LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23297/2020 proposto da:
J.G., elettivamente domiciliata in Lamezia Terme via G. Da Fiore 73, presso lo studio dell’avv. Francesco Giampà, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2362/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 26/09/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/11/2021 dal Consigliere Dott. Rita RUSSO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO.
RILEVATO
Che:
La ricorrente, cittadina nigeriana, ha presentato domanda di protezione internazionale dichiarando: che la madre sin dalla tenera età l’aveva affidata alla proprietaria di un ristorante che le faceva svolgere lavori domestici in casa e presso il ristorante, con un ritmo lavorativo molto pesante; che la datrice di lavoro successivamente l’aveva affidata ad un uomo, cliente abituale del ristorante, che avrebbe dovuto portarla in un altro ristorante per svolgere le mansioni di cuoca; che tuttavia durante il viaggio ella si rendeva conto che la destinazione era la Libia e che l’uomo cui era stata affidata aveva pagato la sua datrice di lavoro per comprarla; che ella non poteva ribellarsi al suo aguzzino perché la percuoteva e minacciava di fare del male ai suoi figli, rimasti presso la sua ex datrice di lavoro; che veniva quindi portata in Libia e nel corso del viaggio era stata violentata; che, una volta in Libia, il suo aguzzino la obbligava a prostituirsi incassando tutto il guadagno e in seguito l’aveva inviata in Italia, dandole un numero di telefono che avrebbe dovuto chiamare al momento dello sbarco per rientrare nuovamente in una rete di prostituzione; che ella sarebbe stata libera solo dopo avere pagato la somma di 5 milioni di naira, diversamente sarebbero stati uccisi i suoi figli.
La competente Commissione territoriale ha respinto la richiesta e così anche il Tribunale di Catanzaro.
La richiedente ha proposto appello, che la Corte di Catanzaro ha respinto sul rilievo che non è plausibile che la donna fosse partita sulla semplice affermazione che sarebbe andata a lavorare in un altro ristorante, lasciando i suoi figli presso la ex datrice di lavoro; che non è credibile che la richiedente non sia riuscita a mettersi in contatto con i figli; che gli accadimenti culminati nella partenza verso l’Italia sono descritti in termini approssimativi e confusi se non contraddittori e in particolare sulla circostanza che l’uomo che l’avrebbe costretta alla prostituzione l’abbia aiutata a partire per l’Italia, dove ne avrebbe perduto le tracce e il controllo. Rileva ancora la Corte che, in ogni caso, anche ad ammettere la credibilità del racconto si tratterebbe di una “induzione decettiva prima e costrittiva dopo alla prostituzione” e che pertanto è palese come “una simile ragione sia radicalmente estranea alla persecuzione pure intesa nella sua massima ampiezza possibile”.
La Corte ha escluso altresì la sussistenza del rischio da violenza indiscriminata derivante da conflitto di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ed ha escluso, infine, la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria, in mancanza di prova di svolgimento di un rapporto di lavoro e non avendo ella, nel riferire il motivo che l’ha spinta a lasciare il paese, fatto alcun accenno a “situazione di indigenza, di inaccessibilità a beni e servizi primari o di lesioni della dignità personale”.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la richiedente asilo affidandosi a sei motivi.
L’Avvocatura dello Stato, non tempestivamente costituita, ha presentato istanza per la partecipazione ad eventuale discussione orale. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta chiedendo l’accoglimento del ricorso.
La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 4 novembre 2021.
RITENUTO
Che:
1.- Con il primo motivo del ricorso la parte lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 18. La ricorrente deduce che già nel ricorso di primo grado aveva invocato il diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per protezione come vittima di tratta, allegando una relazione della rete antitratta, e su questo punto il giudice di primo grado non si era pronunciato; che con l’impugnazione aveva proposto al riguardo specifico motivo di appello sul quale la Corte ha omesso totalmente di pronunciarsi, omettendo altresì di valutare l’allegato documento proveniente dall’ente antitratta ove, analizzata la storia, si conclude nel senso che la ricorrente possa essere considerata vittima di tratta ai fini della prostituzione. In tal modo non è stato accertato il diritto della ricorrente ottenere il permesso di soggiorno ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 18.
Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha respinto per intero la richiesta della ricorrente, fondandosi sul presupposto che la storia narrata non è plausibile e che, in ogni caso, l’essere avviati alla prostituzione dapprima con l’inganno e poi con violenza non costituisca vicenda idonea ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale. Rinviando al prosieguo l’analisi della correttezza di dette argomentazioni, deve qui rilevarsi che con questa decisione la Corte ha implicitamente respinto anche il motivo di appello relativo al permesso di soggiorno di cui all’art. 18 cit.. Non può dirsi quindi che la Corte non si sia pronunciata sul punto e, quanto al permesso di soggiorno ex art. 18 cit., i presupposti per il suo riconoscimento – come appresso si dirà – sono diversi rispetto a quelli della invocata protezione internazionale, il cui scrutino è prioritario.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e segnatamente del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c.; si lamenta altresì la omessa considerazione di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. La parte osserva che il giudice d’appello si è fondato soltanto sulle dichiarazioni da lei rese alla Commissione territoriale e non ha tenuto in alcun conto le precisazioni offerte nell’interrogatorio libero innanzi al Tribunale, rendendo così valutazioni illogiche e arbitrarie in punto di credibilità. Lamenta che non sono stati considerati i riscontri offerti, e cioè in primo luogo la relazione della rete antitratta, le linee guida sulle vittime di tratta redatte dall’UNHCR, le informazioni sul paese di origine contenute nel Report EASO, violando così in particolare modo le disposizioni di cui alle lett. c) ed e) del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. Deduce che le presunte implausibilità rilevate dalla Corte d’appello sono frutto della mancata consultazione dei documenti versati in atti relativi al fenomeno della tratta in Nigeria, con conseguente violazione anche del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Deduce altresì che il Collegio ha consultato una fonte di informazioni non pertinente alla vicenda da lei denunciata e cioè il Report EASO sulla situazione della sicurezza in Nigeria, al solo fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).
Con il terzo motivo del ricorso la parte lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, artt. 4 e 5 Cedu e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3,5,7 e 11. Deduce che ha errato la Corte a non ritenere la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato e censura la sentenza impugnata laddove argomenta che non emerge nella vicenda alcuna azione di carattere persecutorio “portata avanti per ragioni politiche o per uno dei motivi previsti dalla normativa”. La ricorrente afferma che, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dal Collegio, le persecuzioni narrate hanno tutte le caratteristiche previste del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. a), poiché sono sufficientemente gravi e dettate dalla appartenenza a un gruppo sociale, in quanto legate a violenza di genere.
I motivi sono fondati.
3. E’ necessario premettere qualche considerazione di carattere generale sul fenomeno tratta e ricapitolare le fonti normative in materia.
La tratta di esseri umani è un fenomeno complesso che rileva nel sistema giudiziario penale e civile, sussistendo l’interesse dello Stato e della comunità internazionale alla punizione degli autori del reato e al contrasto del fenomeno, ma anche – e per certi versi prioritario- l’interesse alla protezione delle vittime. Ad un fenomeno complesso corrisponde una pluralità di risposte da parte dell’ordinamento, il che, in tema di tutela delle vittime, si traduce nella necessità di individuare il vulnus specifico ad essa arrecato dall’illecito e le misure di tutela che l’ordinamento deve apprestare, sia sotto il profilo della riparazione del bene leso, che della prevenzione di ulteriori aggressioni ai diritti che sono stati pregiudicati.
La nozione tradizionale di tratta si ricavava dall’art. 1, n. 2, della Convenzione di Ginevra 25.9.1926 (resa esecutiva con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723): “La tratta comprende ogni atto di cattura, acquisto o cessione di individuo per ridurlo in schiavitù; ogni atto di acquisto di uno schiavo per venderlo o scambiarlo; ogni atto di cessione per vendita o scambio di uno schiavo acquistato, per essere venduto o scambiato, come pure, in genere, ogni atto di commercio o di trasporto di schiavi”.
Questa norma collega la tratta alla schiavitù tradizionalmente intesa, e cioè un atto di appropriazione di un essere umano considerato alla stregua di una res che viene venduta o scambiata. Essa si fonda sull’osservazione di un fenomeno proprio di alcune epoche storiche – alcune non troppo remote -, in cui l’acquisto o la cessione di esseri umani era una pratica legale, o comunque tollerata dall’ordinamento. Nel mondo contemporaneo la schiavitù, sebbene formalmente bandita (almeno nei paesi aderenti all’Onu), non è sparita, ma si è trasformata, spesso dissimulata da rapporti legali o paralegali, sicché si parla di modem slavery, un fenomeno che secondo la ILO (International Labour Organization) riguarda 40 milioni di persone, costrette al lavoro forzato, incluse quelle coinvolte nella sex industry.
Di pari passo con questa evoluzione, sono stati aggiornati le norme e i protocolli di contrasto al fenomeno, ampliandone la portata.
Viene in rilevo, in primo luogo, l’art. 4 Cedu (divieto di riduzione in schiavitù, servitù e lavori forzati); il comma 1 in particolare, appartenente al nucleo rigido delle garanzie inderogabili ex art. 15 Cedu, che non ammettono eccezioni- equipara il divieto di schiavitù
a quello di servitù. Se il concetto di schiavitù richiama direttamente l’art. 1 della Convenzione di Ginevra e sottintende un processo di reificazione della persona, la definizione di “servitù”, non contemplata nella suddetta Convenzione, è riempita di contenuti dalla giurisprudenza della Corte Edu che ha affermato che essa consiste nell’obbligo, imposto con mezzi coercitivi, di fornire a taluno un determinato servizio, cui si accompagnano una notevole restrizione della libertà personale e la sottoposizione a forme penetranti di controllo. La più recente giurisprudenza di Strasburgo ha ricondotto entro l’ambito di applicazione della norma in commento le forme di schiavitù contemporanea, quali la schiavitù domestica e la tratta di esseri umani, in particolare a scopo di meretricio, anche quando dissimulata da rapporti lavorativi, da attività pseudo artistiche e ricreative; la Corte ha precisato che gli Stati contraenti sono tenuti a porre in essere tutte le misure idonee a scongiurare il pericolo che gli individui sottoposti alla loro giurisdizione siano ridotti in condizioni di schiavitù o di servitù o costretti al lavoro forzato (Corte Edu: Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010; Siliadin c. Francia, 26 ottobre 2005) 3.2.- Una più moderna nozione di tratta (trafficking in persons) è data dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata del 2000, e dai relativi Protocolli, ratificata dall’Italia con L. 16 marzo 2006, n. 146, nonché dalla Convenzione di Varsavia del Consiglio d’Europa del 16 maggio 2005, dove esplicitamente si afferma in preambolo che la tratta di esseri umani costituisce una violazione dei diritti umani e un’offesa alla dignità e all’integrità dell’essere umano.
