Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.981 del 13/01/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5878-2020 proposto da:

A.O., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANIA SANTILLI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Milano, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 3401/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 02/08/2019 R.G.N. 3516/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/11/2021 dal Consigliere Dott.ssa PONTERIO CARLA.

Rilevato

che:

1. La Corte d’appello di Milano ha respinto l’appello proposto da A.O., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza del Tribunale che, confermando il provvedimento emesso dalla competente Commissione Territoriale, aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

2. Il richiedente aveva allegato di essere originario del villaggio di Ugo, nell’Edo State; di essere cristiano, di avere moglie e due figlie e di avere vissuto a Benin City; di aver lavorato saltuariamente per un uomo proprietario di parecchie case e di avere solo successivamente scoperto che questi era il leader di un gruppo cultista; che quest’uomo gli aveva chiesto di entrare a far parte del gruppo cultista; che a seguito del suo rifiuto, il gruppo di cultisti aveva fatto irruzione nella sua abitazione picchiando lui e la sua famiglia e minacciandoli di morte; che era stato costretto ad abbandonare la casa che aveva ricevuto in affitto da quell’uomo; che prima di rifugiarsi nel villaggio natio si era recato presso la polizia; che aveva poi deciso di partire per la Libia per lavorare e cercare migliori condizioni di vita anche per la sua famiglia.

3. La Corte d’appello ha giudicato non credibile, conformemente al Tribunale, il racconto del ricorrente a causa delle numerose contraddizioni rilevate, sia sull’epoca della morte del padre e sia sulle ragioni per cui aveva deciso di allontanarsi dal villaggio natio (a causa della presenza dei cultisti, secondo quanto dichiarato dinanzi al giudice; perché nel villaggio non vi era futuro per sé e la famiglia, come dichiarato dinanzi alla Commissione); ha ritenuto che il rapporto di polizia prodotto fosse inidoneo a supportare il racconto del richiedente sulle pressioni del capo cultista per la sua affiliazione, in quanto privo di attestazione di genuinità rilasciata dalla competente Ambasciata. Ha quindi negato lo status di rifugiato ed escluso i presupposti per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); riguardo alla domanda di protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha rilevato che una condizione di violenza indiscriminata, legata alla presenza del gruppo terroristico denominato Boko Haram, sussistesse unicamente nel nord del paese e non interessasse la zona di provenienza del richiedente, Edo State, ove è situata la città di Benin City. Ha parimenti negato la protezione umanitaria ritenendo che il livello di integrazione sociale raggiunto dal richiedente in Italia, tramite l’esercizio dell’attività di falegname, non costituisse elemento sufficiente in quanto tale forma di protezione trova fondamento unicamente nella violazione dei diritti umani ai danni del richiedente nel paese di origine.

4. Avverso tale sentenza il richiedente la protezione ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

5. Il Ministero dell’Interno si è costituito al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

CONSIDERATO

che:

6. Col primo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione, il travisamento e l’omessa valutazione di tutti gli elementi di fatto e della situazione socio-politica della Nigeria. In primo luogo, si afferma che la sentenza, in merito allo status di rifugiato, non presenta un approccio critico e/o interpretativo della legge, dedicando ben poca attenzione all’esame della vicenda in fatto del richiedente. La Corte si è limitata a ritenere non credibile la vicenda narrata senza svolgere alcuna indagine suppletiva, nonostante il ricorrente avesse dettagliatamente circostanziato tempo e luoghi del suo racconto.

7. Il motivo è inammissibile sia quanto al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, dedotto senza specifico riferimento all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, secondo i parametri descritti dalle S.U. di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014), e sia riguardo al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, mancando l’indicazione delle norme di legge violate e delle affermazioni contenute nella sentenza d’appello che si pongano in contrasto con esse. Neppure è configurabile il vizio di motivazione atteso che la sentenza soddisfa il minimo costituzionale come delineato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite. Per il resto, le censure si risolvono in una critica alla valutazione in fatto compiuta dai giudici di merito, come reso esplicito dalla stessa rubrica del motivo in esame, e non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità.

8. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione ed errata applicazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con L. n. 722 del 1954, della dir. 2004/83/CE, attuata con D.Lgs. n. 251 del 2007, e, in particolare, dello stesso D.Lgs n. 251 del 2007, artt. 2,7,8 e 14, nonché per omesso esame di circostanze decisive ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere lo status di rifugiato, visto il giustificato timore del predetto di essere perseguitato per la sua religione (cristiana) e per il rifiuto di aderire alla setta cultista.

9. Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, e art. 27, comma 1 bis, del D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, direttiva 2013/32/UE, art. 2, comma 1 lett. g). Si addebita alla sentenza impugnata l’omissione di un accertamento sul sistema legale e sulle effettive capacità di protezione interna nel paese d’origine rispetto al rischio a cui il ricorrente era sottoposto, di violenza da parte dello zio e degli organi statuali e della comunità di appartenenza in relazione al suo credo religioso cristiano.

10. Con il quarto motivo si addebita alla sentenza d’appello la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 richiamato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2 lett. F; si deduce la violazione di legge, in particolare, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, stante la violazione dei parametri normativi per la definizione del danno grave nonché l’omesso esame dell’assenza di possibilità concrete, per il ricorrente, di far ricorso alla protezione interna alla comunità di appartenenza, vista la legislazione del paese, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 Nello specifico, il ricorrente sostiene che la Corte d’appello non ha adempiuto al dovere di cooperazione istruttoria avendo richiamato COI che risalgono all’anno 2015 e al 2011.

11. Con il quinto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dei parametri normativi per la definizione di conflitto armato e violenza indiscriminata nonché del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, richiamato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, lett. f, con particolare riferimento alla lett. c) dell’art. 14, nonché violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. Si assume che i giudici di appello si siano basati su report che non attengono alla situazione attuale del paese d’origine del ricorrente e comunque non aggiornati.

12. Con il sesto motivo, il ricorrente denuncia – ex art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5 – la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in ordine alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità rilevante ai fini della protezione umanitaria; deduce inoltre l’omesso esame di fatti e documenti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima. Deduce inoltre la violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, 4, 7, 14, 16, 17; la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 10, 32, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 10, Cost.. Sottolinea che la Corte d’appello di Milano ha omesso di valutare la condizione di vulnerabilità, vagliando la situazione del Paese di origine in rapporto alle condizioni personali dello stesso.

13. Si esaminano in via prioritaria il quinto ed il sesto motivo che sono fondati e meritano accoglimento.

14. Questa Corte ha chiarito che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), è dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base ad un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione (Sez. 6 – 1, n. 17075 del 28/06/2018, Rv. 649790 – 01), e specifico, nel senso che deve dar conto delle fonti di informazione consultate (Sez. 6 – 1, n. 11312 5 del 26/04/2019, Rv. 653608 – 01): infatti “Il riferimento operato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, alle “fonti informative privilegiate” deve essere interpretato nel senso che è onere del giudice specificare la fonte in concreto utilizzata e il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità di tale informazione rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione” (Sez. 1 -, n. 13449 del 17/05/2019, Rv. 653887 – 01). Inoltre, il requisito della individualità della minaccia grave alla vita o alla persona di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), non è subordinato, in conformità alle indicazioni della Corte di Giustizia UE (sentenza 17 febbraio 2009, in C-465/07), vincolante per il giudice di merito, alla condizione che il richiedente “fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale”, in quanto la sua esistenza può desumersi anche dal grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, da cui dedurre che il rientro nel Paese d’origine determinerebbe un rischio concreto per la vita del richiedente (Sez. 6 – 1, n. 16202 del 30/07/2015, Rv. 636614 – 01).

15. In base a tali condivisibili principi, incorre nella violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, oltre che nel vizio di motivazione apparente, la pronuncia che, nel prendere in considerazione la situazione generale esistente nel paese di origine del richiedente, si basi su fonti informative non aggiornate o comunque si limiti a valutazioni generiche e parziali, senza indicare i dati esaminati per giungere alle conclusioni assunte, eludendo la necessaria complessità dell’indagine richiesta.

