LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14221/2015 R.G. proposto da:
JOB ART S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore giudiziale, D.G., V.G., C.R., P.D., tutti rappresentati e difesi, in forza di mandati a margine del ricorso, dagli avv.ti Loris Tosi e Giuseppe Marini ed elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo, in Roma, via Monti Parioli, n. 48;
– ricorrenti –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge;
– resistente –
avverso la sentenza n. 1876/24/14 della Commissione tributaria regionale del Veneto depositata il 24 novembre 2014;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 novembre 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Troncone Fulvio, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. L’Agenzia delle entrate notificò alla JOB ART s.r.l. in liquidazione ed ai soci D.G., V.G., C.R. e P.D. avviso di accertamento, in relazione all’anno d’imposta 2003, ai fini del recupero a tassazione di Irap, Irpeg e I.V.A., contestando l’omessa contabilizzazione di ricavi e di una plusvalenza derivante dalla cessione di immobile.
Secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, la ripresa fiscale traeva origine da una nota informativa inviata all’Ufficio finanziario dal liquidatore giudiziale della società contribuente, Monica Auditore, con la quale era stato segnalato che, a seguito di contrasti insorti tra i soci V. e D., già amministratori della società, per la ripartizione dei ricavi della vendita dei beni sociali, sulla base di una consulenza tecnica d’ufficio era stato redatto un lodo arbitrale che aveva accertato l’avvenuta ripartizione tra i soci di tutti i proventi realizzati con la vendita dei beni strumentali della società e delle merci prodotte e l’omessa registrazione di dette poste attive in contabilità e in bilancio.
2. Contro gli avvisi di accertamento la società ed i soci proposero ricorso, eccependo la decadenza dell’Amministrazione dal potere impositivo per decorso del termine, stante l’inapplicabilità del raddoppio dei termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, l’illegittimità dell’avviso di accertamento perché sottoscritto da funzionario non avente la qualifica dirigenziale e l’illegittimità dell’avviso emesso a carico dei soci ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36.
La Commissione tributaria provinciale di Padova, previa riunione dei ricorsi, confermò l’accertamento a carico della società, annullando la ripresa a tassazione a carico dei soci per inapplicabilità del raddoppio dei termini di accertamento.
3. Avverso la suddetta decisione proposero appello sia le parti contribuenti sia l’Agenzia delle entrate.
La Commissione tributaria regionale, accogliendo l’appello dell’Ufficio e rigettando quello incidentale dei contribuenti, confermò gli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e dei soci.
Rigettate le eccezioni di decadenza dal potere impositivo e di violazione del preventivo contraddittorio, nonché quella di nullità dell’atto impositivo perché sottoscritto da funzionario carente di delega, osservò che nulla impediva all’Amministrazione di condensare in un unico atto impositivo emesso nei confronti di più soggetti l’omessa contabilizzazione di ricavi, stante l’identità delle violazioni tributarie, aggiungendo che la responsabilità D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 36 era in re ipsa per i soci amministratori e liquidatori, non risultando versata alcuna imposta sui ricavi non contabilizzati e considerato che il V. era anche il sottoscrittore della dichiarazione dei redditi e del bilancio; quanto alle socie C. e P., la loro responsabilità discendeva sia dal fatto che, in ragione della loro qualità di coniugi degli altri due soci e amministratori e liquidatori, le stesse partecipavano del reddito familiare, sia dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui era legittima la presunzione di distribuzione degli utili extra-contabili ai soci di una società a ristretta base azionaria, presunzione che da sola valeva a giustificare la responsabilità di cui all’art. 36 citato. In mancanza di diversa specificazione e stante la prova della ristretta base sociale, ritenne dunque legittima la ripartizione in parti uguali tra tutti i soci del reddito presunto ed operante anche nei confronti dei soci il raddoppio dei termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43. Quanto, poi, all’ulteriore eccezione di doppia imposizione per violazione dell’art. 47 del t.u.i.r., affermò che la disposizione atteneva agli utili ritualmente contabilizzati e distribuiti a seguito di Delib. sociale e non agli utili extra-bilancio per i quali la società non aveva versato imposte. Infine, con riferimento all’applicazione dei contributi previdenziali sugli utili distribuiti ai soci, precisò che ogni contestazione relativa alla loro debenza, esulando dalla giurisdizione delle Commissioni tributarie, doveva essere proposta dinanzi al giudice ordinario.