Tanto il Protocollo alla Convezione Onu che la Convenzione di Varsavia precisano che l’espressione “tratta di esseri umani” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, con la frode, con l’inganno, con l’abuso di autorità o della condizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di pagamenti o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù o l’espianto di organi. Di particolare rilevanza è poi l’affermazione che il consenso della vittima della tratta allo sfruttamento è irrilevante in presenza di uno qualsiasi dei mezzi coercitivi o fraudolenti indicati nella norma definitoria.
Anche il diritto Eurounitario si occupa della tratta, ed in particolare la Direttiva 2011/36/UE che contiene contestualmente disposizioni finalizzate alla repressione del crimine e alla prevenzione ed alla protezione delle vittime, dedicando particolare attenzione a quest’ultimo aspetto.
La Direttiva accoglie la nozione di tratta già data dagli strumenti internazionali citati e la precisa ulteriormente, definendola “il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona su un’altra, a fini di sfruttamento”.
All’uso dei mezzi coercitivi e fraudolenti è quindi equiparata l’offerta o l’accettazione di somma di denaro per il consenso della persona che può indirizzarne un’altra allo sfruttamento, abusando della sua autorità o potere di fatto sulla stessa.
Si definisce, inoltre, in questa Direttiva (art. 2, comma 2), per la prima volta, la “posizione di vulnerabilità”, condizione in cui può trovarsi la vittima di cui l’autore del reato può approfittare per porre in essere la condotta. La norma afferma che per “posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”.
Si ribadisce altresì al comma 4, che il consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante in presenza di uno dei mezzi di coercizione indicati nella disposizione stessa. Ciò significa che ove la vittima sia assoggettata con violenza, minaccia, inganno o abuso di autorità non potrà mai parlarsi di prostituzione volontaria, il che è peraltro un coerente sviluppo di considerazioni che possono farsi sul fenomeno della prostituzione in genere. La Corte Costituzionale italiana ad esempio ha osservato che “nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali” (Corte Cost. 141/2019).
Non si può ovviamente escludere che esistano casi di sex working liberamente scelto, ovvero scelto come opzione ritenuta migliore rispetto ad altre pur possibili, ma la riflessione della Corte Costituzionale, letta unitamente alle norme internazionali sopra citate, avvalora l’idea che tendenzialmente la prostituzione si inquadra nel fenomeno della asimmetria delle relazioni sociali ed economiche, fenomeno che non è circoscritto solo ai paesi terzi poveri, non democraticamente governati o in situazioni di conflitto, pur se in questi ultimi esso è di regola più marcato e – secondo i contesti – maggiormente punitivo nei confronti dei gruppi vulnerabili (donne, minori), al punto che la coercizione alla prostituzione (ma anche all’accattonaggio, al traffico di organi) può aversi anche tramite mezzi di assoggettamento che in altri contesti, più liberi, non avrebbero efficacia.
Su queste considerazioni sono chiaramente fondate le definizioni di vulnerabilità, nonché di abuso ed uso di mezzi di coercizione dati dalla Direttiva sopra citata, in attuazione della quale il nostro sistema penale prevede come reato (art. 600 c.p.) tanto la riduzione in schiavitù in senso tradizionale, data dall’esercitare su di una persona “poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà” che la riduzione in servitù consistente nel ridurre o mantenere la persona “in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali” o utilizzarla per attività illecite quali il trapianto di organi. La norma penale definisce anche la nozione di stato di soggezione, che ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
4.- Pertanto, che la tratta di esseri umani, e specificamente per quanto qui interessa quella finalizzata al meretricio, costituisca un fenomeno che reca pregiudizio ai diritti umani fondamentali (la libertà, la integrità psicofisica, la stessa dignità umana) non può revocarsi in dubbio; e la complessità con cui si articolano, nell’epoca attuale, le relazioni asimmetriche di sfruttamento di esseri umani, di maggiore o minore gravità secondo quanto è profonda la situazione di vulnerabilità personale delle vittime o la loro appartenenza ad un gruppo sociale debole, nonché la sempre maggiore capacità dei moderni schiavisti di dissimulare il fenomeno ricorrendo ad atti di limitazione della libertà personale altrettanto efficaci delle catene ma meno visibili, ha richiesto significative precisazioni sulle nozioni di schiavitù, asservimento e di cattura, e di riduzione in soggezione dell’essere umano.
