Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.853 del 12/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6067-2020 proposto da:

N.F., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO UGO MELANO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

avverso la sentenza n. 1414/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 23/08/2019 R.G.N. 40/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/11/2021 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO.

RILEVATO

che:

1. La Corte d’appello di Torino ha respinto l’appello proposto da N.F., cittadino del Pakistan, avverso l’ordinanza del Tribunale che, confermando il provvedimento emesso dalla competente Commissione Territoriale, aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

2. Il richiedente aveva allegato di essere fuggito dal Pakistan perché ricercato dalla polizia come terrorista e per timore di essere condannato a morte.

3. La Corte d’appello ha confermato la valutazione di non credibilità del racconto espressa dal Tribunale, sottolineando alcuni aspetti di inverosimiglianza del racconto, ed esattamente la mancata cattura del richiedente successivamente all’attentato sventato dalla polizia, malgrado il predetto si fosse nascosto presso i propri parenti e fosse quindi facilmente rintracciabile; la mancata produzione da parte del medesimo di documenti atti a dimostrare l’emissione di un provvedimento cautelare nei suoi confronti, l’avvio di un procedimento penale o la pronuncia di una sentenza di condanna per l’atto terroristico risalente al 2011 (risultando di dubbia autenticità il doc. n. 3 relativo ad una “denuncia sporta nei confronti del ricorrente per i fatti occorsi la notte del 30 agosto 2011”), documenti che il predetto non avrebbe avuto difficoltà a procurarsi atteso che, come dallo stesso riferito, la sua famiglia d’origine viveva tuttora in Pakistan ed egli era stato assistito da un avvocato.

4. In ragione della ritenuta non credibilità del racconto, i giudici di appello hanno respinto, in quanto priva di base fattuale, la domanda di protezione internazionale, tenuto altresì conto che per i reati che si assume commessi dal richiedente non è prevista la condanna a morte, secondo quanto riconosciuto dalla sua difesa (pag. 10 del ricorso in appello). Hanno negato i presupposti per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sul rilievo che le fonti internazionali consultate non evidenziassero nella zona di provenienza del richiedente (il *****) una condizione di violenza indiscriminata. Hanno parimenti negato la protezione umanitaria in ragione della assenza di condizioni di vulnerabilità, quali violazioni dei diritti umani subite prima dell’espatrio oppure condizioni di vita al di sotto del limite di sopravvivenza nel paese d’origine, ed anche di una apprezzabile integrazione lavorativa (l’appellante ha prodotto una lettera di assunzione con contratto a tempo determinato dal marzo 2019 al 31.8.2019 che non prevede possibilità di rinnovo).

5. Avverso tale sentenza il richiedente la protezione ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

6. Il Ministero dell’Interno si è costituito al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

CONSIDERATO

che:

7. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonché del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, lett. f), e art. 8, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 2 lett. b) e dell’art. 5, comma 6, e art. 19 e succ. mod., del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3; del D.P.R. n. 394 del 2004, art. 28, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

8. Il ricorrente censura la sentenza d’appello per violazione del dovere di cooperazione istruttoria nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini della protezione internazionale, anche in relazione alla situazione reale del paese di provenienza e in merito agli elementi addotti per il riconoscimento della protezione umanitaria. Rileva inoltre che i giudici d’appello hanno fondato il rigetto della domanda sul giudizio di non credibilità del racconto, senza procedere all’audizione personale del medesimo nel contraddittorio delle parti, nonostante la complessità e gravità della vicenda personale narrata; il giudizio di non credibilità era fondato su clausole di stile e su una motivazione apparente, a fronte delle specifiche allegazioni del ricorrente sulle condizioni di pericolo rilevanti ai fini della protezione sussidiaria e sulla vulnerabilità che giustificherebbe il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

9. Il motivo di ricorso è solo in parte fondato.

10. E’ anzitutto da respingere la censura mossa in relazione alla mancata audizione del richiedente.

11. Secondo un orientamento espresso recentemente da questa Corte (cui anche questo Collegio intende fornire continuità applicativa, condividendone le ragioni), in riferimento al procedimento D.Lgs. n. 25 del 2008, ex 35 bis, “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso non vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile” (v. Sez. 1, Sentenza n. 21584 del 07/10/2020; in senso conforme, anche Sez. 1, Sentenza n. 22049 del 13/10/2020, secondo cui “il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; in particolare il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza”; v. anche Cass. n. 2760 del 2021).

12. Nel caso in esame, la censura risulta inammissibile perché il richiedente non spiega e non specifica gli aspetti del racconto non approfonditi nelle precedenti fasi di giudizio e che rendevano necessaria una nuova audizione.

13. Il motivo è invece fondato nella parte in cui denuncia la violazione dei criteri legali di valutazione della credibilità.

14. Anzitutto, osserva il Collegio come la valutazione di credibilità del racconto del richiedente la protezione internazionale, da condurre nel rispetto dei canoni legalmente previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, con riguardo al mancato rispetto dei suddetti parametri procedimentali è censurabile in cassazione anche sotto il profilo della violazione di legge mentre la valutazione di credibilità/non credibilità integra un apprezzamento di fatto rimesso alla valutazione del giudice del merito e come tale censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nei limiti oggi previsti (v., fra le tante: Cass. n. 28406 del 2020).

15. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha omesso di articolare la valutazione di credibilità del richiedente in relazione a ciascuno dei parametri di attendibilità rilevanti ai sensi del citato art. 3, comma 5, omettendo di applicare i canoni legali di interpretazione delle dichiarazioni e di rispettare la struttura “procedimentale” e “comprensiva” del ragionamento argomentativo imposto ai fini del controllo di quelle dichiarazioni.

16. La sentenza impugnata esprime un giudizio di non credibilità basandosi unicamente sulla mancanza di documenti attestanti la pendenza del procedimento penale instaurato nei confronti del ricorrente, l’emissione di un provvedimento cautelare o di una sentenza di condanna.

17. Il mancato rispetto del modello legale di lettura delle dichiarazioni rese dal richiedente asilo porta a ritenere fondato il primo motivo di ricorso.

18. Non appare invece fondata la censura di violazione del dovere di cooperazione istruttoria, atteso che la Corte di merito ha richiamato fonti attendibili e aggiornate (***** 2018).

19. Con il secondo motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonché motivazione apparente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Si assume che la Corte d’appello abbia omesso di valutare le censure relative alla situazione del paese di origine del ricorrente, alla condizione di insicurezza e instabilità dello stesso, rilevante ai fini della protezione sussidiaria, ed anche gli argomenti difensivi relativi all’attuale inserimento socio-economico del ricorrente, comparato con la situazione di costante violazione dei diritti umani nel ***** pakistano, presupposto per il rilascio del permesso di soggiorno umanitario.

20. Il secondo motivo è inammissibile perché deduce l’omesso esame delle doglianze difensive anziché di un fatto storico decisivo, e si colloca quindi all’esterno del perimetro del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

21. Con il terzo motivo si addebita alla sentenza d’appello la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, e succ. mod., del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3; del D.P.R. n. 394 del 2004, art. 28, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere tenuto conto dei seri motivi di carattere umanitario esplicitati dal ricorrente e provati con la documentazione prodotta in primo grado, ovvero da un lato la temporanea impossibilità di rimpatrio in Pakistan a causa dell’insicurezza del paese e dall’altro la condizione di inserimento sociale del ricorrente in Italia.

22. La censura è fondata, atteso che la motivazione adottata dai giudici di appello non appare conforme ai principi enunciati in sede di legittimità (v. Cass. n. 4455 del 2018; Cass. S.U. n. 29459 del 2019; v. anche Cass. n. 20124 del 2021; n. 3580 del 2021) e recentemente ribaditi dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 24413 del 2021.

23. Quest’ultima pronuncia ha tratteggiato il fondamento della protezione umanitaria richiamando la tutela offerta dall’art. 8 Cedu, alla vita privata, intesa come l’insieme di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia (relazioni familiari, ma anche affettive e sociali e naturalmente relazioni lavorative) e il disposto degli artt. 2 e 3 Cost., là dove quest’ultima tutela la persona “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e predica la “pari dignità sociale” di ogni persona (anche straniera, come chiarito dalla Corte costituzionale fin dagli anni ‘60, cfr., fra le tante, C. Cost. n. 120/1967); ha chiarito che “alla luce di tali disposizioni costituzionali…va individuato il senso e la tecnica della comparazione da effettuare tra ciò che il richiedente lascia in Italia e ciò che egli troverà nel suo Paese di origine, dovendo cioè valutarsi, nel giudizio sulla vulnerabilità, non solo il rischio di danni futuri – legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita”.

24. Ha precisato che la valutazione comparativa, in base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. 113 del 2018, “dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia…”.

25. La medesima sentenza nell’individuare, tra gli indici socialmente rilevanti del livello di integrazione effettiva del richiedente nel nostro Paese, la titolarità di un rapporto di lavoro, ha fatto esplicito riferimento ai rapporti a tempo determinato, secondo la ragione pratica della maggiore diffusione di tale forma di accesso al mercato del lavoro.

26. Da tali premesse, di principi e di metodo, discende che il giudizio di valutazione comparativa demandato al giudice, di fronte ad una domanda di protezione umanitaria, esige una analisi ricostruttiva complessa della condizione di vulnerabilità esistente nel Paese di provenienza e di ciò che il richiedente ha realizzato, nel tempo di permanenza in Italia, creando relazioni di vita privata, di carattere sociale e lavorativo, secondo quello che il concreto meccanismo del mercato del lavoro, così come delle locazioni abitative e dei rapporti sociali, consente di ottenere in un determinato momento storico.

27. La decisione impugnata si discosta sensibilmente dai principi appena richiamati in quanto svaluta apoditticamente il profilo dell’integrazione lavorativa, così vanificandone il rilievo ai fini di un corretto giudizio di comparazione, peraltro in ragione della natura a tempo determinato del contratto di lavoro, di per sé non dirimente.

28. Per le considerazioni svolte la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti (il primo e il terzo), con rinvio della causa alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che, nel procedere ad un nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, e il terzo motivo, dichiara inammissibile il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti a rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 24 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022

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