4. Ricorrono per la cassazione della decisione d’appello la JOB ART s.r.l. in liquidazione ed i soci, con undici motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..
L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i contribuenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 112 c.p.c. e si dolgono che la motivazione della sentenza è del tutto insufficiente e carente sotto il profilo logico, poiché non consente di comprendere le ragioni che abbiano condotto a rigettare l’appello della società e ad accogliere l’appello dell’Ufficio finanziario.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – nel testo novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile ratione temporis al presente giudizio) – il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza può operare solo entro il “minimo costituzionale” (Cass., sez. U, 7/4/2014, n. 8053, nonché, tra le altre, Cass., sez. 3, 20/11/2015, n. 23828; Cass., sez. 3, 5/7/2017, n. 16502), investendo esclusivamente le ipotesi di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nel caso di “carenza grafica” della motivazione, quando questa, “benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232), in quanto affetta da “irriducibile contraddittorietà” (Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20721).
1.3. Nessuna delle suddette anomalie argomentative è ravvisabile nel caso di specie. L’esposizione delle ragioni poste a fondamento della decisione, considerata nel suo complesso, ossia nella totalità delle sue componenti testuali, risulta, invero, idonea a rendere conoscibile il percorso logico-giuridico seguito dalla Commissione tributaria regionale.
Difatti, una considerazione complessiva dell’ordito motivazionale della pronuncia gravata consente di enucleare la ratio decidendi, la quale, a prescindere da ogni considerazione sulla validità del fondamento giuridico ad essa sotteso, è chiaramente identificabile, risultando adeguatamente illustrate, in relazione ai plurimi profili di censura fatti valere dalle parti contribuenti, le ragioni che i giudici di appello hanno posto a base del decisum.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la decisione gravata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, per avere i giudici di secondo grado ritenuto legittimo il raddoppio dei termini operato dall’Amministrazione. Evidenziano a sostegno di tale censura che nel giudizio di merito la società aveva fatto rilevare che non era stata allegata all’atto accertativo la denuncia penale presentata alla Procura della Repubblica e che l’atto impositivo era stato emesso e notificato oltre il termine previsto a pena di decadenza, poiché la violazione che comportava obbligo di denuncia penale era stata constatata nel 2011 quando i termini per accertare l’annualità 2003 erano già abbondantemente scaduti. Richiamando la sentenza della Corte Costituzionale del 25 luglio 2011, n. 247, soggiungono i ricorrenti che il raddoppio dei termini non trova applicazione qualora risulti che l’Amministrazione finanziaria non abbia agito in modo imparziale ed abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni al fine di fruire ingiustamente di un più ampio termine di accertamento.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. Deve darsi continuità al principio secondo cui in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, (come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24), nei testi applicabili ratione temporis, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 30/05/2016, n. 11171).
2.3. Secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale sopra richiamata e dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass., sez. 5, 7/10/2015, n. 20043 e Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974; Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037), il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni indicate (4 luglio 2006), perché queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data. Questo effetto deriva non dalla natura retroattiva delle norme, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, “la legge non dispone che per l’avvenire” (art. 11 preleggi, prima parte, comma 1; analogamente, la L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, stabilisce che “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”).
Il raddoppio deriva, quindi, dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna, dato il regime del cosiddetto “doppio binario” tra giudizio penale e processo tributario, evidenziato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20.
L’obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell’antigiuridicità e del dolo, resta riservato all’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita. E ovviamente il pubblico ufficiale non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, dovendola presentare prontamente e il giudice tributario deve controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. In presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare i presupposti dell’obbligo di denuncia penale (non certo l’esistenza del reato) è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo.
