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Docente assente 20 anni su 24, legittima la destituzione

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.17897 del 22/06/2023

Una professoressa di storia e filosofia della scuola secondaria, che ha accumulato un'assenza di 20 anni su 24, è stata destituita dal servizio ex art. 512 del decreto legislativo n. 297/1994, per incapacità didattica, da intendersi come una "assoluta e permanente inettitudine alla docenza".

Il caso è stato esaminato dalla Sezione lavoro della Cassazione con l'ordinanza n. 17897 del 22 giugno 2023.

La Suprema Corte. ha confermato il giudizio della Corte d'Appello che ha ritenuto legittima la destituzione dell'insegnante per l'adozione di modalità incompatibili con l'insegnamento.

Un'ispezione condotta dal MIUR aveva rivelato una serie di problematiche, tra cui: disattenzione verso gli alunni durante le interrogazioni, assegnazione casuale di voti, scarsa attenzione e improvvisazione durante le lezioni, mancanza di un libro di testo personale, e gravi imprecisioni nella redazione dei programmi finali delle classi quarte.

I giudici di legittimità hanno sottolineato che l'atto di dispensa per incapacità didattica non si basa su comportamenti colpevoli dell'insegnante. Di conseguenza, non implica una responsabilità, né richiede un giudizio di proporzionalità, poiché non ha carattere sanzionatorio. Si tratta di un atto che si limita a rilevare l'oggettiva inidoneità del docente a svolgere la funzione di insegnante. Pertanto, è stata esclusa la natura disciplinare dell'atto di dispensa, considerato non discrezionale e basato su dati oggettivi.

La Corte ha inoltre precisato che il concetto di "libertà didattica" implica una certa autonomia nella scelta dei metodi di insegnamento. Tuttavia, ciò non significa che l'insegnante possa non utilizzare alcun metodo o non organizzare e strutturare le lezioni. Una tale interpretazione della libertà didattica sarebbe incompatibile con la professione di docente e non potrebbe giustificare la negligenza o un'organizzazione scolastica anarchica.

Pertanto, la Cassazione ha confermato la legittimità del provvedimento di destituzione per incapacità didattica adottato nei confronti dell'insegnante.

Libertà didattica, autonomia nella scelta di metodi d'insegnamento, limiti

Il concetto di "libertà didattica" comprende, certo, un'autonomia nella scelta di metodi appropriati d'insegnamento, ma questo non significa che l'insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni. Una libertà così intesa equivarrebbe a una "libertà di non insegnare" incompatibile con la professione di docente. Ne' dietro lo schermo della libertà didattica possono nascondersi sciatterie anziché idee degli insegnanti o una certa anarchia piuttosto che progettualità condivisa e partecipata.

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Cassazione civile sez. lav., ordinanza 22/06/2023 (ud. 19/04/2023) n. 17897

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 227 del 2018, il Tribunale di Venezia accoglieva la domanda presentata da D.L.C.P., docente di ruolo di storia e geografia sin dall'a.s. 2001/2002, presso diverse sedi della scuola secondaria di secondo grado e destinataria dall'a.s. 2007/2008 di assegnazioni provvisorie annuali (in ragione della sicurezza personale del convivente, ufficiale della Guardia di Finanza), tesa ad accertare l'illegittimità del provvedimento di dispensa ex D.Lgs. n. 297 DEL 1994, art. 512, emesso nei suoi confronti dalla P.A. il 2.03.2017, poco dopo l'ultima sua destinazione a (Omissis), per incapacità didattica, da intendersi come "assoluta e permanente inettitudine alla docenza".

Il giudice del lavoro riteneva, in particolare, che i fatti posti a fondamento del provvedimento di destituzione non fossero supportati da adeguati elementi probatori, non potendo, a tal fine rilevare né i documenti acquisiti a seguito della visita ispettiva ministeriale, né le dichiarazioni di alunni e professori ivi contenute, in quanto il periodo di tale valutazione ispettiva era troppo "stretto e breve" (da (Omissis) e (Omissis)).

Pur ammettendo una "disorganizzazione e faciloneria" della docente, riteneva che il suddetto limitato periodo di valutazione non potesse certificare un'inettitudine "assoluta e permanente". In conseguenza, ordinava alla P.A. di reintegrare l'insegnate con pagamento di tutte le retribuzioni, oltre rivalutazione ed interessi, e delle spese di lite.

