Nel caso in cui una richiedente protezione internazionale alleghi di essere stata trasferita dal paese di origine con la violenza o con l'inganno, abusando delle sue condizioni di vulnerabilità sociale e familiare, a fini di sfruttamento, il giudice è tenuto a valutare la attendibilità del racconto alla luce delle "Linee guida" sull'identificazione delle vittime di tratta elaborate dall'UNHCR e a darne corretta qualificazione, anche a prescindere dalla esplicita ammissione della richiedente di essere effettivamente impiegata nel meretricio, potendo riconoscersi, in caso di positiva identificazione come vittima di tratta, lo status di rifugiato; a tal fine il giudice è tenuto altresì ad assumere informazioni pertinenti ed aggiornate specifiche sul fenomeno della tratta, riguardato come fenomeno transnazionale e pertanto non solo informazioni relative al paese di origine ma anche al paese di transito e a quello di destinazione finale.
Cassazione civile, sez. I, ordinanza 04/08/2023, (ud. 23/06/2023, dep. 04/08/2023), n.23883
RILEVATO
CHE:
La ricorrente, cittadina nigeriana, ha chiesto la protezione internazionale dichiarando che, dopo essere stata stuprata all'età di sedici anni ed avere così avuto una figlia, era stata oggetto di sfruttamento, dapprima lavorativo e poi sessuale, da parte di uno zio, per sfuggire al quale si era affidata ad una organizzazione che l'aveva condotta in Libia, consegnandola ad una "madam" per essere avviata alla prostituzione; di essere poi fuggita da tale situazione grazie ad un giovane gambiano che l'ha aiutata ad imbarcarsi per l'Italia con la promessa di matrimonio, rivelatasi fittizia; ha dichiarato altresì di avere contratto debiti.
La competente Commissione territoriale ha respinto la richiesta e così anche il Tribunale di Trieste, sul rilievo che non ricorrono le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, né della protezione sussidiaria ovvero della protezione speciale, così motivando: "Non presentava inoltre documentazione di lavoro, neppure attuale e neppure dimostrava di conoscere la lingua italiana facendosi assistere da un interprete di inglese davanti al giudice delegato, dopo aver affermato di non comprendere l'italiano. Dalle dichiarazioni rese, in sé non meglio precisate quanto alle circostanze, non vi è attendibile riscontro né evidenza sicura di un fondato, attuale e concreto pericolo di persecuzione o di grave danno individuale; non vi è evidenza inoltre anche alla stregua delle fonti internazionali (vd. EASO 18) che la ricorrente si sia rivolta alle autorità affermando di essere vittima di sfruttamento posto che anche in Nigeria il tema della tratta o dello sfruttamento ha ricevuto e riceve risposta statuale in termini di repressione. Non ricorrono pertanto le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, per la concessione della protezione sussidiaria ovvero per la protezione speciale difettando pure indici di effettivo inserimento sociale in Italia".
Avverso il predetto provvedimento la richiedente ha proposto ricorso per cassazione affidandosi a otto motivi.
Il Ministero, non tempestivamente costituito, ha presentato istanza per la partecipazione alla eventuale discussione orale.
La causa è stata trattata all'udienza camerale non partecipata del 23 giugno 2023.
RITENUTO
CHE:
1.- Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5 l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti e segnatamente di aver subito trattamenti disumani o degradanti per mano del congiunto che l'aveva ridotta in schiavitù e l'assoggettamento successivo al fenomeno della tratta a scopo di prostituzione.
Lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell'art. 115 c.p.c. in ordine alla prova sulle violenze subite, dell'assoggettamento alla tratta e sul pericolo di incorrere nuovamente in trattamenti disumani e degradanti.
La ricorrente deduce che ha errato il giudicante a ritenere il suo racconto inattendibile, nonostante le prove documentali offerte a sostegno del subito sfruttamento, legato alla sua appartenenza al genere femminile. Censura la sentenza impugnata laddove si afferma che non emergerebbe nella vicenda alcuna azione di carattere persecutorio e deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, le persecuzioni narrate hanno tutte le caratteristiche previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. a) poiché sono sufficientemente gravi e dettate dalla appartenenza a un gruppo sociale, legate a violenza di genere.