2.4. I termini raddoppiati non si innestano, dunque, su quelli “brevi” ordinari, ma operano autonomamente allorché si riscontrino elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000. In particolare, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011 con riferimento al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, primi due commi i termini “brevi” ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale per reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000; mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’e’ l’obbligo di denuncia. E’, perciò, irrilevante che detto obbligo possa insorgere anche dopo il decorso di un periodo pari a quello del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine: ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo di denuncia, perché essa soltanto connota obiettivamente, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento (Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037; Cass., sez. 6-5, 28/06/2019, n. 17586; Cass., sez. 5, 2/07/2020, n. 13481; Cass., sez. 5, 6/07/2021, n. 19000).
2.5. Inconferente e’, dunque, nel caso di specie che l’avviso di accertamento sia stato emesso allorché era scaduto il termine breve e che si riferisca ad annualità precedente all’entrata in vigore della disposizione censurata, dovendosi osservare come la disposizione di legge censurata sia entrata in vigore (4/7/2006) allorché non era ancora scaduto il termine ordinario per l’accertamento (trattandosi dell’annualità 2003).
La Commissione tributaria regionale ha accertato che la denuncia penale è stata presentata dall’Ufficio, cosicché la motivazione della sentenza, laddove si legge che il raddoppio dei termini di accertamento “non costituisce una proroga del termine ordinario, ma un termine autonomo legato ad una particolare fattispecie, la presenza di violazioni tributarie per le quali scatta l’obbligo di denuncia per i pubblici ufficiali e ciò indipendentemente dalla effettiva presentazione della stessa all’autorità giudiziaria o dal risultato del procedimento penale eventualmente instaurato (prescrizione, archiviazione, patteggiamento, condanna o assoluzione, cause di estinzione o punibilità) o del decorso del termine di accertamento”, si pone in linea con i principi sopra richiamati.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 212 del 2000, artt. 5, 6, 7,10 e 12, della L. n. 241 del 1990, art. 7 e della L. n. 4 del 1929, art. 24 lamentando che la C.T.R. non ha rilevato la necessità di garantire, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, il diritto al contraddittorio preventivo. Sostengono, in particolare, che la sentenza impugnata sul punto è contraria ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 19667 del 18 settembre 2014, ribadendo che l’obbligo del contraddittorio preventivo deve intendersi riferito a tutte le attività di verifica, indipendentemente dalla loro natura e dalla loro “fonte di innesco”.
3.1. Anche il terzo motivo è infondato.
3.2. Occorre premettere, invero, che, nella vicenda in giudizio, l’accertamento non è stato preceduto da un accesso, ispezione o verifica, ma si è tradotto in un accertamento cd. a tavolino, fondato sulla acquisizione di documentazione trasmessa dal liquidatore giudiziale della società e sugli atti di diretta acquisizione da parte dell’Ufficio.
3.3. Ciò comporta, quanto alle imposte dirette, l’infondatezza della denunciata violazione, trattandosi di ambito in cui non è previsto un obbligo generalizzato di preventivo contraddittorio, ossia al di fuori dalle ipotesi specificamente previste.
Parimenti infondata è la doglianza quanto all’I.V.A..
Occorre, con riguardo ai tributi armonizzati, rilevare che l’obbligo del contraddittorio preventivo discende direttamente dalla disciplina unionale alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, che esige che l’Amministrazione, ove adotti provvedimenti destinati ad incidere sulle posizioni soggettive dei destinatari, è tenuta a mettere costoro in condizione di esporre utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi posti a fondamento dell’atto medesimo (già Corte di Giustizia, sentenza 18 dicembre 2008, in C-349/07, Soprope’, punto 37; ex multis sentenza 22 ottobre 2013, in C276/12, Sabou, punto 38; sentenza 17 dicembre 2015, in C-419/14, WebMindlicenses, punto 84).
