Secondo il brocardo latino, in claris non fit interpretatio, in presenza di un testo chiaro (normativo o contrattuale) non sarebbe necessaria un’attività di interpretazione.
Ma è davvero così?
Si occupa del tema la Cassazione, con l’ordinanza n. 21260 del 19 luglio 2023, fornendo le linee guida per una corretta ricostruzione ermeneutica del contratto.
La Suprema Corte ricorda in primis che l'interpretazione del contratto è un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione.
Quanto al processo ermeneutico, precisa che il carattere prioritario dell'elemento letterale non va inteso in senso assoluto. L'art. 1362 c.c., infatti, richiamando la comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell'accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti.
Il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare.
Anche un'espressione che ad una prima lettura appare chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.
Ne consegue che l'interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti e quindi di verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime.
Sul tema vedi anche:
Ai sensi dell'art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un'espressione "prima facie" chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l'interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti e quindi di verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime.
Cassazione civile, sez. II, ordinanza 19/07/2023 (ud. 06/06/2023) n.21260
FATTI DI CAUSA
Nel luglio del 1983 P.V., P.R. ed P.A., comproprietari per 1/3 ciascuno di un fabbricato di (Omissis), stipulavano una scrittura privata con la quale P.V. alienava ai fratelli (in parti uguali) la propria quota. Lo stesso anno, con una successiva scrittura, P. cedeva ogni suo diritto al germano P.R.. Quest'ultimo, con citazione del luglio 2009, evocava in giudizio P.R.R., P.M., P.V. - quali eredi di P.A. - avanti il Tribunale di Bologna, domandando l'accertamento dell'intervenuta compravendita, con il conseguente trasferimento delle quote di comproprietà ed, in subordine, la declaratoria di avvenuta usucapione.
Nella resistenza delle controparti, il giudice adito rigettava tutte le domande dell'attore ed, in forza di domanda riconvenzionale, riconosceva il diritto delle convenute a vedersi corrispondere la quota di un terzo dei canoni di locazione relativi alla farmacia oggetto di causa.
Su gravame del soccombente, con sentenza n. 3166, depositata il 21 dicembre 2018, la Corte d'appello di Bologna confermava la decisione del Tribunale.
Il giudice di secondo grado sosteneva che il Tribunale aveva correttamente qualificato i due contratti del 1983 come preliminari, invece che come definitivi. Infatti, l'indagine sulla reale volontà dei contraenti aveva condotto a ritenere che molteplici fossero gli elementi idonei a riconoscere una pattuizione ad effetti obbligatori.
La Corte distrettuale esponeva all'uopo una serie di circostanze convergenti che, valutate nel loro insieme, sarebbero state sintomatiche dell'intenzione dei sottoscrittori di concludere contratti che, in assenza di un atto traslativo della proprietà, incompatibile con l'effettiva volontà contrattuale, avrebbero escluso la piena titolarità dell'immobile in capo a P.R., dichiarando comunque prescritta l'azione ex art. 2932 c.c.
P.R. ha proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di un unico motivo. Resistono con controricorso P.R.R., P.M., P.V..
In prossimità dell'udienza camerale, entrambe le parti hanno depositato memoria, ex art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Con l'unica doglianza, proposta ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente assume la violazione o falsa applicazione dell'art. 1362 c.c. rispetto alla scrittura privata del 21 ottobre 1983.
Contrariamente all'interpretazione dei giudici di merito, tutte le espressioni usate nel testo della scrittura, per descrivere l'operazione, condurrebbero inequivocabilmente a ritenere la stipulazione di un contratto di compravendita ad effetti immediatamente traslativi e non un preliminare. L'errore giuridico sarebbe consistito nell'applicare il criterio ermeneutico che valorizza il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del contratto, in un caso nel quale il testo sarebbe stato chiarissimo e tale da non lasciare spazio a dubbi interpretativi.
2) Il motivo è fondato.