2. Avverso tale pronuncia proponeva appello il M.I.U.R., contestando sia la valutazione delle prove documentali operata dal giudice di prime cure, sia la sua decisione di non ammettere prove testimoniali sui fatti contestati dalla docente. In particolare, secondo l'appellante, molti dei fatti dedotti, non considerati dal Tribunale quali elementi probatori idonei, erano stati in realtà appresi direttamente dagli ispettori ministeriali e, pertanto, costituivano atti aventi pubblica fede, ex art. 2700 c.c. Inoltre, nei registri riportati nei verbali, era documentato il fatto che la docente, su 24 anni di insegnamento, risultava essere stata assente per complessivi 20 anni (di cui i primi 10 totalmente assente e per i residui 14 era in gran parte in malattia, da 40 a 180 giorni per anno), totalizzando, in definitiva, un totale cumulativo di 4 anni di insegnamento che rendeva impossibile esaminare periodi più lunghi di quelli oggetto di ispezione (5 mesi nel 2015, gli unici lavorati, idem febbraio 2016).

3. La Corte d'appello di Venezia con sentenza n. 488 del 2021, in riforma della decisione di primo grado, accoglieva l'impugnazione del Ministero e rigettava la domanda della lavoratrice, ritenendo legittimo il provvedimento di destituzione emesso ai sensi del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 512.

Assumeva che, a differenza di quanto sostenuto dal primo giudice, nel corposo fascicolo del procedimento era possibile rintracciare delle prove documentali che, a mente dell'art. 2700 c.c., fanno prova fino a querela di falso (così, il verbale del 31.07.2015 del Dirigente Scolastico Z.L., ove si riportavano lunghi colloqui con studenti e genitori appartenenti alle classi della D.L. e, soprattutto, le risultanze degli accertamenti effettuati dalle ispettrici ministeriali che concludevano per la conferma di quanto segnalato dal Dirigente Z.).

Riteneva che non fosse corretto il ragionamento del primo giudice secondo il quale i suddetti verbali non avevano alcuna valenza probatoria evidenziando che gli stessi attestavano i fatti storici avvenuti in presenza delle ispettrici, degli insegnanti, degli allievi e potevano considerarsi, poiché appresi direttamente dalle prime e riferiti a quanto storicamente successo durante le lezioni, prove valutabili ai fini di causa.

Così, dall'analisi di tali documenti poteva trarsi un giudizio tecnico di modalità incompatibili con l'insegnamento nella scuola secondaria (ad es. ivi si riportava che la docente non aveva i libri di testo, presentava disattenzione durante le interrogazioni ed effettuava un'assegnazione dei voti in modo casuale).

Riteneva, perciò, provata la carente metodologia di lavoro manifestata dall'insegnante nel periodo in esame caratterizzato da lezioni sostanzialmente improvvisate.

Evidenziava che agli elementi evincibili dagli indicati verbali si aggiungevano altri fatti ‘presuntivì ricavabili dalle convergenti dichiarazioni degli studenti, di altri docenti, del personale scolastico.

Il particolare evidenziava che la D.L., rientrata a scuola dopo un periodo di assenza, non aveva mai preso visione del programma svolto dal supplente che la aveva sostituita, violando così il principio della continuità didattica insito in qualsiasi programma scolastico.

Riteneva non dirimenti e pertanto inutili i capitoli di prova orale articolati dalla docente.

Inoltre, quanto all'aspetto posto in rilievo dal primo giudice circa la limitatezza del periodo di valutazione ispettiva (soli quattro mesi del 2015 ed un mese nel 2016), la Corte riteneva sufficiente e necessitato il relativo accertamento, in virtù del fatto che questo era l'unico arco temporale in cui la D.L. aveva effettivamente prestato servizio nel corso di quell'anno scolastico e, pertanto, l'unico concretamente apprezzabile ai fini della valutazione della capacità didattica.

Conseguentemente, rigettava l'azionata domanda e condannava l'insegnante alla restituzione di quanto medio tempore percepito.

4. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione D.L.C.P., sulla base di otto motivi.

5. Il Ministero dell'Istruzione (già M.I.U.R.) ha resistito con controricorso.

6. Il PG ha presentato requisitoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso.

7. La ricorrente ha formulato istanza di trattazione orale e quindi depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 512, anche in relazione alla Cost., art. 33, comma 1, con riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con tale rilievo la lavoratrice ritiene che i fatti, così come accertati dalla Corte d'appello, risultino incompatibili con la sussunzione della fattispecie nella previsione astratta disciplinata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 512, sotto tre diversi aspetti.

In primo luogo, sostiene che i fatti storici posti a fondamento del provvedimento di dispensa sarebbero inidonei a fornire la prova del carattere di assolutezza e permanenza della supposta incapacità attribuita alla ricorrente. Tali caratteri, infatti, postulano l'esistenza di una pluralità di manifestazioni e di comportamenti incontestabilmente convergenti nel giudizio complessivo che il docente non disponga dei requisiti minimali per adempiere alla funzione cui è preposto (Tar Lazio, n. 13697/2005). Ne discende che, prosegue la ricorrente, a tal fine non potrebbero essere considerati sufficienti gli accertamenti relativi a pochi mesi di servizio, indagati in tre giorni di ispezione; i quali, peraltro, andrebbero a scontrarsi con un'intera carriera lavorativa certificata come esente da qualsiasi demerito e costellata da molteplici riscontri positivi presso alunni e genitori.