La giurisprudenza unionale, peraltro, ha chiarito che qualora l’Amministrazione non sia stata rispettosa dell’obbligo di contraddittorio, la violazione – in assenza di una norma specifica che ne definisca in termini puntuali le conseguenze – comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (cd. prova di resistenza), ossia se, in mancanza del suddetto vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa (Corte di Giustizia, sentenze 10 ottobre 2009, Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware, in C-141/08, punto 94; 10 settembre 2013, M.G. e N. R., in C-383/13, punto 38; 26 settembre 2013, Texdata Software, in C-418/11, punto 84; 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, in C-129/13 e C-130/13, punti 79 e 79).
Come è stato chiarito di recente da questa Corte (Cass., sez. 5, 19/07/2021, n. 20436), il parametro di riferimento a tal fine e’, dunque, costituito dal principio di effettività – per il quale le modalità procedurali interne “non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione” – che, tuttavia, come anche recentemente ribadito dalla Corte di Giustizia, “non esige che una decisione contestata, in quanto adottata in violazione dei diritti della difesa, sia annullata in tutti i casi. Infatti, una violazione dei diritti della difesa determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di detta irregolarità, il procedimento sarebbe potuto giungere a un risultato diverso” (sentenza 4 giugno 2020, SC C.F. SRL, in C- 430/19, punti 35 e 37).
3.4. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 09/12/2015, hanno precisato che “l’effetto della nullità dell’accertamento si verifica allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d’essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali” ossia che “non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma e’, altresì, necessario che esso assolva l’onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato…, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali l’ordinamento lo ha predisposto” (Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6-5, 8/01/2019, n. 218).
3.5. La sentenza impugnata, alla stregua delle considerazioni svolte, si sottrae alla critica ad essa rivolta, non essendo ravvisabile la eccepita violazione del contraddittorio, in difetto di indicazione, da parte dei contribuenti, delle ragioni che avrebbero potuto far valere ove fosse stato instaurato il contraddittorio e che avrebbero potuto determinare un diverso esito del giudizio.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, e del D.L. n. 162 del 2012, art. 8, comma 24, e lamentano che la C.T.R. non ha rilevato la nullità dell’atto impositivo perché sottoscritto da soggetto delegato ad un incarico dirigenziale senza il necessario preventivo concorso. Ribadiscono che nel corso del giudizio di merito l’Agenzia delle entrate non aveva dimostrato che il Fogliani, Capo Ufficio Controlli dell’Agenzia delle entrate, sottoscrittore dell’avviso di accertamento, avesse assunto la qualifica di dirigente dopo avere sostenuto un concorso e richiamano, a supporto della eccezione di invalidità dell’atto, la sentenza n. 37 del 2015 della Corte Costituzionale che, investita della questione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3,51 e 97 Cost., del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, che, nelle more della procedura di attribuzione degli incarichi dirigenziali, aveva fatto “salvi gli incarichi già affidati”.
4.1. La censura deve essere respinta.
4.2. Invero, successivamente al deposito del ricorso, questa Corte, con le sentenze n. 22800, 22803 e 22810 del 9 novembre 2015, ha enunciato il principio secondo cui “In ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d’ufficio, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”, senza richiedere che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni. In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma appena evocata, i “funzionari di area terza” di cui al contratto del comparto agenzie fiscali fissato per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma sopra citata individua l’agente capace di manifestare la volontà della amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti. Essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali, e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 24".
La sentenza in questa sede impugnata, nell’affrontare la questione, non si è discostata dai suddetti principi.
5. Con il quinto motivo, deducendo la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, comma 5, i ricorrenti contestano alla C.T.R. di non avere ritenuto illegittimo l’accertamento della responsabilità ex art. 36 in capo ai soci e liquidatori, sebbene notificato mediante un unico atto. Evidenziano, sul punto, che la responsabilità in solido è semplicemente enunciata a pag. 2 dell’accertamento emesso nei confronti della JOB ART s.r.l., giacché, accanto al nome dei quattro soci, si legge che l’atto è stato loro notificato nella qualità di responsabili “D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 36”, ma l’Amministrazione non ha provveduto ad emettere, come prescritto dalla norma invocata, separati avvisi di accertamento a carico di ciascun socio evidenzianti le motivazioni delle rispettive responsabilità.