Con la ulteriore notazione che l’analisi del fenomeno si riempie di contenuti anche in relazione a quel processo di specificazione dei diritti umani proprio dell’età moderna, che presta speciale attenzione ai gruppi sociali che di per sé sono vulnerabili, quali i minori e le donne. Da qui la rilevanza nel quadro normativo sopra illustrato della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con L. 27 giugno 2013, n. 77, poiché in essa si precisa che con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere, comprese le violenze sessuali di natura fisica, sessuale, psicologica o economica.
La definizione di violenza di genere, discriminatoria nei confronti delle donne, è qui rilevante perché ai fini della protezione internazionale non è indispensabile la verifica della sussistenza di un reato perseguibile ai sensi degli artt. 600 c.p. e segg. (pur se l’esistenza di una indagine o di un processo penale in corso sono rilevanti e possono condurre, per autonoma via, al rilascio del permesso di soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 18) quanto la verifica della sussistenza del fenomeno della tratta e se per le concrete modalità in cui la vicenda si atteggia si ravvisano i presupposti della protezione internazionale per la vittima.
4.1 – Il percorso di accertamento di presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria alle vittime della tratta è regolato pur sempre dalle stesse norme che regolano la protezione internazionale negli altri casi, e segnatamente del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e segg. e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Discorso a parte deve farsi per il riconoscimento della protezione umanitaria, poiché in questo caso è necessario verificare se la vittima non abbia piuttosto diritto al permesso di soggiorno nominato del D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 18, essendo la protezione umanitaria del D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, una misura residuale e di chiusura del sistema (Cass. sez. un n. 29459 del 13/11/2019; Cass. sez. III n. 21522 del 27/07/2021).
Ai fini del riconoscimento della protezione internazionale occorre accertare in primo luogo la sussistenza del fatto lesivo in sé e di seguito la sussistenza di un rischio, nei termini descritti dagli artt. 7 e 8 del ovvero del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in termini attuali.
In assenza di un rischio concreto ed attuale, pur se il fatto lesivo si è verificato, la protezione internazionale non potrà riconoscersi, poiché essa consiste, secondo quanto dispone del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, comma 2, “nell’adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi”, e cioè misure che si adottano per prevenire ulteriori danni e non per riparare a quelli già causati. Ed infatti, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4, individua la rilevanza delle persecuzioni o danni già subiti quale “serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi” e non come fatto da solo sufficiente a fondare la protezione, purché non sussistano gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine.
Si deve quindi osservare che il richiedente asilo ha l’onere del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, di allegare, tempestivamente e diligentemente, in modo completo e circostanziato, i fatti posti a fondamento della sua richiesta ma non di qualificarli (Cass. 8819/2020).
Non è pertanto necessario che la vittima sia in grado (o in condizione) di qualificare come tratta gli eventi che le sono accaduti e che racconta; così come non è rilevante che la vittima dichiari di essere consenziente, se al tempo stesso emerge oggettivamente dal racconto l’uso di mezzi di coercizione e di assoggettamento di cui si è detto; è piuttosto il giudice che in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria deve analizzare i fatti allegati e compararli con le tutte le informazioni disponibili al fine di inquadrarli giuridicamente in modo corretto.
Particolare rilievo assume anche, nel caso che ci occupa, la disposizione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), laddove dispone che le dichiarazioni del richiedente sono ritenute veritiere se esse “non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone”. Poiché la tratta di esseri umani è un fenomeno transazionale di particolare complessità, le informazioni che il giudice deve assumere ai fini di un corretto inquadramento della vicenda non possono limitarsi alle informazioni sul paese di origine ma devono necessariamente riguardare anche i paesi di transito – come peraltro prevede del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 – e anche le informazioni sulla struttura del fenomeno, pertinenti ed adeguate ad una corretta ricostruzione dei fatti.
Le informazioni appropriate ed attendibili di cui si dispone su questo fenomeno, desumibili dalle fonti normative nazionali e internazionali sopra citate, ma anche dagli gli studi elaborati dalle principali agenzie che si occupano di diritti umani, come le Linee guida elaborate dall’UNHCR per la identificazione delle vittime di tratta, sono da considerarsi “informazioni disponibili” di cui il giudice deve avvalersi al fine di un corretto inquadramento della fattispecie e di una corretta decisione del caso.