2.1) Al fine della qualificazione giuridica del negozio 21 ottobre 1983 fra P.R. ed P.A., la Corte d'appello ha affermato "pur essendo ravvisabili nelle scritture del 1983 espressioni letterali apparentemente univoche nel senso della compravendita (nella redazione del testo contrattuale 1983, sono adoperate parole come "vende e trasferisce" "accetta e compera" "intende cedere e cede", "il venditore" "comproprietà immobiliare teste' ceduta" "i beni pro quota trasferiti), attesa la regola fondamentale dettata dall'art. 1362 c.c. comma 1, che impone un'indagine sulla reale volontà dei contraenti, sono diversi gli elementi che assumono valore indicativo volto a riconoscere una pattuizione a effetti obbligatori ". Nei passi successivi della motivazione, analizzando il rogito del 1991 fra P.R. e l'altro fratello P.V., la sentenza impugnata aggiunge "il tenore di tale atto, con il mancato richiamo alle scritture private e alle vendite che l'odierno appellante riterrebbe avvenute, come pure il riconoscimento da parte dei due fratelli di essere comproprietari, ciascuno per un terzo, dell'immobile farmacia (e non Raffaele per l'intero) evidenziano come nel 1983 nessun trasferimento della proprietà rientrava nella volontà dei contraenti. A ciò si aggiunga la mancata riduzione del contratto (scrittura privata del 21.10.1983) in forma pubblica "entro e non oltre il 5 settembre 1984" (ed oltre se si pensa che P.A. nel 1990 è deceduto senza aver stipulato alcun atto pubblico) tra P.A. e P.R., come previsto nella scrittura stessa ed il mancato pagamento da parte di P.R. del prezzo dell'asserito trasferimento, stante la mancata prova di tale adempimento, essendo state accertate - da un CTU le cui risultanze appaiono pienamente condivisibili anche da questa Corte - come apocrife le firme di P.A. a quietanza del pagamento... P.R. non si è mai fatto carico delle imposte relative alla quota di comproprietà che lo stesso afferma di aver acquistato con effetti reali da P.A.. Da ultimo, il fatto che le scritture del 1983 non fanno menzione del diritto di prelazione cui sono assoggettati tutti i beni immobili sottoposti a vincolo artistico o storico, mentre tale cenno è correttamente contenuto nell'atto di vendita del 1991 tra P.R. e P.A.".
2.3) Osserva la Corte che, in generale, nell'interpretazione del contratto, che è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, il carattere prioritario dell'elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell'art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell'accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (Sez. 6-1, n. 13595 del 2 luglio 2020; Sez. 3, n. 20294 del 26 luglio 2019; Sez. 1, n. 16181 del 28 luglio 2017).
Tale attività ermeneutica è senz'altro coerente con il dettato dell'art. 1362 c.c., secondo cui il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un'espressione "prima facie" chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l'interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti e quindi di verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (Sez. 6-3, n. 32786 dell'8 novembre 2022;
2.4) Tuttavia l'errore commesso dalla Corte d'appello di Bologna consiste nell'aver interpretato un negozio di per sé chiaro secondo le stesse considerazioni della sentenza impugnata attraverso l'intenzione delle parti, che peraltro ha ritenuto di desumere da un contratto successivo (quello del 1991 fra P.R. e P.V.) al quale il fratello P.A. non aveva partecipato e che, soprattutto, non faceva parte del thema decidendum del presente giudizio. In altri termini, la sentenza impugnata ha mancato di ricostruire in maniera ermeneuticamente corretta la volontà delle parti.
Conseguentemente, la sentenza va cassata e rinviata alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, affinché riesamini la vicenda oggetto di causa alla luce dei principi di cui sopra.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Vista l'istanza avanzata a mezzo PCT in data 26/5/2023 dalla difesa di p.R.R., P., P. nel procedimento RG n. 8332/2019;
Visto l'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003 e ritenuta la sussistenza dei legittimi motivi.
Dispone che:
a cura della Cancelleria, sull'emananda pronunzia sia apposta la formula di anonimizzazione dei dati personali e di riconoscimento delle istanti e del loro rispettivo marito e padre P.A. (deceduto (Omissis)) in caso di diffusione/riproduzione dell'emananda pronuncia in qualsivoglia forma, su qualsiasi tipologia di supporto (cartaceo o tecnologico) per scopi di studio o raccolta dati in banche dati, o comunque in caso di diffusione a terzi per informazione anche meramente giuridica
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Seconda Sezione Civile, il 6 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2023.