Da un altro punto di vista, molti dei fatti considerati dalla Corte territoriale atterrebbero alla precipua ed insindacabile espressione della libertà di insegnamento del docente, intesa come autonomia didattica e libera espressione (si pensi, in particolare, alle modalità di tenere le lezioni e ai sistemi di valutazione).

Infine, la disciplina prevista dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 512 non risulterebbe applicabile alla fattispecie oggetto di questo giudizio, trattandosi di un'insegnante di ruolo che ha superato il periodo di prova.

2. Il motivo è infondato in tutti i profili articolati.

2.1. Si osservi preliminarmente che questa Corte ha già scrutinato la questione della applicabilità dell'art. 512 n. 297 del 1994 pur a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. n 165 del 2001 ed ha ritenuto che della stessa non possa dubitarsi (v. di recente Cass. 1 maggio 2022, n. 6742; Cass. 8 gennaio 2019, n. 196).

In continuità con il principio di diritto affermato da Cass. 8 aprile 2008, n. 9129 e da Cass. 22 giugno 2012 n. 10438, è stato evidenziato che a seguito della contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico del personale scolastico e della generale attribuzione alle istituzioni scolastiche, ai sensi del D.P.R. n. 275 del 1999, art. 14, delle funzioni già di competenza dell'amministrazione centrale o periferica in materia di stato giuridico ed economico del personale, spetta al dirigente dell'istituzione scolastica, ove il dipendente presta lavoro, il potere di dispensarlo dal servizio per incapacità didattica, dovendosi escludere che tale competenza rientri tra quelle rimaste riservate all'amministrazione centrale o periferica, attesa, da un lato, la tacita abrogazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 513 per incompatibilità con la disposizione generale di cui al combinato disposto del D.P.R. n. 275 del 1999, artt. 14 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, 25, comma 4, - che attribuisce al dirigente scolastico la competenza ad adottare i provvedimenti di gestione delle risorse e del personale - e, dall'altro, l'assenza di ulteriori specifiche disposizioni derogatorie.

Come da tempo chiarito anche dalla giurisprudenza amministrativa (v. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 26 aprile 2000, n. 2495), detta dispensa non discende da comportamenti colpevoli dell'insegnante e, pertanto, non implica una responsabilità né postula un giudizio di proporzionalità, poiché non ha carattere sanzionatorio, trattandosi di atto che si limita a constatare l'oggettiva inidoneità a svolgere la funzione di insegnante. E' stata, quindi, esclusa la natura disciplinare dell'atto di dispensa per incapacità didattica, in quanto atto reso all'esito di un giudizio che, seppur valutativo, è privo di natura discrezionale, si limita a constatare, sulla base di dati oggettivi convergenti tra loro e sintomatici della mancanza di attitudine all'impiego, l'oggettiva inidoneità del docente a svolgere le mansioni inerenti all'insegnamento. Da qui l'inapplicabilità delle norme dettate per i procedimenti disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001 (cfr. Cass. n. 6742/2022 e Cass. n. 10438/2012 citate).

2.2. E' stato, altresì, precisato (v. sempre Cass. n. 6742/2022 cit.) che il D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 512, nel disporre che "il personale di cui al presente titolo, è dispensato dal servizio per inidoneità fisica o incapacità o persistente insufficiente rendimento", prevede tre distinte fattispecie di risoluzione del rapporto che, seppure accomunate dall'essere tutte riconducibili all'istituto della dispensa, non sono sovrapponibili quanto alle cause che legittimano l'esercizio del potere da parte dell'amministrazione scolastica, potere non dissimile da quello previsto per l'impiego pubblico non contrattualizzato dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 129. L'inidoneità fisica, infatti, presuppone l'impossibilità, assoluta o relativa, allo svolgimento delle mansioni, derivante dalle condizioni di salute psico-fisica dell'impiegato, mentre l'incapacità didattica, che rende il docente non idoneo alla funzione, consiste nell'inettitudine assoluta e permanente a svolgere le mansioni inerenti all'insegnamento, inettitudine che deriva da deficienze obiettive, comportamentali, intellettive o culturali, che solo come conseguenza inducono prestazioni insoddisfacenti. Lo scarso rendimento, infine, si configura qualora quello stesso effetto venga prodotto non da un'oggettiva assenza di capacità, bensì da insufficiente impegno o dalla violazione dei doveri di ufficio.

