudice del merito ha utilizzato la griglia dei criteri dati del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, e si è attenuto al principio, più volte affermato da questa Corte, secondo il quale una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca (Cass. n. 24575/2020; Cass. 6738/2021). Verificato il rispetto dei criteri procedimentali di cui all’art. 3 cit., la valutazione resa costituisce un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 14674/2020), tantomeno con la generica e apodittica affermazione di avere fatto ogni sforzo per circostanziare la propria domanda.
Con i primi due motivi non si propone alcuna censura specifica avverso le statuizioni in punto di non credibilità; essi consistono in una generica ricognizione normativa e giurisprudenziale, nonché sulla illustrazione di diversi report SU alcune criticità del paese di origine, quali i matrimoni forzati, la tratta in schiavitù e la violenza domestica, ma senza specificamente collegarli alla vicenda individuale e senza confrontarsi con le motivazioni in concreto rese dalla Corte. Allo stesso modo, la deduzione che la tratta di persone finalizzata alla prostituzione forzata costituisce un atto persecutorio, in quanto legato all’appartenenza al genere femminile, resta una affermazione generica laddove la narrazione al riguardo della richiedente asilo sia ritenuta non veritiera e detto giudizio non sia stato adeguatamente censurato.
I mezzi risultano così proposti in violazione del precetto di cui all’art. 366 c.p.c., che disegna il ricorso per cassazione come un mezzo a critica vincolata, da esplicitare tramite motivi che soddisfino requisiti di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, la cui mancanza ne comporta l’inammissibilità (Cass. 17125/2007; Cass. 15517/2020).
2.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), in relazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. Al punto 3) rubricato sotto lo stesso motivo, la parte lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Il motivo di ricorso è suddiviso in due parti: nella prima parte si lamenta che non sia stata riconosciuta la protezione sussidiaria in quanto la ricorrente potrebbe essere oggetto di ritorsioni o di possibili nuove esperienze di tratta se fosse rinviata nel territorio del quale è fuggita; si illustra inoltre la possibilità che la ricorrente possa subire un danno grave stante la violenza indiscriminata e la limitazione dei diritti fondamentali dell’individuo che connotano la Nigeria, richiamando la crisi che riguarda il nord est del paese e diverse criticità quali omicidi, arresti e detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate e violenze sessuali. Con riferimento alla protezione umanitaria si deduce che la ricorrente presenta profili di vulnerabilità che giustificano il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie e necessita di un lungo periodo di permanenza nel nostro paese, per elaborare le vicende traumatiche vissute. La parte deduce inoltre che la prova che le sue condizioni di vita nel paese di origine siano del tutto inadeguate è in re ipsa, nella decisione di percorrere un viaggio così lungo, incerto e rischioso.
Il motivo è inammissibile sotto entrambi i profili, in quanto non solo non si confronta con le argomentazioni spese dalla Corte in punto di credibilità, ma prospetta anche una definizione di violenza indiscriminata non pertinente a quella descritta del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), e propone un criterio di accertamento dei presupposti per la protezione umanitaria del tutto incongruente con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e la sua interpretazione, datane dalla giurisprudenza di legittimità.
Per quanto riguarda il rischio che la richiedente sia nuovamente esposta a tratta o violenze di genere si è detto nell’esame dei motivi che precedono. Per quanto riguarda il rischio di cui all’art. 14, lett. c) cit., le informazioni riportate dalla parte in ricorso non sono pertinenti, laddove per un verso riguardano il nord est del paese e non lo Stato di provenienza della ricorrente, per altro verso riguardano criticità quale il livello di istruzione della popolazione, le esigenze alimentari, le violazioni del diritto a un giusto processo, che costituiscono cosa ben diversa dal rischio di violenza indiscriminata da conflitto.
Ai fini della protezione internazionale il conflitto rileva se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Secondo questo indirizzo ormai consolidato, il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 13858/2018, Cass. n. 11103/2019). La violenza indiscriminata derivante da conflitto è dunque cosa ben diversa dalle limitazioni delle libertà individuali, dalle discriminazioni di genere, dalle tensioni sociali ed economiche, dalla povertà. Queste criticità potrebbero avere rilievo ai fini della protezione internazionale ove pertinenti ad un rischio individuale specifico, che tuttavia nel caso di specie è da escludersi, per difetto di allegazione di una vicenda individuale attendibile e circostanziata.
Infine, sulla protezione umanitaria, la parte si limita alla apodittica affermazione della sussistenza di una condizione di vulnerabilità senza prendere posizione sulle ragioni per le quali la Corte l’ha esclusa. Inoltre le argomentazioni della ricorrente sono prive di fondamento, laddove si deduce che la prova dell’inadeguatezza delle condizioni di vita nel paese di origine sarebbe in re ipsa, data dal fatto stesso che diversamente non si giustificherebbe la scelta di affrontare un viaggio incerto e rischioso.
E’ questa una inaccettabile ricostruzione dei presupposti della protezione invocata, che non trova riscontro nel dato normativo né nella lettura giurisprudenziale, in quanto legata non già a dati obiettivamente rilevabili, bensì a soggettive valutazioni – destinate a restare in interiore homine e quindi irrilevanti per il diritto – sulla convenienza della scelta di migrare, variabile da persona a persona, e sulla forza delle motivazioni personali. Costituisce peraltro una apodittica e generica affermazione quella della pregressa consapevolezza in ciascun migrante della pericolosità e traumaticità del viaggio: non è detto che i promotori e gli organizzatori di migrazioni irregolari preavvertano i loro “clienti” di quello che li aspetta, anzi a rigor di logica, per invogliare all’acquisto del viaggio dovrebbero piuttosto fare il contrario. Ciò significa che valutare la gravità delle condizioni di vita che il migrante lascia dietro di sé solo in base alla circostanza che abbia scelto di fare il viaggio significa muoversi sul terreno delle impressioni e delle (più o meno ragionate) convinzioni soggettive, vale a dire nell’ambito del giuridicamente irrilevante.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Nulla sulle spese in difetto di tempestiva costituzione della parte intimata.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022