LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – Consigliere –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
Dott. GORI Pierpaolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10608/2013 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. *****), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrente –
contro
***** SRL IN FALLIMENTO, in persona del legale rappresentante p.t.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 71/06/2012 della COMM. TRIB. REG. del PIEMONTE, depositata il 19/10/2012, non notificata;
udita la relazione della causa svolta in data 14/04/2021 dal Consigliere PIERPAOLO GORI;
Lette le conclusioni scritte D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176 del 2020, formulate dal Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. De Augustinis Umberto, nel senso dell’accoglimento del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. La CTR di Torino accoglieva l’appello di ***** s.r.l. in fallimento, proposto contro la sentenza n. 65/12/2011 della CTP di Torino che respingeva il ricorso della società contribuente e così confermava l’avviso di accertamento per IVA 2004 con cui veniva disconosciuta la detrazione dell’imposta versata sul canone dovuto dalla contribuente per una locazione immobiliare di durata pari ad anni 18, a fronte della quale il canone era stato versato e fatturato il 22.12.2004 in unica soluzione per l’intera durata del rapporto.
2. La CTR, dato atto del fatto che la curatela fallimentare, dopo avere in primo grado abbandonato la domanda concernente il diniego di detrazione, aveva instato per la sola disapplicazione delle relative sanzioni, stante “l’obiettiva incertezza circa l’interpretazione della norma” (cfr. p. 2 sentenza) ha ritenuto, da un canto, che non fosse stata tardivamente proposta la domanda di annullamento delle sanzioni, atteso che detta richiesta doveva ritenersi già implicitamente ma chiaramente contenuta nella originaria domanda di totale annullamento dell’avviso.
3. D’altro canto, il giudice d’appello, sulla scorta del fatto che prima dell’emanazione della sentenza della Corte di Giustizia Halifax del 21.2.2006 nella causa C-255/02, con la quale era stato compiutamente individuato e definito l’istituto dell’abuso del diritto, “esisteva una obiettiva situazione di incertezza circa la legittimità o meno di determinate condotte, come quella per cui è causa” (cfr. p. 4 della sentenza gravata), ha ritenuto che ciò costituisse ragione idonea ad escludere l’applicazione delle sanzioni, a mente del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8.
4. L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, mentre la società contribuente non si è difesa. Il Collegio della Sezione VI-5, con ordinanza n. 22644/2015 depositata in data 5.11.2015, a seguito della discussione in camera di consiglio, ha ritenuto non sussistenti i presupposti ex art. 375 c.p.c., per la decisione con il rito camerale, per assenza di precedenti giurisprudenziale e di manifesta evidenza decisoria, e la causa è stata rimessa alla presente udienza pubblica della Sezione V civile – tributaria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
5. Deve essere, in via preliminare, esaminata la questione degli effetti derivanti dalla circostanza che le conclusioni del Procuratore generale sono state formulate e spedite alla cancelleria della Corte in data 31 marzo 2021, dunque tardivamente (di un giorno) rispetto al termine prescritto dal D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176 del 2020), che lo individua nel “quindicesimo giorno precedente l’udienza” (nella specie corrispondente al 30 marzo), prevedendo poi – in conformità alla regola generale – che i difensori delle parti possono depositare memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c., “entro il quinto giorno antecedente l’udienza”.
Il Collegio ritiene che la tardività sia fonte di nullità processuale di carattere relativo, la quale, pertanto, resta sanata a seguito dell’acquiescenza delle parti ai sensi dell’art. 157 c.p.c.. Premesso, infatti, che l’intervento del Procuratore generale nelle udienze pubbliche dinanzi alle Sezioni unite civili e alle Sezioni semplici della Corte di cassazione è obbligatorio – a pena di nullità assoluta rilevabile d’ufficio ex art. 70 c.p.c., e art. 76 ord. giud., – in ragione del ruolo svolto dal Procuratore generale a tutela dell’interesse pubblico, la tempestività dell’intervento, in relazione al disposto del citato D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, opera invece esclusivamente a tutela del diritto di difesa delle parti, con la conseguenza che deve ritenersi rimessa a queste ultime la facoltà – e l’onere – di eccepirne la tardività, in base alla disciplina prevista per le nullità relative.
