LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11399/2017 proposto da:
ASTOR IMMOBILIARE S.R.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA 2, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentata e difesa dall’avvocato LUIGI PETRONE;
– ricorrente –
contro
A.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA N. PORPORA 12, presso lo studio dell’avvocato ORAZIO ABBAMONTE, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 169/2016 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 16/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/12/2021 dal Consigliere ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La Astor Immobiliare s.r.l. ha proposto ricorso articolato in tre motivi (il primo strutturato in quattro distinti paragrafi) avverso la sentenza n. 169/2016 della Corte d’appello di Potenza, pubblicata il 16 maggio 2016.
2. Resiste con controricorso A.M..
3. A seguito di denuncia di nuova opera conclusasi con ordinanza di non luogo a provvedere del Pretore di Melfi, con citazione del 6 novembre 1998 A.M. convenne la Astor Immobiliare s.r.l. innanzi al Tribunale di Melfi, per chiedere che la convenuta fosse condannata a demolire tre muri scatolari con sovrastante fioriera costruiti in aderenza alle pareti di alcuni fabbricati di proprietà della stessa, in quanto realizzati a distanza inferiore a quella di cinque metri dal confine prescritta dal piano particolareggiato del Comune di Rionero, nonché un muro di cinta e le annesse tubature idriche e fognarie ed un cancello apposto all’ingresso dei fabbricati di proprietà della convenuta, che si assumevano costruiti interamente nel fondo di proprietà A.. Il giudice di primo grado, qualificando l’azione come regolamento dei confini, respinse la domanda, ritenendo che il muro di cinta si trovasse esattamente in corrispondenza del confine tra le due proprietà e che i fabbricati rispettassero la distanza prescritta dalle disposizioni del piano particolareggiato del Comune di Rionero (sentenza n. 60/2005 Tribunale di Melfi). Avverso tale sentenza propose appello A.M., lamentando l’erronea qualificazione della domanda da parte del giudice di primo grado, l’errata valutazione delle risultanze istruttorie e l’acquisizione di documenti tardivamente prodotti dalla controparte. La Corte d’appello di Potenza accolse il gravame e riformò parzialmente la sentenza di primo grado rilevando, tra l’altro, che: 1) la qualificazione della domanda formulata come azione di regolamento di confini doveva ritenersi errata, essendo la stessa volta non solo ad eliminare una situazione di incertezza relativa all’esatta collocazione del confine, ma altresì all’accertamento della realizzazione a distanza inferiore a quella legale di una serie di opere ed alla condanna alla demolizione delle medesime; 2) il giudice di primo grado aveva travisato le risultanze della c.t.u. L., attestanti sia la non corrispondenza della linea di confine al muro di cinta (da ritenersi pertanto costruito interamente nel fondo di proprietà A.), sia il mancato rispetto delle distanze legali non solo in relazione ai muri scatolari, ma addirittura con riferimento ai fabbricati in aderenza ai quali tali muri erano stati costruiti (e ciò anche a voler ritenere che il muro di cinta fosse stato realizzato esattamente in corrispondenza della linea di confine); 3) la sentenza impugnata valorizzava indebitamente le prove testimoniali, che davano atto della esistenza di un precedente muro di confine, ma che non autorizzavano a ritenere che il nuovo muro di cinta seguisse la linea di confine per come accertata; 4) il giudice di primo grado aveva erroneamente fondato la propria decisione sulle risultanze di un aerofotogramma tardivamente prodotto dalla convenuta con la comparsa di risposta in primo grado; 5) la documentazione fotografica prodotta dalla convenuta era stata mal valutata, poiché dalla stessa si poteva evincere, facendo un confronto col posizionamento di un palo Enel, che il nuovo muro di cinta non si trovasse in posizione corrispondente al vecchio muro di confine, ma spostato piuttosto verso la proprietà A.; 6) doveva essere respinta la domanda di demolizione inerente alle tubature dell’impianto idrico e fognario a ridosso del muro di cinta ed al summenzionato cancello di ingresso, poiché nessuna prova della realizzazione di tali opere era stata fornita dall’appellante.
La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di consiglio, a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380 bis.1 c.p.c..
I. Il primo motivo di ricorso della Astor Immobiliare s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 873,878,950 c.c. e dell’art. 61 c.p.c.. E’ censurata la sentenza impugnata nella parte in cui ha applicato ai muri la disciplina sulle distanze di cui all’art. 873 c.c.: la doglianza prende in considerazione la ratio sottesa alle norme in tema di distanze e consistente nell’impedire la creazione di intercapedini strette ed insalubri, pericolo che un semplice muro di cinta, o scatolare, o di contenimento, non è in grado di creare, dovendosi pertanto interpretare il termine “costruzioni” di cui all’art. 873 c.c., in senso restrittivo (a tal proposito la ricorrente richiama anche i pareri emanati dalla Regione Basilicata ed allegati alla perizia di parte dell’ingegnere M.). Espone, inoltre, la ricorrente che a norma dell’art. 878 c.c., i muri di cinta e gli altri muri isolati di altezza non superiore a tre metri non vengono considerati per il computo della distanza di cui all’art. 873 c.c. e che di un’altezza tale da giustificare l’applicazione dell’art. 873 c.c., non si è dato alcun conto nella sentenza impugnata.