Ciò detto, attenendo il provvedimento per cui è causa ad una perdita dell'attitudine all'esercizio della funzione docente manifestatasi nel corso del rapporto (all'esito di un accertamento di tipo tecnico, qual è la visita ispettiva) ed incidente sulla causa della relazione negoziale intercorrente tra l'insegnante e l'amministrazione statale (vizio funzionale della causa, v. Consiglio di Stato, sentenza n. 2495/2000 cit.; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. VI, 24 maggio 2013, n. 2857), non rileva che l'insegnante abbia superato il periodo di prova, ben potendo l'incapacità didattica sopravvenire ad esso nel corso degli anni successivi.

E' appena il caso di ricordare che alla stregua della costante summenzionata giurisprudenza prima dei giudici amministrativi, poi di quelli ordinari, la nozione di "incapacità" di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 512 si riferisce proprio all'incapacità didattica, mentre la nozione di inidoneità fisica si riferisce a qualsivoglia inidoneità fisica o, a maggior ragione, psichica tale da rendere il lavoratore inidoneo alla funzione docente.

2.3. La Corte territoriale ha fondato la valutazione di "inettitudine", derivante da deficienze obiettive, nel caso di specie solo "comportamentali", come risulta dalla lettura della sentenza impugnata, sulla base delle risultanze di una relazione ispettiva riferita ad un circoscritto periodo temporale (quattro mesi, dal gennaio al maggio 2015, cui ha fatto seguito un periodo di circa un mese nel 2016: si evince dalla sentenza impugnata che quello dal gennaio al maggio 2015 è stato l'unico periodo in cui la D.L. ha insegnato essendo emersi 153 giorni di assenza e 49 di permessi retribuiti dal (Omissis)).

La ricorrente contesta che un periodo così breve possa essere posto a fondamento di una prognosi di inettitudine "permanente" (oltre che "assoluta") ed assume che vi sarebbe stato un vizio di sussunzione nel senso che l'accertamento dell'incapacità didattica permanente ed assoluta, essendo la previsione di legge insuscettibile di interpretazione elastica, avrebbe dovuto essere verificata con modalità proprie ed idonee a supportare quel gravissimo giudizio di definitività previsto dalla norma.

A ben guardare, però, non si tratta di un vizio di sussunzione, ma dell'individuazione, in punto di fatto, degli elementi oggettivi per fondare il suddetto giudizio.

La Corte territoriale ha ben spiegato perché la verifica dei requisiti che hanno giustificato una valutazione di "incapacità" potesse legittimamente iscriversi nella cornice fattuale di un ridotto periodo di insegnamento nell'arco di ben 24 anni di servizio.

Così ha ritenuto che quello esaminato fosse l'unico periodo di insegnamento concretamente valutabile ("nei 24 anni di servizio 10 sono esercitati in tutt'altra attività e nei rimanenti 14 i periodi frammentati di insegnamento si riducono a circa 4 anni, essendovi periodi di assenza/malattia/corsi, ecc. che riducono a ben poca cosa l'attività di docenza svolta da questa dipendente e risultante dai documenti in atti - prova documentale -").

A tale ricostruzione la ricorrente oppone che le indicate circostanze sarebbero state smentite dalla documentazione ritualmente acquisita in atti, e così dal fascicolo personale, che la Corte territoriale avrebbe esplicitamente deciso di non esaminare, ma tutto ciò attiene al merito della causa e non integra alcuna delle violazioni di legge denunciate.

2.4. Ne' può ritenersi che la Corte territoriale abbia introdotto una forma di sanzione impropria per le prolungate assenze della docente avendo correttamente espresso il giudizio sulla ‘permanenzà ed ‘assolutezzà dell'incapacità didattica non in astratto, ma in relazione agli effettivi periodi di insegnamento.

In relazione ad essi ha stigmatizzato che il Dirigente scolastico, essendo pervenute lamentele nel periodo gennaio - maggio 2015, aveva effettuato "colloqui con un numero significativo di studenti e genitori di tre classi delle sei ove la D.L. insegnava".

Da tali colloqui era emerso (e riportato nel verbale del Dirigente scolastico Dott. Z.L. del (Omissis)), per ciascuna classe: a) disattenzione dell'insegnante verso gli alunni durante le loro interrogazioni (uso continuo di cellulare con messaggistica; foto al libro di testo per la preparazione della verifica scritta in un'altra classe, contemporaneo colloquio con altro studente diverso dall'interrogato che stava rispondendo); b) assegnazione di voti in modo casuale ed improvvisato; c) scarsa attenzione ed improvvisazione durante le lezioni; d) scarsa cura nelle lezioni (non aveva il libro di testo che prendeva in prestito temporaneo dagli alunni); e) gravi imprecisioni nel redigere i programmi finali delle classi quarte (programma e numero di ore diversi da quelli dedicati effettivamente alle spiegazioni, ad es. argomento su Hegel in realtà mai trattato in classe).

A fronte di ciò era stata richiesta una ispezione cui aveva fatto seguito il rapporto del Dirigente tecnico, Dott.ssa D.L., nella specie coadiuvato da un Dirigente scolastico specializzato in storia e filosofia, Dott.ssa I.M., con 59 allegati che aveva costituito l'accertamento tecnico posto a fondamento della dispensa.

