Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.677 del 12/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25910/2020 proposto da:

E.J., elettivamente domiciliata in Bologna Via Belvedere 10, presso lo studio dell’avv. Cosimo Antonio Rina, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1499/2020 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 03/06/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/11/2021 dal Consigliere Dott. Rita RUSSO.

RILEVATO

Che:

La ricorrente, cittadina nigeriana, ha chiesto la protezione internazionale dichiarando: che dopo la morte dei suoi familiari è andata a vivere con il cognato che la maltrattava; di avere trovato ospitalità presso degli amici e che una donna, vantando di avere un bar in Libia, le proponeva di recarsi con lei in Libia offrendole un lavoro; giunta in Libia veniva inserita in una connection house dove le veniva imposto di prostituirsi ma lei rifiutava; riusciva a fuggire con l’aiuto di un uomo, divenuto poi per un certo tempo il suo compagno, che la aiutava a mettere da parte i soldi per pagare il viaggio; ella lasciava quindi la Libia, in stato di gravidanza, mentre l’uomo restava in Libia e, giunta in Italia, metteva alla luce, nel *****, un figlio.

La competente Commissione territoriale ha respinto la richiesta mentre il Tribunale di Bologna le ha riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria avendo ella un figlio, all’epoca di tre anni.

Il Ministero ha proposto appello che la Corte di Bologna ha accolto, revocando il permesso di soggiorno per motivi umanitari, affermando che in Nigeria non sussiste conflitto armato, non ci sono rischi persecutori e sono irrilevanti le vicende personali vissute in Libia perché non è in quel paese che la richiedente verrebbe rimpatriata. La Corte rileva che il timore di ritrovarsi nell’eventualità di un ritorno in Nigeria – nella condizione di doversi prostituire per sopravvivere è privo di fondamento e comunque non è idoneo a fondare la protezione umanitaria; osserva che la richiedente è un “adulto sano maggiorenne e di cui non risulta alcuna condizione soggettiva di peculiare vulnerabilità”.

Avverso la predetta sentenza la richiedente asilo ha proposto ricorso per cassazione, con atto notificato in data 2/10/2020, affidandosi ad un motivo.

L’Avvocatura dello Stato, non tempestivamente costituita, ha presentato istanza per la partecipazione ad eventuale discussione orale. La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 4 novembre 2021.

RITENUTO

Che:

1.- Con il primo e unico motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 6. La ricorrente deduce che la domanda è stata introdotta prima del 5 ottobre 2018, applicandosi quindi la disciplina previgente alle modifiche apportate dal D.L. n. 113 del 2008, e che le situazioni di vulnerabilità costituiscono catalogo aperto; che la Corte d’appello di Bologna si è limitata a un esame parziale della vicenda senza fare alcun giudizio comparativo e considerando irrilevanti le violenze subite in Libia; afferma che la Corte non ha tenuto conto che la richiedente è madre di un bambino, nato il *****, che ha cercato di inserirsi nel contesto sociale e lavorativo, svolgendo un tirocinio formativo, che attualmente ella e il figlio sono ospiti di una struttura di accoglienza per donne sole con minori e che il bambino è inserito nella scuola dell’infanzia.

Il motivo è fondato.

Alla domanda di protezione umanitaria presentata dalla ricorrente, in data anteriore al 5 ottobre 2018, si applica la disciplina previgente alla modifica apportate dal D.L. n. 113 del 2018, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (Cass. sez. un. 29459/19). Non si applica, invece, la disciplina sulla protezione della vita privata e familiare del richiedente, introdotta – mediante la sostituzione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 – dal D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, poiché essa è applicabile retroattivamente solo ai procedimenti che alla data di entrata in vigore di detto D.L. (22 ottobre 2020) erano pendenti “avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali”; non, quindi, ai procedimenti che, come il presente, al 22.10.20 pendevano davanti alla Corte di Cassazione.

La protezione umanitaria; va chiarito, è una protezione nazionale, complementare rispetto alla protezione internazionale in senso stretto, e che per costante giurisprudenza di questa Corte va ricostruita quale misura atipica, espressione del diritto di asilo, legata alla tutela dei diritti fondamentali. Una tutela a carattere residuale, posta a chiusura del sistema, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione; i motivi di carattere umanitario per il rilascio del permesso di soggiorno sono comunemente individuati con riferimento alle Convenzioni internazionali che autorizzano il nostro Paese ad adottare misure di protezione dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, in forza dell’art. 2 Cost. e sono dunque riconducibili a un “catalogo aperto”, legato a ragioni non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica. Le situazioni c.d. vulnerabili, da proteggere alla luce degli obblighi gravanti sullo Stato italiano, possono derivare da cause non normativamente tipizzate, ma saldamente ancorate alla tutela dei diritti fondamentali, e tra questi il diritto alla vita privata e familiare.