Le citate Linee guida UNHCR, alla cui redazione ha partecipato anche il Ministero dell’Interno, Commissione nazionale per il diritto di asilo, richiamano il dovere di procedere ad una corretta identificazione delle vittime di tratta (art. 11, par. 4 della Direttiva 2011/36/UE: Gli Stati membri adottano le misure necessarie per predisporre adeguati meccanismi di rapida identificazione), anche per mezzo dei c.d. indicatori di tratta e cioè elementi e circostanze sintomatiche di una determinata situazione e condizione della persona. Gli indicatori di tratta sono stati elaborati anche sulla base di un documento ufficiale dello Stato italiano e cioè il Piano d’azione nazionale contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani, adottato il 26 febbraio 2016 dal Consiglio dei ministri in attuazione della direttiva 2011/36/UE. Essi costituiscono pertanto a tutti gli effetti informazioni di carattere generale derivanti da fonti attendibili che il giudice deve utilizzare nell’esame della domanda.
4.2.- Il punto di partenza è costituito, in ogni caso, dalle allegazioni della parte ricorrente, posto che anche il richiedente asilo ha il dovere di cooperare per una corretta istruzione della domanda compiendo ogni ragionevole sforzo per motivarla e circostanziarla (art. 13 Direttiva 2013/32/UE e art. Direttiva 2011/95/UE) mentre il compito del giudicante si esplica in termini di integrazione istruttoria (Cass. n. 16411/2019), trattandosi appunto di cooperazione con la parte e non di sostituzione ad essa, sicché le relative modalità di svolgimento devono essere improntate a criteri di trasparenza, di modo che la terzietà dell’organo giudicante non ne risulti compromessa (Cass. 29056/2019).
Pur nella necessità di ribadire questi principi, poiché costituiscono uno dei cardini dell’ordinamento giudiziario nazionale e cioè la terzietà del giudice, deve tenersi conto che spesso le vittime della tratta, pur trovandosi in un paese diverso da quello in cui la vicenda ha avuto origine, non si sono ancora liberate dalla soggezione fisica o psicologica agli agenti persecutori e quindi possono essere restie a raccontare tutti i fatti loro accaduti, ad autoqualificarsi vittime di tratta e ad intraprendere un percorso di affrancamento.
In alcuni casi ciò potrebbe non essere ostativo al riconoscimento della protezione internazionale se i fatti narrati possono essere così qualificati – ma non modificati o integrati – dal giudice, anche tramite l’ausilio del c.d. indicatori di tratta, e sempre che si ravvisi l’esistenza del rischio di ulteriori atti persecutori. In altri casi la mancata allegazione, o la negazione della vicenda pur in presenza di indicatori, impediscono l’immediata adozione di una misura, ma ciononostante non esonerano il giudice da porre in essere le opportune misure, tramite il c.d. referral perché la vicenda di cui vi sono indizi possa emergere, anche al fine di valutare i presupposti per il permesso di soggiorno del D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 18. Deve però rimarcarsi la differenza tra questa misura e la protezione internazionale propriamente detta, poiché il permesso di soggiorno ex art. 18 cit. costituisce una misura diretta a consentire alla persona di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale (Cass. 24573/2020); la protezione internazionale presuppone invece che sussista il rischio di atti persecutori o danno grave in caso di rimpatrio.
Di conseguenza la portata della protezione internazionale è per certi versi più ampia del permesso di soggiorno ex art. 18 cit., poiché riguarda anche persone che si sono già sottratte alla organizzazione criminale ma che rischiano atti discriminatori, persecutori (tra cui una nuovo asservimento) o altri danni in caso di rimpatrio nel paese di origine. Per altro verso, tuttavia, la ritenuta sussistenza di una vicenda di tratta non comporta automaticamente il riconoscimento delle misure di protezione poiché occorre muoversi nei confini rigorosi disegnati dagli artt. 7 e 8 (o eventualmente art. 14) del D.Lgs. n. 251 del 2007.
4.3.- Si deve quindi osservare che le vittime di tratta possono rientrare nella definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, purché siano soddisfatti tutti gli elementi contenuti nella definizione stessa e cioè è necessario che una persona si trovi al di fuori del proprio paese di origine o di abituale residenza, e sia a rischio di atti persecutori gravi, in caso di rimpatrio, per uno dei motivi tipici (razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinioni politiche) in conformità a quanto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8.
Pur tenendo conto che ogni caso ha le sue peculiarità e che l’esame della domanda di protezione deve condursi su base individuale, deve quindi osservarsi, in linea generale, che la tratta a scopo di prostituzione è connotata da crimini quali il rapimento, la detenzione, lo stupro, la riduzione in schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, le percosse, la negazione di cure mediche, il sequestro dei documenti di identità e la limitazione di libertà personale, che costituiscono gravi atti di aggressione a diritti fondamentali della persona. Inoltre essa, in genere, si fonda sull’approfittamento di una particolare condizione di debolezza in cui si trovano le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere, e pertanto questi atti possono qualificarsi come atti persecutori ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, lett. d), in quanto riconducibili alla appartenenza ad un “particolare gruppo sociale” costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata e cioè, in questo caso, l’appartenenza al genere femminile.
Già solo per questa appartenenza il soggetto è in potenza vulnerabile – anche se la maggiore o minore vulnerabilità dipende dal contesto sociale, familiare ed individuale – ed è esposto ad una forma di violenza che, come riconosce la Convenzione di Istanbul sopra citata, è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione, riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere.