2.5. Non vi è stata allora alcuna violazione della norma denunciata anche in considerazione del fatto che non si è trattato di una sanzione disciplinare, ma di una dispensa dal servizio per motivi obiettivi.

La Corte territoriale ha vagliato tutto il materiale probatorio a sua disposizione ed ha verificato, dandone puntuale riscontro nella motivazione, la sussistenza delle condizioni per l'adozione del provvedimento di dispensa dal servizio.

Ha, in particolare, richiamato tutta l'attività ‘direttà svolta dalle ispettrici (esame dei documenti, raccolta delle testimonianze degli studenti, visita nelle classi durante le lezioni dell'insegnante nel marzo 2016, audizione dell'insegnante, acquisizione di documenti scolastici), le circostanze dalle medesime evidenziate circa analoghe problematiche verificatesi nel 2009-2010 presso altri istituti scolastici, i riscontri della segnalazione del Dirigente scolastico sulla base dell'esame dei registi scolastici dell'a.s. 2014/2015 ("confusi") e del registro elettronico, il costante monitoraggio dell'operato dell'insegnante dal 14.2.2016 in poi.

Ha quindi valorizzato il risultato di tale monitoraggio ed il concorde giudizio espresso dalle ispettrici che avevano effettuato le visite nelle classi circa "l'assenza di criteri sostenibili nell'attribuire i voti", la "non chiarezza e confusione nelle spiegazioni", "l'improvvisazione", "la lettura pedissequa del libro di testo - preso in prestito dall'alunno -", "l'assenza di filo logico nella sequenza delle lezioni", "l'attribuzione di voti in modo estemporaneo ed umorale", oltre a complessive modalità di organizzazione e predisposizione delle verifiche, definite "pessime" - pag. 10 della sentenza - ed alla verificata circostanza che la docente "non si è curata di leggere il cartaceo del programma predisposto dalla supplente Gullino" - pag. 11 della sentenza -. Il tutto con riguardo ad ispezioni in classi ed in giorni diversi (in tre classi il giorno 3.3.2016 e in due classi il giorno 9.3.2016, tutte con il medesimo esito).

Ha, inoltre, sottolineato che la stessa docente, in sede di audizione e contestazione delle suddette risultanze ispettive, quanto al riscontrato mancato possesso dei libri di testo e di altro supporto cartaceo si era limitata a rispondere "che non li ha trovati" e a porre problemi di "carta per fotocopie", - pag. 11 della sentenza -, "di non avere appunti" - pag. 12 della sentenza - e quanto alla mancata lettura del resoconto della supplente che la aveva sostituita prima del suo rientro a marzo "che è rimasto tutto nel cassetto" della sentenza.

Tali circostanze, ad avviso della Corte di merito, confermavano i fatti riferiti anche dagli studenti circa la carenza dei libri di testo, l'estemporaneità delle lezioni, i voti dati in modo occasionale e casuale.

2.6. Quanto alla durata asseritamente breve del periodo di "osservazione" da parte delle ispettrici va evidenziato che, mentre per la prova il fattore tempo può avere un qualche rilievo perché in quel caso l'esperienza e l'idoneità si acquisiscono a mano a mano, per l'incapacità didattica ben può bastare il tempo necessario, di caso in caso, per acquisire quegli elementi essenziali e convergenti a far emergere l'inidoneità all'insegnamento.

2.7. Ne' vi è stata lesione del principio costituzionale della libertà di insegnamento, avendo la Corte territoriale ritenuto provati i seguenti elementi fattuali: "carente metodologia di lavoro manifestata dall'insegnante nel periodo in esame", "mancato possesso dei libri di testo", "disinteresse per gli strumenti didattici (ad esempio le fotocopie)", "introduzione di una lezione dialogata (in assenza di tutti gli altri presupposti affinché il dialogo sia effettivo)", "assenza di un esame del programma svolto dalla supplente e dal quale riprendere la continuità didattica" (pag. 13 della sentenza).

Conseguentemente, leggendo questi fatti in modo unitario tra loro e con gli altri elementi "presuntivi" emersi dall'istruttoria delle ispettrici, ricavabili dalle convergenti dichiarazioni degli studenti, di altri docenti e del personale scolastico, la Corte di merito ha ritenuto che sussistessero "impreparazione, incoerenza, confusione didattica" e che fossero carenti gli aspetti "vitali", "essenziali" dell'insegnare ed ha escluso anche qualsivoglia capacità didattica "residua" della docente, ponendosi in linea con il dettato legislativo.

Si ricorda che la libertà d'insegnamento quale libertà individuale costituisce un 9Pga. valore costituzionale (art. 33, comma 1, Cost.), che, però, non è illimitata, trovando il

proprio più importante limite nella tutela del destinatario dell'insegnamento, cioè dell'alunno (Cost., art. 31, art. 32, comma 2, e art. 34).

