Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria prevista dall’art. 19, commi 1 e 1.1 del D.lg. 286 del 1998, rileva la condizione di povertà estrema del paese di provenienza del richiedente.
Lo ha stabilito la Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 15645. del 5 giugno 2023.
Il caso di specie, riguardava un richiedente proveniente dal Bangladesh, paese caratterizzato da instabilità politica, terrorismo, povertà diffusa e ricorrenti calamità naturali. Il richiedente, stabilmente residente presso una fondazione caritativa in Italia, aveva avviato una piccola attività di commercio ambulante, mantenendo così un tenore di vita dignitoso e distante dalla condizione di povertà da cui era fuggito. La Corte territoriale aveva riconosciuto al richiedente la protezione umanitaria, valorizzando il suo percorso di integrazione e lavoro compiuto in Italia.
La Suprema Corte, confermando la decisione della Corte d'Appello, ha sottolineato l'importanza del "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", come limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa. Tale parametro deve essere considerato non solo in relazione all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche in riferimento a qualsiasi contesto che potrebbe esporre i diritti fondamentali dell'individuo alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto di questa soglia minima.
Di conseguenza, la condizione di povertà estrema del paese di origine - definita come un contesto in cui si ha accesso limitato o intermittente alle risorse primarie per il sostentamento umano, come acqua, cibo, vestiario e alloggio - assume rilevanza. In particolare, se questa condizione, unita alla prospettiva di indigenza insuperabile alla quale il richiedente sarebbe esposto in caso di rimpatrio, crea il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali.
Ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dal d.lg. 286 del 1998, art. 19, commi 1 e 1.1, il concetto di "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", quale limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa, dev'essere apprezzato dal giudice di merito non solo con specifico riferimento all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima: con la conseguenza della possibile rilevanza anche di una condizione di povertà estrema (nella quale non si disponga, o si disponga con grande difficoltà o intermittenza, delle primarie risorse per il sostentamento umano come l'acqua, il cibo, il vestiario e l'abitazione) del paese di provenienza, ove considerata unitamente a quella di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il ricorrente sarebbe esposto in caso di rimpatrio, nel caso in cui la combinazione di tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali; dovendosi pertanto ritenere configurabile, anche in ipotesi di assoluta ed inemendabile povertà per alcuni strati della popolazione e di conseguente impossibilità di poter provvedere almeno al proprio sostentamento, la violazione dei diritti umani, al di sotto del loro nucleo essenziale, con relativo onere del giudice di merito di un tale accertamento, in adempimento del proprio obbligo di cooperazione istruttoria.
Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza 05/06/2023, (ud. 12/01/2021), n. 15645
RILEVATO CHE
1. con sentenza 22 agosto 2019, la Corte d'appello di (Omissis) ha riconosciuto a S.M., cittadino del Bangladesh, il permesso di soggiorno per motivi umanitari e compensato le spese del giudizio tra le parti: in parziale riforma della sentenza di primo grado, che ne aveva rigettato il ricorso avverso il diniego, da parte della competente Commissione Territoriale, delle domande di protezione internazionale (di riconoscimento, in via principale, dello status di rifugiato e, in gradato subordine, di protezione sussidiaria e umanitaria);
2. per quanto in particolare ancora rileva, essa ha riconosciuto la protezione umanitaria al richiedente - avendo egli lasciato il proprio Paese ("caratterizzato da instabilità politica, da fenomeni di terrorismo, da povertà diffusa e ricorrenti calamità naturali") ormai da cinque anni (secondo il suo racconto: il (Omissis)) e con il quale aveva ormai perduto ogni riferimento sociale e lavorativo - non avendo ragione di dubitare della sua condizione di povertà personale e familiare, né "dei debiti contratti con persone che potrebbero minacciare la sua famiglia per ottenere il rimborso del denaro prestato";
2.1. la Corte territoriale ha quindi valorizzato il percorso di integrazione e lavoro compiuto dal richiedente in Italia, di affrancamento dalla condizione di povertà di provenienza, vivendo egli stabilmente a (Omissis) presso una Fondazione caritativa ed avendo aperto una piccola attività di commercio ambulante, tale da "mantenere un tenore di vita dignitoso e provvedere anche al rimborso del prestato contratto in patria"; mentre il ritorno in Bangladesh lo avrebbe esposto "ad apprezzabili rischi di vulnerabilità, con la perdita di autonomia personale ed economica e rischi di ritorsione da parte di chi ha effettuato il prestito alla sua famiglia";
3. con atto notificato il 9 gennaio 2020, il Ministero dell'Interno ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, cui lo straniero ha resistito con controricorso;
4. la redazione della ordinanza è stata assegnata ad altro componente del Collegio giudicante, con provvedimento del 5 aprile 2023, a seguito del pensionamento dell'originario Relatore.