6. Con il sesto motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, commi 1 e 3, e lamentano che non si dà conto delle ragioni per cui dovrebbe ritenersi applicabile alla fattispecie la disposizione normativa richiamata, né si indicano i limiti alle rispettive responsabilità, tenuto conto che i soci non avevano mai ricevuto danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o dai liquidatori. Addebitano, quindi, alla C.T.R. di avere valorizzato elementi estranei alla fattispecie prevista dal citato art. 36, come la legittimità della presunzione di distribuzione degli utili extra-contabili ai soci di una società a ristretta base sociale o come il vincolo di solidarietà e di controllo nella gestione dell’attività sociale.
6.1. Il quinto ed il sesto motivo, che possono essere trattati congiuntamente perché connessi, sono inammissibili.
6.2. Il citato art. 36, comma 5 prevede che “la responsabilità di cui ai commi precedenti è accertata dall’ufficio delle imposte con atto motivato da notificare ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60”, ma non esclude che l’Amministrazione finanziaria possa emettere nei confronti di più soggetti un unico atto impositivo, anziché separati avvisi di accertamento, qualora ravvisi identità della violazione tributaria, purché siano evidenziate, in relazione a ciascuno dei soggetti interessati, le ragioni delle rispettive responsabilità.
I ricorrenti sostengono che nell’atto impositivo la responsabilità contestata ai soci sarebbe soltanto enunciata, ma non esplicitata, perché non risulterebbero specificati gli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda l’assunto dell’Amministrazione, né sarebbero state differenziate le diverse posizioni, con la conseguenza che non sarebbe possibile evincere le ragioni per cui si ritenga configurabile la responsabilità ex art. 36 richiamato.
Le censure così come formulate con i mezzi in esame, nella misura in cui prospettano l’insufficienza e la genericità delle indicazioni contenute nell’atto notificato, non si sottraggono alla declaratoria di inammissibilità per difetto di autosufficienza, poiché non risulta trascritto nelle parti salienti l’avviso di accertamento al fine di porre questa Corte in condizione di conoscere direttamente il contenuto dell’atto impugnato, che è atto amministrativo, e di valutare la eventuale fondatezza della doglianza prospettata.
7. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono la violazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36 per avere la C.T.R. ritenuto che l’accertamento della responsabilità ex art. 36 citato fosse soggetto ad un termine più esteso di quello ordinario previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43. Evidenziano, sul punto, che nel ricorso introduttivo del giudizio era stato eccepito che il raddoppio previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, comma 3 non opera con riguardo all’art. 36 citato, con la conseguenza che, non essendo stato notificato un apposito accertamento entro il termine ordinario del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, nessuna forma di responsabilità in solido poteva essere contestata nei confronti dei soci ai sensi del richiamato art. 36. Fanno, altresì, presente che l’unica denuncia penale, peraltro prodotta in giudizio, era a carico di D.G., nella sua qualità di legale rappresentante e firmatario della dichiarazione dei redditi della società JOB ART s.r.l. per l’anno 2003.
8. Con l’ottavo motivo le parti contribuenti censurano la sentenza gravata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, per avere la C.T.R. ritenuto che il raddoppio dei termini previsto dal citato art. 43 in capo alla società consentisse anche il raddoppio del termine per l’accertamento degli utili extra-contabili asseritamente distribuiti in capo ai soci. Ribadiscono che è incontestato che non sia mai stata effettuata alcuna denuncia penale in capo ai soci quali persone fisiche e che, seppure fosse stato considerato legittimo il raddoppio dei termini per i fatti contestati alla società, questo non avrebbe potuto operare tout court con riguardo ai soci, poiché la responsabilità di questi ultimi si fonda su autonomi presupposti.