I principi costituzionali trovano conferma nel D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 1 e 2.

L'art. 1 (Formazione della personalità degli alunni e libertà d'insegnamento) così prevede: "1. Nel rispetto delle norme costituzionali e degli ordinamenti della scuola stabiliti dal presente testo unico, ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente. 2. L'esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni. 3. E garantita l'autonomia professionale nello svolgimento dell'attività didattica, scientifica e di ricerca"; l'art. 2 (Tutela della libertà di coscienza degli alunni e diritto allo studio) precisa: "1. L'azione di promozione di cui all'art. 1 è attuata nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni. 2. A favore degli alunni sono attuate iniziative dirette a garantire il diritto allo studio".

La libertà d'insegnamento in ambito scolastico, quindi, è intesa come "autonomia didattica" diretta e funzionale a una "piena formazione della personalità degli alunni", titolari di un vero e proprio "diritto allo studio".

Non e', dunque, libertà fine a se stessa, ma il suo esercizio, attraverso l'autonomia didattica del singolo insegnante, costituisce il modo per garantire il diritto allo studio di ogni alunno e, in ultima analisi, "la piena formazione della personalità" dei discenti.

Ed allora, il concetto di "libertà didattica" comprende, certo, un'autonomia nella scelta di metodi appropriati d'insegnamento, ma questo non significa che l'insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni. Una libertà così intesa equivarrebbe a una "libertà di non insegnare" incompatibile con la professione di docente. Ne' dietro lo schermo della libertà didattica possono nascondersi sciatterie anziché idee degli insegnanti o una certa anarchia piuttosto che progettualità condivisa e partecipata.

Al riguardo, le mere affermazioni della difesa della ricorrente appaiono del tutto inidonee a confutare i plurimi riscontri fattuali attraverso i quali la Corte territoriale ha ritenuto comprovata la sussistenza di gravi problematiche, riconducibili alla ricorrente e, come detto, attinenti alla mancanza di quel minimum di elementi essenziali alla capacità di insegnamento che solo possono delineare il ruolo di guida, coordinazione, rendicontabilità, chiarezza, trasparenza, progettualità ed efficacia cui corrispondono altrettante aspettative dei discenti.

3. Con il secondo rilievo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2700 c.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.

Sostiene che l'indicata norma sarebbe stata violata sotto due diversi punti di vista: la Corte territoriale, da una parte, ha attribuito valenza di certificazione di verità non solo a quanto di diretta cognizione delle ispettrici, ma anche al contenuto di ciò che era stato loro riferito e, dall'altra, ha esteso l'intangibilità, in esso prevista, anche alle conclusioni ed alle valutazioni della relazione ispettiva contestate dall'appellata o, comunque, smentite dalla documentazione in atti. Tali elementi, infatti, se adeguatamente considerati, avrebbero potuto portare all'accertamento dell'illogicità e dell'insufficienza dell'ispezione, senza il necessario ricorso al procedimento di querela di falso.

Non è vero che la Corte territoriale abbia conferito ai verbali ispettivi una valenza diversa da quella che agli stessi può essere riconosciuta.

Ed infatti, dopo aver attribuito a tali verbali correttamente il valore di prova fino a querela di falso "delle attività, delle dichiarazioni, dell'esame dei documenti fatto personalmente dagli ispettori, ivi comprese le dichiarazioni dei diretti interessati interrogati dagli stessi" (pag. 8 lett. A) ed affermato che "non ogni elemento de relato acquisito ha la stessa validità probatoria (ad esempio gli scritti dei genitori o di terzi) e dunque va provato aliunde e non può essere prova provata di quanto ivi indicato" (pag. 8, lett. B) della sentenza impugnata), senza alcuna valutazione aprioristica ed acritica, ha utilizzato sia gli elementi direttamente rilevati dalle ispettrici partecipanti alle lezioni, confermativi di taluni fatti storici riferiti anche dagli studenti (pag. 12, par. 11) sia liberamente il contenuto delle dichiarazioni raccolte nel verbale stesso, "ai fini della decisione" (pag. 13, par. 11), in uno con altre risultanze di causa così facendo corretta applicazione del principio secondo cui gli accertamenti ispettivi fanno piena prova ex art. 2700 c.c., fino a querela di falso, unicamente con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale nella relazione ispettiva come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti o conosciuti senza alcun margine di apprezzamento, nonché con riguardo alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti; la fede privilegiata di detti accertamenti non e', per converso, estesa agli apprezzamenti in essi contenuti, né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno notizia da altre persone o a quelli che si assumono veri in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche. Ne consegue che le valutazioni conclusive rese nelle relazioni ispettive costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve criticamente confrontarsi, non potendoli recepire aprioristicamente (cfr. ex multis Cass. 30 maggio 2018, n. 13679).

