LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5755-2020 proposto da:
S.O., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LORENZO TRUCCO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 1109/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 27/06/2019 R.G.N. 1323/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/11/2021 dal Consigliere Dott.ssa PONTERIO CARLA.
RILEVATO
che:
1. La Corte d’appello di Torino ha respinto l’appello proposto da S.O., cittadino del Gambia, avverso l’ordinanza del Tribunale che, confermando il provvedimento emesso dalla competente Commissione Territoriale, aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.
2. Il richiedente aveva allegato di essere fuggito dal Gambia nel giugno 2015 perché, quale membro di una associazione calcistica, aveva rifiutato di prendere parte alle manifestazioni che il partito di governo dell’allora Presidente J. aveva indetto dopo il tentato colpo di Stato del dicembre 2014. Per questo egli era stato arrestato nel marzo 2015, era rimasto in prigione per 21 giorni ed era riuscito a fuggire spaccando il tetto della prigione.
3. La Corte d’appello, respinta la richiesta di audizione, ha giudicato non credibile, conformemente al Tribunale, il racconto del ricorrente rilevando che “le incongruenze temporali, le contraddizioni e le inverosimiglianze nella descrizione delle modalità di fuga evidenziate del primo giudice non (potessero) essere giustificate dalle deduzioni, peraltro assai generiche, dell’appellante”. Ha quindi negato l’esistenza dei presupposti per lo status di rifugiato e per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).
4. Ha escluso i presupposti per la protezione sussidiaria di cui al citato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) rilevando che la situazione socio-politica del Gambia, da valutare all’attualità, era cambiata a seguito dell’insediamento nel gennaio 2017 del nuovo Presidente, B.A., con sviluppi positivi sul fronte della tutela dei diritti umani, e che dalle fonti internazionali consultate non risultasse l’esistenza di una condizione di violenza generalizzata o di conflitto armato.
5. Ha parimenti negato la protezione umanitaria sul rilievo che gli sforzi di integrazione compiuti dal ricorrente e i risultati raggiunti, senz’altro apprezzabili, fossero subvalenti rispetto alla mancanza di esposizione a rischio personale, di compromissione dei diritti umani e, comunque, di una condizione di vulnerabilità soggettiva specificamente circostanziata connessa al rimpatrio, neppure rilevando la giovane età dell’appellante e il lungo periodo di assenza dal Paese d’origine. I giudici di appello hanno infine negato rilevanza ai problemi di salute del richiedente asilo, non integranti una delle ipotesi di divieto di espulsione ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 35, in quanto l’intervento a cui il predetto deve essere sottoposto non ha carattere indifferibile e urgente e non vi è prova di indisponibilità dei necessari farmaci nel Paese di rimpatrio.
6. Avverso tale sentenza il richiedente la protezione ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
7. Il Ministero dell’Interno si è costituito al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
CONSIDERATO
che:
8. Col primo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, anche in relazione alla mancata audizione del ricorrente.
9. Il ricorrente censura anzitutto la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui la Corte d’appello ha, da un lato, ritenuto superflua l’audizione richiesta dal ricorrente e, dall’altro, dato peso a contraddizioni nel racconto dello stesso, che sarebbe stato possibile chiarire in sede di audizione.
10. Denuncia poi il contrasto della decisione con l’elaborazione giurisprudenziale Europea secondo cui “l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della situazione personale” (sentenza Corte Giustizia, causa C-465/07) ed in ragione della rilevanza che la medesima giurisprudenza attribuisce ad un alto grado di violenza indiscriminata indipendente da un vero e proprio conflitto (sentenza Corte Giustizia, causa C-285/12). Sostiene, anche in base ai report citati nei ricorsi di primo e secondo grado, che le attuali condizioni in Gambia, nonostante la deposizione di J., rimangono ancorate a una condizione di estrema incertezza, in cui permane una violazione ampia dei diritti fondamentali, specie per quanto concerne l’apparato giudiziario e le possibili ed effettive tutele; in caso di rientro nel paese di origine, il ricorrente potrebbe subire gravi ripercussioni apparendo integrato il rischio di “danno grave”, anche in relazione alle conseguenze di un processo che lo porterebbe, essendo in precedenza evaso, ad una ulteriore condanna da scontare in un sistema carcerario in condizioni altamente disumane.
11. Il motivo è fondato in relazione al mancato adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria da parte dei giudici di appello, che hanno escluso i presupposti della protezione sussidiaria di cui alla lett. c), senza indicare alcuna delle fonti di informazione utilizzate.
12. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, è dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente e astrattamente sussumibile in una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, con accertamento aggiornato al momento della decisione (Cass. n. 28990 del 2018; Cass. n. 17075 del 2018).
13. Il predetto accertamento va compiuto in base a quanto prescritto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e, quindi, “alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione Nazionale sulla base dei datti forniti dall’ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa”.
14. E’ quindi, onere del giudice di merito procedere, nel corso del procedimento finalizzato al riconoscimento della protezione internazionale, a tutti gli accertamenti officiosi finalizzati ad acclarare l’effettiva condizione del Paese di origine del richiedente, avendo poi cura di indicare esattamente, nel provvedimento conclusivo, le parti utilizzate ed il loro aggiornamento.
15. In proposito, deve ribadirsi anche che l’indicazione delle fonti di cui all’art. 8 non ha carattere esclusivo, ben potendo le informazioni sulle condizioni del Paese estero essere tratte da concorrenti canali di informazione, anche via web, quali ad esempio i siti internet delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell’aiuto e della cooperazione internazionale (quali ad esempio Amnesty International e Medici senza frontiere) che spesso contengono informazioni dettagliate e aggiornate (cfr. Cass. n. 13449 del 2019 per esteso).