A ciò si aggiunga che in determinati contesti sociali le vittime di tratta, anziché essere aiutate, possono essere ulteriormente discriminate e sottoposte a vessazioni fondate sulla appartenenza ad un genere ancora più ristretto del genere femminile, e cioè le donne che hanno esercitato il meretricio, pur se costrette o ingannate; la particolare vulnerabilità che consegue all’essere state vittime di tratta comporta uno svantaggio sociale ed economico che in determinati contesti, da ricostruire tramite assunzioni di appropriate e pertinenti informazioni ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, può costituire un ostacolo all’esercizio di diritti fondamentali, quali trovare un lavoro, nutrirsi, mantenere o instaurare relazioni familiari. Se pertanto la persona già vittima di tratta rischia, in caso di rimpatrio, di essere sottoposta ad atti di grave aggressione alla sua incolumità psicofisica, alla libertà e dignità, fondati sulla appartenenza al genere femminile, e tra essi il rischio di essere nuovamente sottoposta a tratta, o di essere gravemente discriminata dal contesto sociale, o sottoposta a vessazioni per la particolare vulnerabilità conseguente alla tratta, deve concludersi che sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e non della protezione sussidiaria. Sebbene, infatti, l’atto persecutorio e il danno grave possano consistere materialmente nella stessa azione (ad es. la privazione della libertà) nel caso in cui esso sia qualificato dalle ragioni persecutorie verso un certo gruppo sociale la misura di protezione appropriata è il riconoscimento dello status, mentre la protezione sussidiaria non richiede una specifica ragione persecutoria né quando si discute del rischio di danno grave di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), né a maggior ragione per il rischio di cui dell’art. 14, lett. c), cui la persona può essere esposta, in caso di conflitto armato, per la sua sola presenza sul territorio senza alcuna ragione individualizzate (Cass. n. 13858/2018, Cass. n. 11103/2019).
5.- Rese queste premesse si evidenzia il duplice errore in cui è incorso il giudice d’appello che, come correttamente osserva il Procuratore generale, ha incentrato la propria valutazione del narrato unicamente su indici di non plausibilità che avrebbero dovuto essere strutturati in maniera differente.
Il giudice si è infatti limitato a dichiarare, apoditticamente, non plausibili le dichiarazioni della donna, senza indicare alcun parametro di raffronto, nonostante esse si riferiscano ad un fenomeno peculiare che deve essere contestualizzato attraverso informazioni acquisite da fonti affidabili, idonee a dare un spiegazione logica alla narrazione (Cass. n. 24010/2020); informazioni che il giudice non ha acquisito, poiché manca totalmente qualsiasi riferimento alle connotazioni giuridiche, sociali ed economiche della tratta, alla incidenza di questo fenomeno nel paese di origine della ricorrente, nonché nel paese di permanenza provvisoria (Libia). Il giudizio di plausibilità o di verosimiglianza, quando si faccia riferimento a fenomeni che hanno una loro specifica connotazione e che non possono essere compresi se non assumendo delle informazioni pertinenti, deve essere necessariamente rapportato nel contesto delle condizioni esistenti del paese di origine e nel contesto delle condizioni del richiedente (Cass. 6738/2021). Esso è infatti fondato sull’id quod plerumque accidit, che ha una sua dimensione spaziale e temporale; ciò che è vero o verosimile in un dato luogo e in dato tempo può non esserlo in altro luogo ed in altro tempo.
Correttamente pertanto parte ricorrente censura la sentenza impugnata, deducendo che il giudice non ha assunto appropriate e pertinenti informazioni sulla tratta, ma solo sulla esistenza di un conflitto armato; ed invero il giudice d’appello non tiene in considerazione neppure le principali norme internazionali e nazionali che descrivono il fenomeno, parametrando invece la plausibilità delle dichiarazioni della ricorrente alle proprie soggettive convinzioni su ciò che è plausibile o meno. In tal modo ha fatto cattiva applicazione del principio più volte affermato da questa Corte, secondo il quale la valutazione di credibilità non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione (Cass. 14674/2020; Cass. n. 11925/2020).
5.1.- Il racconto della richiedente avrebbe dovuto essere valutato verificandone la coerenza interna e la sufficienza dei dettagli, come richiede del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, ma anche attraverso il controllo di credibilità estrinseca, anch’esso richiesto dal citato art. 3 comma 3 lett. a) b) c) e comma 5, lett. c) ed e), dal quale in questo caso non si può prescindere, assumendo appropriate e pertinenti informazioni sul fenomeno della tratta, e sul suo concreto atteggiarsi nel paese di origine e nei paesi di transito e permanenza temporanea (D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8) e tenendo presenti gli indicatori desumibili dalle Linee guida per la identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR e dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo; vicende che possono apparire inspiegabili, ove parametrate alle scelte che farebbe una persona libera, acquistano un altro significato se la persona può essere classificata come soggetto in posizione di vulnerabilità ai sensi dell’art. 2, comma 2 della Direttiva 2011/36/UE. In questo procedimento valutativo può acquistare valore anche il documento dell’ente antitratta prodotto dalla parte, in particolare ove esso aggiunga ulteriori elementi sulle condizioni di vita della ricorrente nel nostro paese, poiché, come sopra si è detto, non è sufficiente accertare il fatto lesivo in sé ma occorre anche verificare la sussistenza ed attualità di un rischio rilevante ai fini della protezione internazionale.