5. Con la terza censura la ricorrente deduce, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 5, con connessa violazione del principio di non contestazione posto dall'art. 115 c.p.c..

Sostiene che alla dispensa per incapacità didattica, la quale costituisce una forma specifica di risoluzione del rapporto, si applica il principio che attribuisce al datore di lavoro l'onere della prova sui fatti che costituiscono la motivazione del recesso. Non avendo la P.A. presentato prova alcuna, se non quella della relazione ispettiva che però, a dire della ricorrente, non sarebbe dirimente nel caso in esame, è decaduta dalla possibilità di provare alcunché.

6. Il motivo è infondato.

Come già evidenziato con riguardo al motivo che precede, la Corte territoriale, lungi dal violare il principio dell'onere della prova, ha tratto dalla relazione ispettiva e dagli altri documenti versati validi (ed insindacabili) argomenti di prova circa la rilevata inettitudine della docente ed ha ritenuto positivamente dimostrata la sua incapacità didattica. Dunque, non avendo deciso la causa mediante l'utilizzo del criterio residuale di ripartizione dell'onere probatorio, non è a parlarsi di violazione dell'art. 2697 c.c. o della L. n. 604 del 1966, art. 5.

Quanto alla denunciata violazione dell'art. 115 c.p.c., premesso che il principio di non contestazione si riferisce soltanto ai fatti e non alla loro valutazione, la doglianza è priva di autosufficienza perché non trascrive i passaggi degli atti difensivi del Ministero da cui evincere l'assenza di contestazione dei fatti allegati dalla ricorrente.

7. Con il quarto motivo lamenta la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2 e del principio di immodificabilità della motivazione del recesso, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume che la ritenuta abnormità delle assenze, pur non costituendo un elemento confermativo ulteriore dei motivi di recesso, viene comunque indicato come parte essenziale della motivazione, quantomeno per giustificare la brevità del periodo di servizio preso in considerazione, incidendo quindi sulla motivazione del recesso e, comunque, sulla decisione del giudice, anche se in via mediata. Nonostante ciò, nell'atto con il quale è stata disposta la dispensa non è rinvenibile alcun riferimento alle assenze della ricorrente; perciò, tale fattore non potrebbe essere considerato ai fini della decisione.

8. Il motivo è inammissibile.

Nell'impianto argomentativo della sentenza impugnata le assenze della D.L. non hanno costituito elemento di valutazione dell'incapacità didattica, ma solo fatto storico di contorno rispetto al periodo di osservazione e mera circostanza per giustificare la limitazione temporale di tale periodo.

Il tutto, però, attiene ad un giudizio di merito, non rivedibile in questa sede di legittimità.

9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio con connessa violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5.

Si duole del fatto che la Corte territoriale abbia omesso di tener conto della carriera della docente, la quale avrebbe permesso di contrastare la circostanza nuova, presentata per la prima volta in appello, delle abnormi assenze della D.L. ed inciso, in maniera decisiva, sul giudizio di incapacità didattica.

Si richiama, sul punto, quanto evidenziato con riguardo al motivo che precede osservandosi che la Corte territoriale ha dato conto in modo appropriato della verifica degli elementi della "assolutezza" e "permanenza" con riguardo ai periodi effettivi di insegnamento (v. pag. 8 punto 8.1 della sentenza).

Inoltre, le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 27 dicembre 2019, n. 34476, richiamata espressamente da Cass. n. 6742/2022, cit.) hanno riassunto i principi, ormai consolidati, affermati in relazione alla riformulazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5, ad opera del D.L. n. 83 del 2012 e, rinviando a Cass., sez. un., n. 8053/2014, n. 9558/2018 e n. 33679/2018, hanno evidenziato che: a) il novellato testo dell'art. 360 c.p.c., n. 5 ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; b) l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; c) neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma; d) nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, in quanto attiene all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; e) tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione. Quest'ultimo vizio, non riconducibile al n. 5 dell'art. 360 c.p.c., va denunciato ai sensi del combinato disposto degli artt. 132 e 360, n. 4, c.p.c. ed è ravvisabile solo qualora la carenza o la contraddittorietà siano tali da indurre la mancanza di un requisito essenziale della decisione.

Orbene, il fatto storico del quale si lamenta la mancata considerazione, ossia la carriera della docente che avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a tener conto dei pregressi apprezzamenti e attestati di stima, non integra il vizio di omesso esame di un fatto decisivo nei termini suddetti.

Ne', invero, si evince dal motivo di ricorso (che sul punto è carente di specificità nonostante il richiamo al ricorso di primo grado ed alla memoria di costituzione in appello) quali aspetti della carriera della docente avrebbero potuto contrastare o prevalere sulla dimostrata incapacità di insegnamento.