8.1. Il settimo e l’ottavo motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente perché connessi, sono infondati.
8.2. La C.T.R., rilevando che la responsabilità dei soci è strettamente connessa all’accertamento delle violazioni commesse dalla società, posto che si discute, nel caso di specie, di società a ristretta base sociale, ha ritenuto operante, anche per i soci, il raddoppio dei termini di cui all’art. 43 citato, comma 3 spiegando che “il raddoppio del termine di accertamento…sorge per il semplice configurarsi della fattispecie tributaria penalmente rilevante e quindi tanto per la società quanto per i soci” e che “opinando nel senso della sua applicabilità alla sola società si svuoterebbe di contenuto la disposizione, considerato che in una società con connessa responsabilità dei soci amministratori e liquidatori il raddoppio del termine non opererebbe mai. Si è già detto che il termine di cui all’art. 43 è un termine autonomo da quello ordinario e quindi indipendente da questo. Non è dato capire come possa operare per i soci il termine ordinario di accertamento e il raddoppio del termine per la società, se la responsabilità dei soci consegue alla responsabilità della società…”.
8.3. Il percorso argomentativo dei giudici di appello non si discosta dall’indirizzo di questa Corte secondo cui anche con riguardo alla specifica posizione del socio di società a ristretta base sociale il raddoppio dei termini per l’accertamento consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale.
La soluzione della questione prospettata, come già chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 30/06/2021, n. 18451), deve prendere le mosse dalla considerazione che l’accertamento tributario nei confronti di una società a ristretta base azionaria costituisce un indispensabile antecedente logico-giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano. La stretta connessione sussistente tra i due accertamenti, quello in capo alla società e quello relativo al socio, impone di ritenere che, nel caso di raddoppio dei termini per l’accertamento nei confronti di una società di capitali a ristretta base sociale conseguente al riscontro di fatti che comportino l’obbligo di denuncia penale in capo al legale rappresentante, deve necessariamente conseguire il raddoppio dei termini per l’accertamento nei confronti dei soci, per i quali l’accertamento consegue automaticamente in base alla presunzione di distribuzione, proporzionale alla quota di partecipazione, degli utili extracontabili conseguiti dalla società.
E’ utile, al riguardo, ribadire che la responsabilità penale è distinta rispetto al presupposto che dà luogo, in materia di accertamento tributario, al raddoppio dei termini, che è consentito in caso di violazione di norme che comportano l’obbligo della denuncia; invero, una volta che ricorra tale evenienza, l’accertamento tributario segue un percorso autonomo rispetto all’accertamento del fatto e della responsabilità in sede penale, verificandosi l’estensione (non la proroga) dei termini dell’accertamento tributario anche nei confronti del socio della società a ristretta base partecipativa, il quale non può essere escluso, proprio in base ai principi generali che regolano la materia dell’accertamento ai soci di società a ristretta base sociale.
D’altro canto, a tale conclusione si perviene pure se si tiene presente che la ratio perseguita dal legislatore con la norma in esame, come precisato dalla Corte Costituzionale con la sentenza sopra indicata, è quella di dotare l’amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari, i quali, avendo rilevanza penale, sono stati non ingiustificatamente ritenuti dal legislatore particolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento. La finalità della disposizione sul raddoppio dei termini sarebbe vanificata se l’operatività della norma fosse limitata alla sola ipotesi di accertamento nei confronti del socio legale rappresentante della società, perché si verrebbe a determinare un’ingiustificata disparità di trattamento tra socio, che sia anche legale rappresentante, e gli altri soci, pur partecipi alla compagine sociale ristretta.