I.1. In prosieguo, lo stesso motivo di ricorso introduce la doglianza relativa a quanto statuito dalla Corte d’appello in relazione alla qualificazione della domanda attorea: secondo la ricorrente deve ritenersi corretta la qualificazione come azione di regolamento dei confini operata dal giudice di primo grado, anche in considerazione del fatto che tale accertamento è pregiudiziale rispetto alla valutazione dello sconfinamento e della violazione delle norme sulle distanze; il corretto inquadramento dell’azione nel paradigma dell’art. 950 c.c., avrebbe imposto di valutare le risultanze catastali quale criterio residuale di individuazione del confine, il cui corretto posizionamento risultava da altri elementi probatori non valutati dalla Corte d’appello, la quale avrebbe altresì travisato il contenuto delle prove testimoniali. La doglianza investe inoltre la sentenza di appello nella parte in cui ha affermato la tardività della produzione dell’aerofotogramma avvenuta con la comparsa conclusionale del 3 dicembre 2004, documento sul quale erroneamente i giudici di appello hanno ritenuto fondata la decisione del primo grado. Ancora nel medesimo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 61 c.p.c., giacché tale norma non pone limitazioni alla libertà del giudice nella valutazione delle risultanze peritali.
1.2. Il secondo motivo di ricorso allega la “omessa e, comunque, insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si sostiene che la Corte d’appello, ritenendo attendibili gli accertamenti peritali, non abbia illustrato le ragioni per cui dovevano ritenersi infondate le osservazioni ed i rilievi fatti dalla convenuta Astor Immobiliare s.r.l. in primo grado.
1.3. Il terzo motivo di ricorso deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., stante l’omessa pronuncia sui rilievi mossi dalla Astor Immobiliare s.r.l. alle risultanze della c.t.u..
2. I tre motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, in quanto connessi, e rivelano comuni profili di inammissibilità, oltre che essere comunque infondati.
2.1. Sotto il profilo del requisito di ammissibilità della esposizione sommaria dei fatti, prescritto dall’art. 3661, n. 3, c.p.c., comma 1, n. 3, va osservato che il ricorso condensa la stessa in meno di una pagina, nel paragrafo “fatto e svolgimento del processo”: non risultano indicati i fatti storici che hanno occasionato la controversia, mentre le ragioni giuridiche sulla base delle quali la domanda è stata introdotta (e la cui qualificazione è oggetto specifico di censura) sono individuate unicamente come “presunta violazione delle norme disciplinanti le distanze fra costruzioni dettate dalla legge e dal Piano particolareggiato del Comune di Rionero in Vulture”. La motivazione della sentenza di primo grado è sintetizzata in tre righi e non è indicato il tenore dell’appello. Manca quindi un sufficiente riferimento ai fatti sostanziali e processuali relativi sia al giudizio di primo grado che a quello di appello, e cioè alle domande ed alle eccezioni proposte innanzi al giudice di prime cure, come ai motivi su cui era fondato l’appello.
2.2. In ogni caso, il primo motivo di ricorso è totalmente infondato.
Nella citazione introduttiva del giudizio, A.M. dedusse la violazione delle distanze minime dal confine (5 metri, in base all’art. 13 n. t.a. del Piano particolareggiato zona C10 del Comune di Rionero in Vulture) per tre muri scatolari realizzati in aderenza alle pareti degli edifici di proprietà della convenuta Astor Immobiliare, nonché l’invasione nel proprio fondo con l’erezione di un muro di cinta e l’installazione di un cancello ed altri manufatti.
Le domande cumulativamente avanzate dall’ A. consistevano dunque in una azione negatoria, con condanna alla rimozione delle opere che avevano determinato uno sconfinamento da parte del vicino, ed in altra actio negatoria servitutis diretta a denunziare la violazione delle distanze legali da parte del proprietario del fondo vicino e ad ottenere la demolizione della sua costruzione, tendendo a salvaguardare il diritto di proprietà dell’attore dalla costituzione di una servitù di contenuto contrario al limite violato e ad impedirne tanto l’esercizio attuale, quanto il suo acquisto per usucapione.
Chi si limiti a dedurre un’incertezza, anche soggettiva, del confine apparente e chieda di determinare il confine effettivo, con gli eventuali provvedimenti consequenziali, esercita un’actio finium regundorum; ma chi deduce la certezza del confine, si propone quale proprietario del fondo e chiede di riconoscerne la libertà contro le pretese di terzi, libertà pregiudicata dallo sconfinamento di un’opera dall’esecuzione di una costruzione sul fondo limitrofo a distanza inferiore a quella prescritta, computata dal confine affermato in domanda, esercita un’actio negatoria servitutis (cfr. Cass. Sez. 2, 12/11/1966, n. 2753).