11. Con la sesta critica, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza e del procedimento per difetto e apoditticità della motivazione e per violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 115 e 116 c.p.c. e 118 disp. att., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 4.

Sostiene che la Corte di merito avrebbe deciso apoditticamente senza tener conto della rilevanza delle allegazioni proposte (117 capitoli di prova orale) ritenute "non dirimenti e di inutile espletamento", il che avrebbe integrato una violazione delle regole procedimentali vigenti in materia, nonché assoluta carenza, o quantomeno apparenza, della struttura motivazionale della sentenza.

12. La censura è priva di pregio.

La motivazione della sentenza sui 117 capitoli di prova formulati dalla ricorrente ed esplicitata al punto 12. della sentenza impugnata non è affatto apodittica, distinguendo la Corte territoriale le ragioni della non ammissione per gruppi di capitoli (per essere, ad esempio, gli stessi vertenti su elementi di contorno e non pertinenti all'incapacità o capacità didattica; per essere generici o valutativi; per essere relativi a circostanze non contestate; per essere irrilevanti, inconcludenti ovvero anche di lunghezza incompatibile con la prova orale - ad es. capitolo 96 di due pagine e capitolo 94 di quattro pagine - e comunque per essere tutti superflui).

Vale, in ogni caso, il principio già affermato da questa Corte secondo cui il giudizio sulla superfluità o genericità della prova testimoniale è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico (così Cass. 10 settembre 2004, n. 18222; Cass. 21 novembre 2022, n. 34189); nel presente caso, la valutazione operata non può dirsi basata su erronei principi giuridici, in quanto il giudice di appello ha correttamente escluso capitoli di prova ritenuti irrilevanti e privi di decisività, con conseguente difetto di incongruenze di ordine logico.

13. Con il settimo rilievo la ricorrente deduce la nullità della sentenza e del procedimento, violazione e falsa applicazione della Cost., artt. 111, 115, 116,421 e 437, comma 2, c.p.c. e 118 disp. att., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 4.

Rileva che il tema concernente le abnormi assenze attribuite alla ricorrente è stato introdotto per la prima volta in appello; pertanto, lo stesso non avrebbe dovuto essere preso in considerazione. Alla luce di ciò, la ragione della nullità della sentenza, o comunque dell'apparenza della sua motivazione, andrebbe rintracciata nel suo fondarsi, anche se in via mediata, su questioni - le assenze - il cui apprezzamento sarebbe stato precluso a norma dell'art. 437 comma 2 c.p.c..

14. Il motivo è infondato.

Innanzitutto, come già evidenziato, le prolungate assenze della D.L. non hanno costituito elemento fondativo della incapacità didattica.

Inoltre, per quanto si evince dalla stessa sentenza impugnata, la circostanza delle assenze già emergeva "dai registri pubblici riportati nei verbali" che documentavano "l'assenza dalla scuola per 20 anni su 24" e 4 anni complessivi di insegnamento "pure frammentato" (v. pag. 4 punto 3.1 ed ancora pag. 6 punto 5 da cui si rileva che il documento pubblico delle assenze era identico a quello della relazione ispettiva), il che induce a ritenere che i suddetti atti (ulteriori) prodotti in appello non siano stati nuovi, ma meramente integrativi di dati già emergenti da altra rituale produzione in primo grado, come tali acquisibili anche d'ufficio.

15. Con l'ottavo ed ultimo motivo la ricorrente deduce la nullità del procedimento e delle regole del contraddittorio per violazione della Cost., artt. 24 e 111 e 101 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 4, perché la Corte di merito, dopo aver autorizzato la P.A. al deposito tramite chiavetta USB dei documenti, non ha richiesto alcuna certificazione di corrispondenza agli originali. In aggiunta a ciò, il giudice non ha neppure concesso all'appellata il termine per prendere posizione sul contenuto di quanto depositato e, prima ancora, di operare qualsiasi verifica sul contenuto.

16. Il motivo è inammissibile.

Si evince dalla sentenza impugnata (pag. 6, punto 5) che la Corte territoriale, a fronte della estesa produzione documentale, invitava la P.A. a note esplicative e quest'ultima dava atto dell'allegazione di 2600 documenti del fascicolo personale dell'insegnante - scritti, email, carteggi - e li riproduceva in CD ROM e poi in chiavetta USB (su richiesta del Collegio).

Orbene, non si rileva dal motivo di ricorso la sequenza procedimentale del giudizio dinanzi alla Corte d'appello (verbali di udienza, richieste di conformità delle riproduzioni su CD ROM o chiavetta USB).

In ogni caso l'irrilevanza probatoria dei files contenuti in detti supporti informatici già in sé deriva dall'avvenuto deposito della documentazione cartacea da parte dell'appellante.

17. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.

18. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

19. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso, ove dovuto a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2023.

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