LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7036/2021 proposto da:
MNEME S.R.L., elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI LAURO;
– ricorrente –
contro
RELAIS SPV S.R.L. e RELAIS LEASCO S.R.L. e, per esse, DO VALUE S.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell’avvocato MARCO FILESI, rappresentata e difesa dagli avvocati MICHELE LIONELLO SAVASTA FIORE e SIMONELLO SAVASTA FIORE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 818/2020 della CORTE D’APPELLO DI TORINO, depositata il 18/08/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 01/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO DELL’UTRI.
RILEVATO
che:
con sentenza resa in data 18/8/2020 (n. 818/2020), la Corte d’appello di Torino, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla Unicredit Leasing s.p.a. (e per essa dalla do Bank s.p.a.), e in parziale riforma della decisione (non definitiva) di primo grado, ha accertato l’avvenuta risoluzione, ai sensi dell’art. 1456 c.c., del contratto di locazione finanziaria intercorso tra la Unicredit Leasing s.p.a. (quale concedente) e la Mneme s.r.l. (quale utilizzatrice) avente ad oggetto la concessione del godimento di un bene immobile;
a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha evidenziato (diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice) come, secondo le disposizioni contrattuali convenute tra le parti, queste ultime avevano riservato alla società concedente, ai sensi dell’art. 1456 c.c., la facoltà di ritenere risolto il contratte in caso di inadempimento dell’utilizzatrice agli obblighi contrattualmente assunti, previa manifestazione della volontà di avvalersi di tale clausola risolutiva espressa: ciò che era propriamente avvenuto nel caso di specie, a seguito dell’avvenuta dimostrazione, da parte della Unicredit Leasing s.p.a., della conclusione del contratto, della consegna dell’immobile, dell’attestazione del mancato adempimento, da parte dell’utilizzatrice, all’obbligo di pagamento di taluni canoni e della formale comunicazione, dalla concedente alla controparte, di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa prevista dal contratto, art. 21;
avverso la sentenza d’appello, la Mneme s.r.l. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione;
la Relais SPV s.r.l. e la Relais Leasco s.r.l. (quali cessionarie, la prima, dei crediti della Unicredit Leasing s.p.a. verso la Mneme s.r.l., e la seconda dell’immobile ceduto in godimento a quest’ultima) e, per esse, la do Value s.p.a., resistono con controricorso (e contestuale comparsa di intervento), cui ha fatto seguito il deposito di successiva memoria;
a seguito della fissazione della Camera di consiglio, la causa è stata trattenuta in decisione all’odierna adunanza camerale, sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 1366 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale interpretato le clausole del contratto di leasing concluso tra le parti in violazione del principio che impone l’interpretazione secondo buona fede degli accordi negoziali, con particolare riguardo alla ritenuta attribuzione, alla società concedente, della facoltà di avvalersi insindacabilmente della clausola risolutiva espressa prevista dal contratto, art. 21, senza alcuna necessità della previa intimazione, nelle forme convenute con il medesimo contratto, art. 20 (da ritenersi inscindibilmente connesso al successivo art. 21), di provvedere al pagamento di quanto complessivamente dovuto, in tal modo determinando un evidente e intollerabile squilibrio delle posizioni contrattuali delle parti;
il motivo è manifestamente infondato;
osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione degli atti negoziali deve ritenersi indefettibilmente riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità unicamente nei limiti consentiti dal testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ovvero nei casi di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3;
in tale ultimo caso, peraltro, la violazione denunciata chiede d’essere necessariamente dedotta con la specifica indicazione, nel ricorso per cassazione, del modo in cui il ragionamento del giudice di merito si sia discostato dai suddetti canoni, traducendosi altrimenti, la ricostruzione del contenuto della volontà delle parti, in una mera proposta reinterpretativa in dissenso rispetto all’interpretazione censurata; operazione, come tale, inammissibile in sede di legittimità (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 17427 del 18/11/2003, Rv. 568253);