6. Con il primo motivo di ricorso – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – l’Agenzia deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24, per il fatto che il giudice d’appello abbia provveduto ultra petita partium, sull’erroneo presupposto che la domanda – per quanto non espressamente formulata – si trovasse in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate. In tal modo il giudicante avrebbe violato il menzionato art. 24, consentendo una inammissibile mutatio libelli sulla scorta di una domanda del tutto nuova rispetto a quella originale.
7. Il motivo è inammissibile. La CTR ha affermato non già che la domanda relativa alla non applicabilità delle sanzioni fosse da considerarsi in rapporto di necessaria connessione, ma bensì che detta domanda dovesse ritenersi implicitamente ma chiaramente proposta dalla parte ricorrente con l’atto introduttivo di primo grado e, sotto il profilo evidenziato, la censura è incongruente con la decisione.
Inoltre, ai fini di eventualmente valutare la sussistenza dell’errore denunciato la parte ricorrente avrebbe dovuto innanzitutto dettagliare con modalità rispettose dei canoni di decisività e autosufficienza come fosse stata effettivamente prospettata la domanda dalla parte ricorrente nel primo grado di giudizio, solo in tal modo essendo dato alla Corte di effettuare una verifica in concreto dell’esistenza del vizio valorizzato.
8. Non è d’altronde da sottacere che anche nel percorso logico di sussunzione della censura nel paradigma processuale di vizio valorizzato si anniderebbe una ulteriore ragione di inammissibilità del motivo di impugnazione. Si deve qui rimarcare che è stato molte volte enunciato dalla Corte Suprema il principio secondo il quale: “L’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, per cui, ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata – ed era compresa nel “thema decidendum” – tale statuizione, ancorché in ipotesi erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato l’erroneità di quella medesima motivazione. In tal caso, il dedotto errore del giudice non si configura come “error in procedendo”, ma attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte, e non a quello inerente a principi processuali, sicché detto errore può concretizzare solo una carenza nell’interpretazione di un atto processuale, ossia un vizio sindacabile in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione”. (Cass. Sez. L, Sentenza n. 2630 del 05/02/2014, Rv. 630372 – 01; conforme, Cass. Sez. L, Sentenza n. 21874 del 27/10/2015, Rv. 637389 – 01).
9. Con il secondo motivo la ricorrente – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – prospetta la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, per avere il giudice d’appello omesso di considerare che la menzionata sentenza “Halifax” aveva semplicemente evidenziato un fenomeno già conosciuto e contrastato nell’ordinamento interno da lungo tempo, e cioè la realizzazione di atti elusivi atipici il cui divieto è immanente nel sistema perché derivante da precetto costituzionale, fenomeno la cui repressione non trova la fonte nella menzionata sentenza della Corte di Giustizia, ma nelle norme dell’ordinamento positivo, quali principalmente il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, e la L. n. 408 del 1990, art. 10. Nessun operatore avveduto avrebbe potuto quindi confidare nella liceità di condotte simili a quella oggetto di causa, indipendentemente da una formale sua connotazione negativa da parte dell’ordinamento positivo. D’altronde, l’esimente prevista dall’art. 8, la quale suppone l’esistenza di un errore scusabile, è concettualmente incompatibile con l’abuso del diritto, atteso che la condotta che costituisce un simile abuso è connotata necessariamente da un elemento soggettivo qualificabile come “dolo specifico”, e cioè la volontà di porre in essere una costruzione artificiale finalizzata ad aggirare gli obblighi tributari.