Il giudice d’appello è poi incorso in un altro errore, laddove ritiene che l’avvio alla prostituzione con mezzi inizialmente fraudolenti e successivamente violenti non costituisca atto persecutorio. Identifica così la persecuzione unicamente negli atti compiuti per ragioni politiche, mentre avrebbe dovuto valutare che, se gli atti sono sufficientemente gravi e può ritenersi che essi siano diretti a colpire un determinato gruppo sociale qual’e’ il genere femminile, ovvero più nello specifico le donne che in una determinata area geografica appartengono a gruppi sociali ed economici svantaggiati, sono integrati i requisiti richiesti del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8, ed in particolare il requisito di cui all’art. 8, lett. d).
Inoltre, le informazioni sul paese di origine, che il giudice deve assumere indicandone in motivazione l’autorità (o l’ente) dalla quale provengono, le fonti consultate ed anche la data della loro pubblicazione (Cass. 2466/2021), devono essere pertinenti, vale a dire non solo utili a ricostruire il fenomeno tratta e a valutare la credibilità delle vicende narrate, ma anche ad accertare il rischio attuale di ulteriori atti lesivi, dello stesso tipo di quelli già subiti, ovvero anche diversi ma che possono comunque qualificarsi come atti persecutori, quali ad esempio atti discriminatori fondati sul genere (Cass. 2464/2021). Non avendo assunto alcuna informazione sul fenomeno della tratta, il giudice d’appello cade nell’errore di ritenerla “soltanto” una vicenda di prostituzione nonché nell’errore di ritenere irrilevante sia l’inganno che la coercizione.
6.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, artt. 4 e 5 Cedu nonché del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5, 6, 7 e art. 14, lett. a) e b).
La parte lamenta che, a non voler considerare la persecuzione subita come causata da motivi di appartenenza al genere femminile, essa comunque è tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria poiché in caso di rientro nel proprio villaggio sussiste per la ricorrente sia il rischio di morte che il rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti, in quanto rischierebbe la morte per mano dei propri aguzzini o comunque di subire un nuovo avvio alla prostituzione forzata.
Il motivo è infondato. La parte si autoqualifica come vittima di tratta e teme nuovamente di essere sottoposta ad atti di aggressione della propria incolumità personale da parte degli aguzzini, nonché di essere nuovamente sottoposta a tratta. Il rischio descritto pertanto coincide con il rischio di trattamenti persecutori per motivi di appartenenza al genere, che, come sopra si è detto, ove venga in concreto accertato del giudice del merito, comporta il riconoscimento dello status di rifugiato e non la protezione sussidiaria. L’atto persecutorio e il danno grave possono consistere materialmente nella stessa azione, ma nel caso in cui esso sia qualificato dalle ragioni persecutorie verso un certo gruppo sociale la misura di protezione appropriata è il riconoscimento dello status.
7.- Con il quinto motivo del ricorso si lamenta la violazione falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonché del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5, 6, 7 e art. 14, lett. c). La parte lamenta il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria per violenza generalizzata di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), osservando che non viene considerato come zona di rientro Abuja, il luogo dove ancora si trovano i figli della richiedente, ma l’Edo State, che è il luogo di nascita di essa richiedente. Deduce che in ogni caso anche a volere intendere come zona di rientro l’Edo State non è stato considerato che il report EASO 2018 sulla Nigeria evidenzia che anche in questo Stato sono segnalati numerosi episodi di violenza che hanno coinvolto pastori e comunità agricole, e omicidi tra gruppi etnici avversari, violenza paragonabile alla guerra civile dal momento che in queste zone è stato dichiarato il coprifuoco.
Il motivo è infondato.
La nozione di violenza indiscriminata da conflitto armato proposta dalla ricorrente non collima affatto con quella rigorosa data dalla CGUE nelle sentenze del 17 febbraio 2009 (Elgafaji, C-465/07) e del 30 gennaio 2014, (Diakite’ C- 285/12), fatta propria anche dalla giurisprudenza di questa Corte.
Ai fini della invocata protezione il conflitto rileva se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Secondo questo indirizzo ormai consolidato, il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 13858/2018, Cass. n. 11103/2019).
La violenza indiscriminata derivante da conflitto, intesa in questi termini, è dunque cosa ben diversa dagli scontri che riguardano solo gruppi determinati di persone e omicidi mirati. Dette criticità potrebbero avere rilievo ai fini della protezione internazionale ove pertinenti ad un rischio individuale specifico, che tuttavia nel caso di specie è da escludersi, per difetto di allegazione di una vicenda individuale legata al conflitto etnico.