16. Più recentemente (cfr. Cass. n. 15215 del 2020) è stato affermato il principio di diritto secondo il quale: “Le informazioni relative alla situazione esistente nel paese di origine del richiedente la protezione internazionale o umanitaria che il giudice di merito trae dalle C.O.I. o dalle altre fonti informative liberamente consultabili attraverso i canali informatici vanno considerate, in ragione della capillarità della loro diffusione e della facile accessibilità per la pluralità di consociati, alla stregua del fatto notorio; il dovere di cooperazione istruttoria che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, pongono a carico del giudice, nella materia della protezione internazionale ed umanitaria, impone allo stesso di utilizzare, ai fini della decisione, C.O.I. ed altre informazioni relative alla condizione interna del paese di provenienza o rimpatrio del richiedente, ovvero della specifica area di esso, che siano adeguatamente aggiornate e tengano conto dei fatti salienti interessanti quel Paese o area, soprattutto in relazione ad eventi di pubblico dominio, la cui mancata considerazione costituisce, in funzione della loro oggettiva notorietà, violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2 “.
17. Non può invece essere accolta la censura in relazione all’art. 14, lett. b), formulata sul presupposto di un danno grave che il richiedente potrebbe subire, in caso di rimpatrio, per le condizioni disumane di detenzione nel Paese di origine, a cui il medesimo potrebbe essere sottoposto perché evaso dalla prigione, in difetto di impugnazione del giudizio di non credibilità del racconto dal medesimo reso.
18. Inammissibile è poi la censura di motivazione contraddittoria sulla mancata audizione.
19. Secondo un orientamento espresso recentemente da questa Corte (cui anche questo Collegio intende fornire continuità applicativa, condividendone le ragioni), in riferimento al procedimento D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso non vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile” (v. Sez. 1, Sentenza n. 21584 del 07/10/2020; in senso conforme, anche Sez. 1, Sentenza n. 22049 del 13/10/2020, secondo cui “il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; in particolare il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza”; v. anche Cass. n. 2760 del 2021).
20. Nel caso di specie, il motivo di ricorso non trascrive né illustra in modo specifico il contenuto dell’istanza di audizione formulata nel giudizio di appello, sicché non è possibile valutare se la stessa fosse corredata dalla necessaria indicazione dei fatti dedotti a fondamento e dei profili di credibilità del racconto non approfonditi nelle precedenti fasi di giudizio; non può quindi affermarsi la contraddittorietà della motivazione di rigetto dell’istanza ove manchino elementi atti a dimostrare che la richiesta di audizione risultasse munita dei necessari requisiti di specificità.
21. Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, in relazione all’art. 10 Cost., comma 3, per avere la sentenza impugnata giudicato inconferente, ai fini della protezione umanitaria, l’elemento della integrazione del richiedente nel paese di accoglienza.
22. Nel ricorso si evidenzia la sproporzione esistente tra le condizioni del Gambia, di mancata tutela delle libertà democratiche, e la posizione del ricorrente, che ha lasciato il paese d’origine in giovane età e in condizioni di grave precarietà; che ha mostrato elementi di inserimento e apprezzamento sociale nel territorio nazionale, correlati con il percorso di integrazione e avvalorati dallo svolgimento continuativo di attività lavorativa.
23. La censura è fondata atteso che la motivazione adottata dai giudici di appello non appare conforme ai principi enunciati in sede di legittimità (v. Cass. n. 4455 del 2018; Cass. S.U. n. 29459 del 2019; v. anche Cass. n. 20124 del 2021; n. 3580 del 2021), recentemente ribaditi dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 24413 del 2021.
24. Quest’ultima pronuncia ha tratteggiato il fondamento della protezione umanitaria richiamando la tutela offerta dall’art. 8 Cedu alla vita privata, intesa come l’insieme di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia (relazioni familiari, ma anche affettive e sociali e naturalmente relazioni lavorative) e il disposto degli artt. 2 e 3 Cost., là dove quest’ultima tutela la persona “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e predica la “pari dignità sociale” di ogni persona (anche straniera, come chiarito dalla Corte costituzionale fin dagli anni ‘60, cfr., fra le tante, C. Cost. n. 120 del 1967); ha chiarito che “alla luce di tali disposizioni costituzionali…va individuato il senso e la tecnica della comparazione da effettuare tra ciò che il richiedente lascia in Italia e ciò che egli troverà nel suo Paese di origine, dovendo cioè valutarsi, nel giudizio sulla vulnerabilità, non solo il rischio di danni futuri – legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita”.
25. Ha precisato che la valutazione comparativa, in base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. 113 del 2018, “dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia…”
26. La medesima sentenza nell’individuare, tra gli indici socialmente rilevanti del livello di integrazione effettiva del richiedente nel nostro Paese, la titolarità di un rapporto di lavoro, ha fatto esplicito riferimento ai rapporti a tempo determinato, secondo la ragione pratica della maggiore diffusione di tale forma di accesso al mercato del lavoro.
27. Da tali premesse, di principi e di metodo, discende che il giudizio di valutazione comparativa demandato al giudice, di fronte ad una domanda di protezione umanitaria, esige una analisi ricostruttiva complessa della condizione di vulnerabilità esistente nel Paese di provenienza e di ciò che il richiedente ha realizzato, nel tempo di permanenza in Italia, creando relazioni di vita privata, di carattere sociale e lavorativo, secondo quello che il concreto meccanismo del mercato del lavoro, così come delle locazioni abitative e dei rapporti sociali, consente di ottenere in un determinato momento storico.
28. Poiché tale valutazione non è stata eseguita secondo i principi appena richiamati, anche il secondo motivo di ricorso deve trovare accoglimento.
29. Per le ragioni esposte, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 24 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022