La parte lamenta altresì l'apparenza della motivazione, causata dalla mancata attenzione da parte del Tribunale al suo racconto, nonché l'omesso esame dei documenti offerti a suffragio delle sue dichiarazioni, tra cui soprattutto la documentazione medica prodotta in atti e la relazione dell'Ente anti tratta che allega, in violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e dell'art. 115 c.p.c.. Deduce che il Tribunale ha totalmente omesso di esaminare il fatto decisivo da lei esposto, vale a dire che ella è stata vittima della riduzione in schiavitù da parte dello zio che ne ha anche abusato sessualmente e che oggi avrebbe rapito sua figlia onde rivalersi per i soldi sottrattigli dalla ricorrente, e che è stata vittima della tratta degli esseri umani al fine di sfruttamento sessuale; che il Tribunale non ha adeguatamente valutato l'attualità del pericolo di subire ritorsioni da parte della rete operante la tratta, atteso che ella non ha restituito il debito contratto con la madame.
2.- Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta ai sensi dell'art. 360, n. 3, la erronea o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,4,5,7,8 e 11: deduce che ha errato il Tribunale ad escludere la protezione D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b) e nel non aver valutato la domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiato a mente del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,4,5,7,8 e 11.
La ricorrente afferma che, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dal Tribunale, le persecuzioni narrate hanno tutte le caratteristiche previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, lett. D) in quanto sono sufficientemente gravi e dettate dalla appartenenza ad "un particolare gruppo sociale" ossia l'appartenenza al genere femminile" e soprattutto in quanto sono legate a violenza di genere. Per tali ragioni la vulnerabilità acquisita e originaria della vittima della tratta integra i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e non della protezione sussidiaria. Inoltre il Tribunale non ha preso in considerazione, come si evince dallo stesso racconto della ricorrente, il rischio di ulteriore vittimizzazione, in quanto le vittime di tratta, proprio perché indotte e costrette alla mercificazione del loro corpo, sono a rischio di ulteriore discriminazione per il loro vissuto.
3.- Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la erronea o falsa applicazione delle norme di diritto, in particolare del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e dell'art. 115 c.p.c., comma 2. Osserva che il giudicante non ha tenuto in alcun conto la documentazione in atti prodotta dalla ricorrente, e in particolare ha totalmente omesso di valutare la relazione dell'Ente antitratta che, in qualità della sua funzione pubblicistica, ha una specifica competenza sul tema, quale ente attuatore del programma unico di emersione, assistenza e integrazione sociale a favore delle persone straniere e dei cittadini di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 18, comma 3-bis.
4.- Con il quarto motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la erronea o falsa applicazione delle norme di diritto, in particolare del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 3, commi 3 e 5, 4, 5, 6 e 7, art. 8, comma 3 e art. 27, artt. 2 e 3 Cedu, nonché degli artt. 15 par. 3 lettera a) e dell'art. 46 par. 3 della Direttiva 2013/32, dell'art. 13 par. 3 lettera a) della Direttiva 2005/85 e dell'art. 4 par. 3 della Direttiva 2004/83, coordinate con le norme di diritto nazionale ed internazionale, in materia di tratta di esseri umani, del D.Lgs. n. 24 del 2014, del D.Lgs. n. 142 del 2015, del Protocollo ONU contro la tratta, della Convenzione di Istanbul del 2011, della Carta dei diritti fondamentali e della Direttiva 2011/36/UE. La ricorrente deduce che l'errata valutazione della non credibilità discende dalla mancata utilizzazione del suddetto quadro normativo, in funzione di una corretta lettura della credibilità e dalla mancata assunzione di informazioni pertinenti, rilevanti e aggiornate. Deduce che il Collegio ha consultato soltanto una sola fonte di informazioni, non pertinente alla vicenda da lei denunciata, e cioè il Report EASO n. 18, omettendo di acquisire ulteriori informazioni sul paese di origine in ordine all'esistenza di fenomeni discriminatori o persecutori specifici, attraverso COI specifiche e attuali, in violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.
5.- Con il quinto motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la erronea o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell'art. 112 c.p.c. per aver il Tribunale omesso la decisione, nonostante espressamente investito della domanda di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c).
6.- Con il sesto motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all'art. 132 c.p.c., la nullità della sentenza per motivazione apparente. Ad avviso della parte il Tribunale avrebbe espresso un giudizio di non attendibilità frutto di soggettivistiche opinioni così ricorrendo l'ipotesi di nullità della sentenza per motivazione apparente.