9. Con il nono motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, i contribuenti deducono la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e dell’art. 112 c.p.c. per essersi la C.T.R. pronunciata in modo incomprensibile e, peraltro, oltre i limiti della domanda, sul motivo di illegittimità degli avvisi di accertamento, emessi nei confronti dei soci D. e C., per violazione del divieto di doppia imposizione e dell’art. 53 Cost., in quanto non era stato riconosciuto, nell’accertamento per la asserita distribuzione degli utili extracontabili, il credito d’imposta previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 14 vigente ratione temporis. Lamentano che i giudici di appello si sarebbero pronunciati in modo difforme rispetto a quanto prospettato nel ricorso introduttivo e nelle controdeduzioni in appello, non menzionando le disposizioni normative denunciate, bensì il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47 introdotto dal D.Lgs. n. 344 del 2003 ed entrato in vigore il 1 gennaio 2004, norma mai menzionata negli scritti difensivi.
9.1. Il motivo va disatteso.
9.2. Anche se la C.T.R. a supporto della decisione richiama impropriamente il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47 non applicabile ratione temporis alla presente fattispecie, la censura formulata deve essere comunque disattesa, in quanto, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’operatività del divieto di doppia imposizione, previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 67 postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto. Tale condizione, come chiarito da questa Sezione (Cass., sez. 6-5, 29/05/2018, n. 13503; Cass., sez. 5, 27/09/2011, n. 19687), non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, come quella che si realizza, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell’Irpeg, quale utile della società, sia ai fini dell’Irpef, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a fondamento delle due diverse imposizioni. Nel caso in esame, laddove si verte in materia di utili extra-bilancio corrisposti ai soci da una società di capitali, le cui imposte non sono state pagate dalla società medesima, deve ancor più escludersi la denunciata violazione del divieto di doppia imposizione.
La motivazione della sentenza impugnata deve quindi essere corretta nei termini sopra precisati.
10. Con il decimo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si deduce la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e dell’art. 112 c.p.c. e si censura la decisione impugnata per difetto di sufficienza, congruenza e logicità, oltre che per vizio di ultrapetizione, là dove rigetta l’eccepita illegittimità degli atti impositivi emessi nei confronti dei soci D. e C. nella parte in cui accertano anche maggiori contributi previdenziali. Sostengono i ricorrenti che i redditi di capitale (nel caso di specie asseritamente distribuiti dalla società) non sono soggetti a contributi previdenziali.
La censura è infondata, in quanto, con argomentazione assorbente che sfugge ai vizi denunciati, la C.T.R. ha rilevato che “ogni contestazione relativa alla debenza” dei contributi previdenziali esula dalla giurisdizione delle Commissioni tributarie, trattandosi di domanda che deve essere proposta dinanzi al giudice ordinario, in conformità ai principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. U, 27/03/2007, n. 7399; Cass., sez. U, 23/06/2010, n. 15168; Cass., sez. U, 3/11/2017, n. 26149; Cass., sez. U, 23/07/2018, n. 19523).
11. Con l’undicesimo motivo, articolato in sottoparagrafi (11.1), 11.2), i ricorrenti deducono la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e dell’art. 112 c.p.c., lamentando che la C.T.R. non avrebbe risposto a tutte le domande formulate dai soci D., C., V. e P. con riguardo all’accertamento nei loro confronti di redditi di capitale derivanti dalla asserita distribuzione di utili extra-contabili.
11.1. La censura è infondata.
11.2. Con tale doglianza, in realtà, i ricorrenti non fanno altro che insistere nell’accoglimento delle censure già svolte con i precedenti mezzi di ricorso, assumendo una presunta omessa pronuncia da parte dei giudici di appello.
Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancanza di espressa statuizione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto (Cass., sez. 1, 8/03/2007, n. 5351, che ha ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame). Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta, dunque, la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, e dovendo pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (v. Cass., sez. 1, 9/05/2007, n. 10636; Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 3, 29/01/2021, n. 2151).
La Commissione tributaria regionale, accogliendo l’appello dell’Ufficio e confermando integralmente gli atti impositivi a carico della società e dei soci, ha inteso implicitamente rigettare tutte le contestazioni svolte con i motivi di appello dai contribuenti, anche laddove nella motivazione della sentenza non sia rinvenibile una espressa statuizione.
12. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
Nulla deve disporsi in merito alle spese del giudizio di legittimità, in assenza di attività difensiva dell’Agenzia delle entrate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022