10. Il motivo è fondato. La questione posta all’attenzione della Corte riguarda la sussistenza dei presupposti della disapplicazione della previsione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, con riferimento alle sanzioni per la violazione di un precetto che, sia pure immanente nell’ordinamento, è stato nondimeno delineato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e codificato allo Statuto dei diritti del contribuente, art. 10 bis, (L. 27 luglio 2000, n. 212), (rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”) dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1, (recante “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”), solo successivamente al compimento delle condotte oggetto di provvedimento sanzionatorio. A proposito dell’ambito di applicazione della disposizione citata vi sono infatti orientamenti non perfettamente univoci nella giurisprudenza di legittimità, si vedano al proposito l’ordinanza Cass. Sez. 6 – 5, n. 17250 del 29/07/2014 nella quale si menzionano “difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge”, mentre la sentenza espressa da Cass. Sez. 5, n. 440 del 14/01/2015 fa invece riferimento a “disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, (la quale) contenga una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione”.
11. La Corte non condivide l’assunto secondo cui sussisterebbe incompatibilità strutturale e logica tra abuso del diritto e l’esimente di cui si tratta, atteso che è principio già enunciato da codesta Corte, ed estensibile a qualsivoglia fattispecie atipica di elusione per distorsione degli effetti ordinari di istituti giuridici tipici, quello secondo il quale: “La norma antielusiva prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, non presuppone un comportamento fraudolento, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante (perché non sorretto da valutazioni economiche diverse dal profilo fiscale) di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale proprio dell’operazione che costituisce il presupposto d’imposta”. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8487 del 08/04/2009; ma si vedano anche Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12788 del 10/06/2011; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 449 del 10/01/2013; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25671 del 15/11/2013).
12. Nondimeno, il Collegio ritiene che l’errore sulla norma tributaria, di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, giustificato da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito delle disposizioni alle quali si riferisce, può prospettarsi solo quando sussistano “elementi positivi di confusione”, derivanti dalla equivocità di singole prescrizioni ovvero dal coordinamento concettualmente difficoltoso, per equivocità di contenuto, quando la disciplina normativa da applicare si articoli in una pluralità di prescrizioni (in termini la consolidata giurisprudenza, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9320 del 20/04/2006 e Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18031 del 24/07/2013), elementi che è onere del contribuente allegare ed è compito del giudice valutare alla stregua del canone di ragionevolezza.
13. Del tutto irrilevante è invece in quest’ottica l’incertezza soggettiva in ordine alla liceità di una specifica condotta, giustificata dall’assunto che i contorni dell’istituto giuridico nell’ambito del quale sussumere detta condotta non siano adeguatamente chiari (ovvero che l’ordinamento nazionale non ne abbia fatto adeguata chiarezza, in relazione all’origine Eurounitaria dell’istituto giuridico in questione) anteriormente all’adozione di una pronuncia giudiziaria che ne abbia precisato i contorni.
14. Sul punto già Cass. Sez. 5, Sentenza n. 18434 del 26/10/2012 (più di recente, conforme, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 3108 del 01/02/2019, Rv. 652716 – 01) ha evidenziato che assume rilevanza a questo fine solo l’esistenza di incertezze ed ambiguità della normativa interna, o la difformità di essa da quella comunitaria, ed ha escluso che l’incertezza normativa obiettiva possa derivare dal mancato tempestivo coordinamento ed adeguamento delle normative dei diversi Paesi della U.E.. Ciò può soltanto prospettarsi essersi verificato in riferimento alla specie di causa, vertendosi in materia di tributi armonizzati, ma al proposito non può non tenersi conto del fatto che la Corte di Giustizia ha chiaramente dichiarato, nella citata sentenza “Halifax” che “la sesta direttiva dev’essere interpretata come contraria al diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA assolta a monte allorché le operazioni che fondano tale diritto integrano un comportamento abusivo” (p. 85, ibidem) ed inoltre che “perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni” (dispositivo, punto 2, ibidem), così evidenziando l’esistenza di un diritto positivo, generalmente cogente, preesistente rispetto alla pronuncia giurisdizionale che null’altro ha fatto se non darvi enunciazione rispetto alla specie di causa. Il principio è ulteriormente condiviso ed applicato da Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 23845 del 23/11/2016 e da Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 3108 del 01/02/2019; v. anche Cass. n. 33593/19.