nel caso di specie, l’odierna società ricorrente si è limitata ad affermare, in termini irriducibilmente soggettivi, la violazione del canone interpretativo della buona fede contrattuale (art. 1366 c.c.), orientando l’argomentazione critica rivolta nei confronti dell’interpretazione fatta propria dalla corte territoriale, non già attraverso la prospettazione di un’evidente contrarietà della lettura dei giudice a quo al principio che impone il rispetto, tra le parti, di una conveniente misura di reciproca correttezza al fine di garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso dei diritto, bensì attraverso l’indicazione degli aspetti della ritenuta non condivisibilità della lettura interpretativa criticata, rispetto a quella ritenuta preferibile, in tal modo travalicando i limiti propri del vizio della violazione di legge (ex art. 360 c.p.c., n. 3) attraverso la sollecitazione della corte di legittimità alla rinnovazione di una non consentita valutazione di merito;
sul punto, è appena il caso di rilevare come la corte territoriale abbia proceduto alla lettura e all’interpretazione del testo contrattuale in esame nel pieno rispetto dei canoni di ermeneutica fissati dal legislatore (e, segnatamente, di quello sancito dall’art. 1366 c.c.), dovendo escludersi che la previsione del potere del concedente di avvalersi di una clausola risolutiva espressa per il caso di inadempimento della controparte agli obblighi contrattualmente assunti, possa valere, di per sé (indipendentemente dal previo rispetto di un procedimento negoziale, quale quello delineato nel contratto in esame, art. 20, ritenuto non estensibile, nei termini pretesi dall’odierna società ricorrente, al caso del richiamo alla clausola risolutiva espressa di cui al successivo art. 21) a determinare un assetto negoziale incompatibile con l’esigenza di un equo e ragionevole contemperamento degli interessi disposti dalle parti;
deve piuttosto ritenersi come l’interpretazione fatta propria dal giudice a quo sia giunta alla ricognizione di un contenuto negoziale sufficientemente congruo, rispetto al testo interpretato, e del tutto scevro da residue incertezze, avendo la corte territoriale armonizzato, con una misura di innegabile coerenza, il senso letterale delle parole al complessivo significato economico dell’operazione posta in essere dalle parti, sì da sfuggire integralmente alle odierne censure avanzate dalla ricorrente in questa sede di legittimità;
con il secondo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1366,1375,1419, comma 1, e 1455 c.c., nonché dell’art. 2 Cost. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente omesso di rilevare come, anche in caso di operatività della clausola risolutiva espressa, l’esercizio delle prerogative del contraente non adempiente debba essere commisurato al parametro della buona fede contrattuale: evenienza non rispettata nel caso di specie, avendo la società concedente manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa in presenza di un inadempimento assolutamente irrilevante rispetto al valore complessivo del contratto (e, dunque, al suo concreto significato economico), con il conseguente rilievo dei carattere abusivo della pretesa della controparte di veder risolto il contratto nella prospettiva del valore integrativo dei principi della buona fede contrattuale e della solidarietà costituzionale;
il motivo è manifestamente infondato;
osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, la presenza di una clausola risolutiva espressa in seno a una convenzione negoziale rende irrilevante ogni indagine intesa a stabilire se l’inadempimento sia sufficientemente grave da giustificare l’effetto risolutivo (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 29301 del 12/11/2019, Rv. 655842 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 3102 del 17/03/2000, Rv. 534835 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10815 del 17/10/1995, Rv. 494260 – 01);
ciò posto, una volta esclusa l’illegittimità della clausola risolutiva espressa, così come conformata dalla volontà delle parti (secondo l’interpretazione correttamente fornitane dal giudice d’appello), del tutto legittimamente il giudice a quo ha negato che l’esercizio in concreto della prerogativa di avvaletene, da parte della società concedente, abbia integrato un’ipotesi di abuso del proprio diritto potestativo (o di comportamento contrario alla buona fede contrattuale), vieppiù in relazione al tema della gravità dell’inadempimento dell’utilizzatore in relazione all’economia complessiva del contratto: gravità (o non “scarsa importanza”, secondo la dizione letterale di cui all’art. 1455 c.c.) che le stesse parti ebbero già preventivamente a valutare, attraverso la previsione della clausola in esame, nel libero esercizio della propria autonomia negoziale;
sulla base delle argomentazioni sin qui illustrate, rilevata la complessiva manifesta infondatezza delle censure esaminate, dev’essere pronunciato il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna della società ricorrente al rimborso, in favore della società controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo;
dev’essere infine attestata la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 7.200,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge. –
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, della Corte Suprema di Cassazione, il 1 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2022
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