In concreto, l’accertamento dei seri motivi di carattere umanitaria, richiede una verifica sulla esposizione a rischio del diritto protetto, da farsi tramite la valutazione comparativa della situazione del richiedente che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia con la situazione soggettiva ed oggettiva in cui il medesimo si troverebbe rientrando nel Paese d’origine, al fine di verificare “se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. n. 4455/18, Cass. sez. un. 29459/19). Ciò implica che la situazione del richiedente asilo deve essere valutata nella sua interezza sia con riferimento alla ragioni che hanno determinato la fuga dal paese di origine (ove credibilmente allegate), che agli eventuali fatti occorsi durante la migrazione ed infine, ultimo ma non ultimo, con riferimento alla condizione di integrazione personale, familiare, lavorativa e sociale conseguita sul territorio nazionale come Stato di approdo.

Ciò posto si osserva che la Corte d’appello di Bologna pur essendo a conoscenza della situazione familiare della donna, che è giunta in Italia già in stato di gravidanza e che qui ha dato alla luce la prole, ragione per la quale il giudice di primo grado aveva riconosciuto la protezione umanitaria, non ha valutato questa condizione, limitandosi alla considerazione che la donna è un adulto sano e maggiorenne.

Sulla rilevanza della relazione familiare ai fini di valutare la condizione di vulnerabilità, sono di recente intervenute le sezioni unite di questa Corte, le quali hanno affermato che il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo”, impone di dare tutela all’intera rete di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia; relazioni familiari, ma anche affettive e sociali, quali le esperienze di carattere associativo che il richiedente abbia coltivato, oltre che le relazioni lavorative e, più genericamente, economiche. La Corte ha quindi richiamato il disposto degli artt. 2 e 3 Cost., e la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale in materia, rilevando che è alla luce di tali disposizioni costituzionali che va individuato il senso e la tecnica della comparazione da effettuare tra ciò che il richiedente lascia in Italia e ciò che egli troverà nel suo Paese di origine, dovendo cioè valutarsi, nel giudizio sulla vulnerabilità, non solo il rischio di danni futuri – legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita (Cass. sez. un 24413/2021).

Nella predetta sentenza la Corte, confermando che ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria deve procedersi a giudizio di comparazione tra le condizioni di vita nel paese di accoglienza e quelle del paese di origine, secondo il già consolidato orientamento nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 4455/18, Cass. sez. un. 29459/19) ha precisato che “in presenza di un livello elevato d’integrazione effettiva nel nostro Paese – desumibile da indici socialmente rilevanti quali la titolarità di un rapporto di lavoro (pur se a tempo determinato, costituendo tale forma di rapporto di lavoro quella più diffusa, in questo momento storico, di accesso al mercato del lavoro), la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento – saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore” (Cass. sez. un. 24413/2021).

Alla luce di questi principi si evidenzia l’errore in cui è incorsa la Corte d’appello la quale non ha affatto valutato la presenza di un figlio minore, nato nel 2015 e quindi già in età scolare, il suo inserimento sul territorio italiano, la circostanza che la donna abbia svolto un tirocinio formativo, restando comunque ospite di una struttura di accoglienza, assistita dai servizi sociali.

Se vi è un radicamento forte sul territorio del richiedente asilo, le condizioni soggettive e oggettive del paese di origine assumono una rilevanza minore; non rileva se le condizioni del paese di origine siano tali da determinare oggettivamente la lesione dei diritti fondamentali in evidenza, ma se tale effetto si produca con il rimpatrio, in relazione al divario tra ciò che l’interessata ha conseguito in Italia e ciò che irrimediabilmente perderebbe tornando nel paese di origine.

Ne consegue, in accoglimento del motivo di ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, perché, attenendosi ai citati principi, affermati dalle sezioni unite, riesamini la vicenda avendo riguardo alla condizione familiare e alla integrazione sociale della ricorrente anche sulla base di eventuali altri elementi sopravvenuti di cui la parte potrà offrire prova, per eseguire correttamente il giudizio di comparazione ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. 27356/2021).

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022

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