Erra comunque la ricorrente a reputare che la qualificazione dell’azione sia stata decisiva ai fini di individuare le rispettive proprietà delle parti: sia nel regolamento di confini, sia nella negatoria servitutis, per dimostrare la proprietà dell’immobile non è richiesta una prova rigorosa mediante titoli di acquisto o di usucapione, bastando la dimostrazione fornita con ogni mezzo di prova, anche con presunzioni.
La ricorrente neppure ha interesse a lamentare la statuizione della Corte d’appello circa la tardività della produzione del rilievo aerofotogrammetrico, visto che essa stessa assume che il Tribunale non aveva affatto fondato la propria decisione su quel documento. In tal modo, la censura finisce per denunciare l’omessa valutazione di una prova documentale, della quale la medesima ricorrente nega la decisività.
La Corte d’appello di Potenza ha dato per accertata la proprietà A. su quelle parti di fondo (particella *****) oggetto del contestato esercizio di diritti di servitù, facendo riferimento alle risultanze della CTU ed alle indagini sulla individuazione del confine col fondo Astor Immobiliare (particella *****) compiute dall’ausiliare in rapporto allo stato dei luoghi ed alla linea catastale. Dopo di che, la sentenza impugnata ha egualmente accertato in fatto, condividendo le emergenze peritali: 1) che i tre muri scatolari in cemento armato (come anche i fabbricati C, F e G edificati in aderenza a tali muri) erano stati realizzati dalla Astor Immobiliare a distanza compresa tra m 4,40 e m. 4,55 dal confine, e dunque inferiore a quella di m 5,00 stabilita dall’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del Piano particolareggiato zona C10 del Comune di Rionero in Vulture; 2) che il muro di cinta realizzato dalla Astor Immobiliare non corrispondeva alla linea di confine individuata tra la particella ***** e la particella *****, gravando piuttosto interamente nella proprietà A..
E’ quindi totalmente sprovvista di riferibilità alla ratio decidendi della sentenza impugnata la censura attinente alla violazione dell’art. 878 c.c., ed alla altezza dei muri in questione (ai fini dell’esenzione dal rispetto delle distanze tra costruzioni), di cui al primo motivo sub A), in quanto non è stato proprio accertato che gli stessi manufatti fossero destinati alla demarcazione della linea di confine ed alla recinzione della proprietà Astor Immobiliare, né che avessero entrambe le facce isolate da altre costruzioni. Piuttosto, un muro è risultato innestato direttamente nella proprietà A. e i tre muri scatolari sono risultati aderenti alle pareti dei fabbricati C, F e G, il che fa comunque perdere loro la natura di muro di cinta per acquistare quella di vera e propria costruzione da edificarsi nel rispetto delle distanze legali (tra le tante, Cass. Sez. 2, 07/07/2004, n. 12459).
Quanto alla violazione dell’art. 61 c.p.c. (primo motivo, sub 4), al secondo ed al terzo motivo, basta ulteriormente considerare che:
a)nel vigore del testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134, non è più configurabile il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti;
b) neppure può ritenersi sussistente la nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4), in quanto la pronuncia della Corte di Potenza contiene le argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione;
c) non è criticabile l’adesione prestata dalla Corte di Potenza alle conclusioni peritali, giacché spetta comunque al giudice di merito esaminare e valutare le nozioni tecniche o scientifiche introdotte nel processo mediante la CTU, e dare conto dei motivi di consenso, come di quelli di eventuale dissenso, in ordine alla congruità dei risultati della consulenza e delle ragioni che li sorreggono. Tale valutazione non può essere sindacata in sede di legittimità invocando dalla Corte di Cassazione un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in maniera da pervenire ad una nuova validazione e legittimazione dei risultati dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio. Nella sentenza impugnata sono congruamente spiegate le ragioni del convincimento raggiunto dai giudici e dell’adesione alle conclusioni prospettate dall’ausiliare.
d) d’altro canto, i mezzi di prova esperibili per accertare natura, dimensioni e consistenza di opere edilizie, delle quali si lamenti l’inosservanza della disciplina in tema di distanze legali, costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica che, di regola, vengono compiuti mediante apposita consulenza d’ufficio con funzione “percipiente”, avendosi riguardo ad accadimenti i quali, sia pure sul fondamento di dati obbiettivi, possono essere posti in luce soltanto attraverso una particolare esperienza tecnica;
e) le censure si connotano come una sollecitazione al complessivo riesame della situazione di fatto accertata dai giudici del merito, né individuano un “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, agli effetti del vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, limitandosi a contrapporre una diversa ricostruzione dei fatti, ovvero una diversa valenza delle risultanze istruttorie, invitando la Corte di legittimità a svolgere un nuovo giudizio sul merito della causa ed a valutare l’incidenza delle critiche mosse alle risultanze della consulenza d’ufficio, critiche che comunque si sostanziano in semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico.
Consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, vengono regolate secondo soccombenza in favore del controricorrente.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022
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