16. Ciò è quanto avvenuto nel caso di specie, in cui la Corte territoriale si è limitata a richiamare, per escludere ogni ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e per ritenere che la condizione attuale della Nigeria, Paese di origine del richiedente, non fosse interessata da conflitti armati interni ed internazionali, fonti assolutamente non aggiornate in quanto risalenti al 2015, ed anche inidonee a fornire dati di conoscenza specifici in ordine al dedotto problema delle persecuzioni di carattere religioso.

17. Anche il sesto motivo, con cui si censura il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, è fondato.

18. La Corte d’appello ha in proposito osservato che “il livello di integrazione sociale che il richiedente avrebbe raggiunto in Italia, tramite l’esercizio dell’attività di falegname, non può essere considerato in sé elemento sufficiente al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che trova fondamento unicamente nella violazione dei diritti umani ai danni del richiedente nel proprio Paese di origine”.

19. Il percorso motivazionale della sentenza impugnata si pone in antitesi con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 4455 del 2018; Cass. S.U. n. 29459 del 2019; v. anche Cass. n. 20124 del 2021; n. 3580 del 2021) e recentemente ribadito dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 24413 del 2021.

20. Quest’ultima pronuncia ha tratteggiato il fondamento della protezione umanitaria richiamando la tutela offerta dall’art. 8 Cedu alla vita privata, intesa come l’insieme di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia (relazioni familiari, ma anche affettive e sociali e naturalmente relazioni lavorative) e il disposto degli artt. 2 e 3 Cost., là dove quest’ultima tutela la persona “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e predica la “pari dignità sociale” di ogni persona (anche straniera, come chiarito dalla Corte costituzionale fin dagli anni ‘60, cfr., fra le tante, C. Cost. n. 120 del 1967); ha chiarito che “alla luce di tali disposizioni costituzionali…va individuato il senso e la tecnica della comparazione da effettuare tra ciò che il richiedente lascia in Italia e ciò che egli troverà nel suo Paese di origine, dovendo cioè valutarsi, nel giudizio sulla vulnerabilità, non solo il rischio di danni futuri – legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita”.

21. Ha precisato che la valutazione comparativa, in base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. 113 del 2018, “dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia…”.

22. La medesima sentenza nell’individuare, tra gli indici socialmente rilevanti del livello di integrazione effettiva del richiedente nel nostro Paese, la titolarità di un rapporto di lavoro, ha fatto esplicito riferimento ai rapporti a tempo determinato, secondo la ragione pratica della maggiore diffusione di tale forma di accesso al mercato del lavoro.

23. Da tali premesse, di principi e di metodo, discende che il giudizio di valutazione comparativa demandato al giudice, di fronte ad una domanda di protezione umanitaria, esige una analisi ricostruttiva complessa della condizione di vulnerabilità esistente nel Paese di provenienza e di ciò che il richiedente ha realizzato, nel tempo di permanenza in Italia, creando relazioni di vita privata, di carattere sociale e lavorativo, secondo quello che il concreto meccanismo del mercato del lavoro, così come delle locazioni abitative e dei rapporti sociali, consente di ottenere in un determinato momento storico.

24. Nel caso di specie, la valutazione comparativa, secondo il descritto il criterio inversamente proporzionale, è stata del tutto omessa sulla base di motivazioni errate in diritto, e peraltro la mancanza di una condizione di vulnerabilità nel Paese di provenienza è stata affermata in assenza della doverosa indagine tramite fonti informative attuali e attendibili.

25. I restanti motivi restano assorbiti.

26. Per le ragioni esposte, accolti il quinto ed il sesto motivo di ricorso, dichiarato inammissibile il primo ed assorbiti i restanti motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il quinto ed il sesto motivo di ricorso, dichiara inammissibile il primo motivo ed assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472