CONSIDERATO CHE
1. il Ministero ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 32, comma 3 e 5 D.Lgs. n. 286 del 1998, per il difetto dei "seri motivi" di carattere umanitario per la concessione della misura di protezione accordata al richiedente, avendo la Corte d'appello individuato una sua condizione di vulnerabilità in ragioni meramente economiche, valorizzando un inserimento sociale e lavorativo in Italia, che è invece presupposto che può soltanto concorrere con altri, in esito ad una rigorosa valutazione comparativa con la situazione soggettiva ed oggettiva del predetto in riferimento al Paese di origine (primo motivo);
2. esso è inammissibile;
3. il motivo consiste, infatti, nella contestazione dell'accertamento compiuto dalla Corte d'appello, in ordine tanto:
a) alla serietà dei motivi di vulnerabilità del richiedente, argomentato in riferimento alla condizione del suo Paese, in particolare "caratterizzato... da povertà diffusa e ricorrenti calamità naturali" (per le ragioni esposte all'ultimo capoverso di pg. 3 della sentenza) e quindi di povertà estrema, in applicazione dei principi di diritto enunciati da questa Corte, secondo cui, ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dal d.lg. 286 del 1998, art. 19, commi 1 e 1.1, il concetto di "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", quale limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa, dev'essere apprezzato dal giudice di merito non solo con specifico riferimento all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima: con la conseguenza della possibile rilevanza anche di una condizione di povertà estrema (nella quale non si disponga, o si disponga con grande difficoltà o intermittenza, delle primarie risorse per il sostentamento umano come l'acqua, il cibo, il vestiario e l'abitazione) del paese di provenienza, ove considerata unitamente a quella di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il ricorrente sarebbe esposto in caso di rimpatrio, nel caso in cui la combinazione di tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali (Cass. 8 giugno 2021, n. 15961); dovendosi pertanto ritenere configurabile, anche in ipotesi di assoluta ed inemendabile povertà per alcuni strati della popolazione e di conseguente impossibilità di poter provvedere almeno al proprio sostentamento, la violazione dei diritti umani, al di sotto del loro nucleo essenziale, con relativo onere del giudice di merito di un tale accertamento, in adempimento del proprio obbligo di cooperazione istruttoria (Cass. 28 luglio 2020, n. 16119);
b) al carattere non esclusivo dell'apprezzamento dell'inserimento sociale e lavorativo in Italia del richiedente medesimo, piuttosto in concorso con l'appena scrutinata condizione di vulnerabilità, pertanto rappresentativo di uno degli elementi di valutazione (al punto 11 di pg. 3 della sentenza): e quindi fondato su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d'origine, alla luce delle peculiarità della sua vicenda personale (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; Cass. 2 ottobre 2020, n. 21240; Cass. 3 febbraio 2022, n. 3279).
Sicché, esso è insindacabile nell'odierna sede di legittimità;
4. il ricorrente ha poi censurato l'ammissione al patrocinio alle spese dello Stato anche nel giudizio d'appello, siccome inammissibile, con subordinata richiesta, in caso di rigetto della domanda, di revoca del gratuito patrocinio (secondo motivo);
5. anch'esso è inammissibile;
6. al di là del difetto d'interesse del Ministero dell'Interno alla doglianza, avendo la Corte territoriale interamente compensato le spese del giudizio tra le parti, il provvedimento di revoca del gratuito patrocinio deve essere emesso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136 e non certamente da questa Corte di legittimità, giovando peraltro ribadire detto provvedimento sia soggetto al regime impugnatorio dell'opposizione prevista dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170, con esclusione della sua ricorribilità per cassazione: anche qualora sia adottato con la pronuncia che definisca il giudizio di merito, anziché con separato decreto, come previsto dall'art. 136 D.P.R. cit. (Cass. 8 febbraio 2018, n. 3028; Cass. 3 giugno 2020, n. 10487);
7. pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza, né applicandosi il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, per l'esenzione prevista per le Amministrazioni dello Stato.
P.Q.M.
La Corte:
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 12 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2023.