8.- Con il sesto motivo del ricorso la parte lamenta la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6, artt. 2, 3, 4, 5 Cedu, nonché degli artt. 2 e 10 Cost., art. 112 c.p.c., art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c..
La parte lamenta il mancato riconoscimento della protezione umanitaria rilevando che sussiste una condizione di vulnerabilità e che gin caso di rimpatrio, come si può evincere anche dal Report EASO 2018, ella andrebbe incontro a una consistente compressione dei suoi diritti fondamentali, accentuandosi la condizione di vulnerabilità. Deduce peraltro di avere prodotto con nota verbale d’udienza del 2 aprile 2019 un contratto di lavoro, la certificazione di livello A1 di lingua italiana, la certificazione unica 2018, nonché buste paga da marzo a dicembre 2018 così documentando l’inserimento lavorativo.
Il motivo è fondato.
Il giudice d’appello afferma che la ricorrente nel riferire il motivo che l’ha spinta a lasciare il paese non ha fatto alcun accenno “a situazioni di indigenza, di inaccessibilità beni o servizi primari o di lesioni della dignità personale”. In ciò cade in errore perché la parte ha dedotto di essere stata vittima di tratta, che è una gravissima lesione della dignità personale; le riferite condizioni di avvio alla tratta e cioè l’essere stata ceduta da bambina, tenuta in stato di servitù e quindi ceduta ad un trafficante, sono allegazioni idonee a definire quella condizione di vulnerabilità di cui all’art. 2, comma 2 della Direttiva 2011/36/UE.
La protezione umanitaria del D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6 (ratione temporis applicabile) è tuttavia una misura residuale e di chiusura del sistema (Cass. sez. un. 29459 del 13/11/2019; Cass. sez. III n. 21522 del 27/07/2021), sicché ove si accerti che la persona è stata vittima di tratta deve in primo luogo verificarsi se sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato nei termini sopra descritti.
Se invece, pur accertandosi la vicenda storica legata alla tratta deve escludersi un rischio attuale di atti persecutori, si potrà valutare, caso per caso e sempre che il soggetto non abbia ricevuto il diverso permesso di soggiorno del D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 18, se sussistono i presupposti per la protezione umanitaria, secondo il noto paradigma della comparazione tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia (Cass. sez. un 24413 del 09/09/2021), in questo caso ponendo particolare attenzione al fatto che le violenze subite, nel paese di origine, nel paese di transito o in Italia, possono essere state fortemente traumatiche e idonee ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (Cass. 25734 del 22/09/2021), nonché sulla sua capacità di reinserirsi, preservando le inalienabili condizioni di dignità umana, in un contesto sociale punitivo verso le donne che hanno esercitato il meretricio.
9.- In conclusione, in accoglimento dei motivi secondo, terzo e sesto, rigettati il primo, il quarto e il quinto, la sentenza impugnata deve essere cassata e rinviata alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione perché proceda un nuovo esame, attenendosi ai seguenti principi di diritto:
a).- In tema di tratta ai fini di avvio alla prostituzione il richiedente asilo ha l’onere di allegare i fatti, ma non di qualificarli, compito questo del giudice che deve, in adempimento del dovere di cooperazione, a tal fine analizzare i fatti allegati, senza modificarli né integrali, comparandoli con le informazioni disponibili, pertinenti e aggiornate sul paese di origine e sui paesi di transito, nonché sulla struttura del fenomeno, come descritto dalle fonti convenzionali ed internazionali, e dalle Linee guida per la identificazione delle vittime di tratta redate dall’UNHCR e dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo.
b).- Alle vittime di tratta può essere riconosciuto lo status di rifugiato purché siano soddisfatti tutti gli elementi contenuti nella definizione datane del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e segg. e in particolare, qualora la tratta abbia come vittime le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere, essa può considerarsi atto persecutorio in quanto riconducibile alla appartenenza ad un “particolare gruppo sociale” costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata e cioè l’appartenenza al genere femminile. E’ compito del giudice accertare nel singolo caso, tramite informazioni pertinenti ed aggiornate sul paese di origine, il rischio attuale di ulteriori atti lesivi, dello stesso tipo di quelli già subiti, ovvero anche diversi ma che possono comunque qualificarsi come atti persecutori, quali atti discriminatori fondati sul genere.
c).- Ne caso in cui si accerti la vicenda storica della tratta ma si escluda il rischio attuale di atti persecutori, si dovrà valutare”, se la persona non ha ricevuto il permesso di soggiorno del D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 18, la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria (nella formulazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, ratione temporis applicabile), comparando la situazione soggettiva e oggettiva della richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia, ponendo particolare attenzione al fatto che le violenze subite possono essere state fortemente traumatiche e idonee ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona, nonché sulla sua capacità di reinserirsi socialmente in caso di rimpatrio, preservando le inalienabili condizioni di dignità umana.
PQM
Accoglie il secondo, terzo e sesto motivo del ricorso, rigetta il primo, il quarto e il quinto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro, in diversa composizione, per un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto enunciati in motivazione.
Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022
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