15. E’ ben vero, d’altronde, che proprio nella menzionata sentenza della CGUE al p. 93 si afferma espressamente: “Occorre altresì ricordare che la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’IVA assolta a monte (v., in tal senso, sentenza Emsland-Starke, cit., punto 56)”.
16. Orbene, le successive pronunce di codesta Corte Suprema hanno fatto applicazione della giurisprudenza del giudice del Lussemburgo affermando che: “In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accerta tori emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l’applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento volto a contrastare il fenomeno l’abuso del diritto”. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25537 del 30/11/2011; conforme Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 34750 del 31/12/2019). La stessa pronuncia afferma expressis verbis e con chiaro riferimento all’argomento contenuto nella menzionata sentenza della CGUE che nel nostro ordinamento interno “tale fondamento normativo “chiaro ed univoco” è attualmente esistente”.
17. Ne’ è prospettabile che si tratti di un precetto privo di sanzione: esiste infatti nell’ordinamento positivo un’espressa previsione generale, il D.P.R. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, la quale sanziona la condotta di indicazione nella dichiarazione, ai fini delle singole imposte di un “reddito o un valore della produzione imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un’imposta inferiore a. quella dovuta o un credito superiore a quello spettante”, con altrettanto espressa determinazione di sanzione amministrativa specificamente correlata all’anzidetta condotta. E’ perciò da escludersi che il generale principio della riserva di legge in materia tributaria, letto unitamente al correlato principio del divieto di estensione analogica di norme sanzionato-rie, costituisca ostacolo per attribuire rilevanza sul piano punitivo amministrativo delle condotte che, con abuso del diritto, realizzino l’effetto di sottrazione di ricchezza imponibile.
18. In conseguenza di quanto precede deve così affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di IVA e di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, non essendovi incompatibilità strutturale e logica tra abuso del diritto e l’esimente di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, non sussistono i presupposti per la disapplicazione – alla luce della giurisprudenza Halifax della Corte di Giustizia – della previsione menzionata con riferimento alle sanzioni per la violazione di principio generale antielusivo il quale, sia pure espressamente delineato e codificato solo successivamente al compimento delle condotte oggetto di provvedimento sanzionatorio, è nondimeno principio immanente nell’ordinamento. (Fattispecie riferita ad un comportamento del contribuente risalente al 2004, antecedente all’elaborazione giurisprudenziale in materia di divieto di abuso del diritto da parte della sentenza Halifax della Corte di Giustizia, causa C-255/02, depositata il 21 febbraio 2006 e all’introduzione dell’10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente, L. 27 luglio 2000, n. 212, ad opera del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1, recante “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”.).”.
19. Non resta che concludere nel senso che l’erroneità del principio applicato dal giudice del merito, in riferimento alla disapplicazione della sanzione a mente del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, non appare neppure emendabile dalla Corte nell’esercizio della facoltà consentita dall’art. 384 c.p.c., u.c., a mezzo della correzione della motivazione, con conferma del dispositivo.
Alla cassazione della pronuncia impugnata deve fare quindi seguito la rimessione della questione al giudicante del merito in relazione al profilo, affinché riesamini la lite alla luce dell’enunciato principio, e così verifichi se la sanzione inflitta sia coerente con la specie prevista nell’ordinamento e si determini per conseguenza in relazione alla materia controversa, oltre che per la liquidazione delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte: accoglie il secondo motivo di ricorso, inammissibile il primo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la controversia alla CTR del Piemonte, in diversa composizione, per ulteriore esame in relazione al profilo e per la liquidazione delle spese di lite.
Così deciso in Roma, il 14 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2022