7.- Con il settimo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la erronea o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, art. 8, art. 9, comma 2, art. 13, comma 1 bis e art. 27, commi 1 e 1 bis e dell'art. 16 della Direttiva Europea numero 2013/32/UE, la violazione dei parametri valutativi ed interpretativi, la violazione dell'obbligo di congruità dell'esame e di cooperazione istruttoria, la violazione dell'obbligo di congruità della motivazione, erronea interpretazione delle disposizioni di legge. Lamenta altresì, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c.. e dell'art. 112 c.p.c. per aver omesso il Tribunale la pronuncia in ordine alla protezione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.
La parte deduce di avere proposto anche domanda per la protezione umanitaria, e osserva che il giudice d'appello affermando che "Non ricorrono pertanto le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, per la concessione della protezione sussidiaria ovvero per la protezione speciale difettando pure indici di effettivo inserimento sociale in Italia" ha errato nel confondere i presupposti degli gli istituti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (protezione umanitaria) e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 (protezione complementare).
Deduce che il giudicante non ha tenuto in considerazione la circostanza che ove ci si trovi di fronte ad una condizione di vulnerabilità, come quella della ricorrente, per le sue caratteristiche soggettive (tra cui anche lo stato di gravidanza), questa merita la tutela riconosciuta del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, a prescindere dal requisito dell'integrazione sul territorio nazionale, necessario invece qualora si invochi la protezione complementare di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19.
8.- Con l'ottavo motivo di ricorso la ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360, n. 3, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1.1, nonché ex art. 360 c.p.c., n. 5, l'omesso esame dell'integrazione sociale del richiedente al fine del riconoscimento della protezione complementare, violazione o falsa applicazione art. 115 c.p.c.. La parte osserva che il giudice d'appello, nel verificare i presupposti per l'accoglimento della domanda di protezione complementare, ha errato nel non ritenere sussistenti i presupposti necessari al riconoscimento di tale nuova forma di protezione. Deduce di aver prodotto nel giudizio di primo grado la documentazione di un adeguato inserimento lavorativo nel territorio italiano (contratto di lavoro come badante, le buste paga e la certificazione unica dei compensi per l'anno 2020, e attestazione della frequenza del corso di alfabetizzazione) ma che detta documentazione non è stata presa in considerazione.
9.- I motivi possono esaminarsi congiuntamente, in quanto connessi e, nei termini di cui appresso si dirà, sono fondati.
La ricorrente dichiara di essere stata vittima di sfruttamento sessuale, dapprima ad opera di uno zio e successivamente di essere stata inserita, contraendo debiti, in una rete di sfruttamento che l'ha portata dapprima in Libia e successivamente in Italia.
La rilevanza di questi eventi narrati, indicatori del fenomeno della tratta, è stata sottovalutata dal Tribunale di Trieste, il quale pur non rendendo un esplicito giudizio negativo sulla credibilità, quanto meno con riferimento ai fatti principali, e cioè che la donna è stata vittima di sfruttamento sessuale in Nigeria, che è stata inserita nella rete di avvio alla prostituzione in Libia e che è stata imbarcata per l'Italia in cambio di favori sessuali, ha negato la chiesta protezione sul rilievo che il racconto non sarebbe circostanziato e comunque indicativo di un rischio, poiché non risulta che la donna abbia denunciato alle autorità nigeriane di essere vittima di sfruttamento.
9.1.- Così operando il Tribunale cade in errore, poiché lo specifico fenomeno della tratta degli essere umani, segnatamente a scopo di sfruttamento sessuale, presenta delle peculiarità che richiedono, in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, che il giudice si avvalga di specifici strumenti per far emergere la storia di tratta, nonostante la lacunosità della allegazione; tra questi l'audizione della parte, la procedura di referral e la utilizzazione della lista dei c.d. indicatori di tratta, e cioè elementi e circostanze sintomatiche del fenomeno, di cui appresso si dirà, parametri specifici di valutazione della fattispecie. Richiede inoltre che si valutino i rischi connessi al fenomeno nella sua intera complessità e non soltanto, come emerge dal provvedimento impugnato, con riferimento alla vicenda inziale di sfruttamento nel paese di origine.
Particolare attenzione va riservata a quelle contraddizioni e lacunosità che possono rappresentare esse stesse degli indicatori di tratta, in quanto rivelano timore, o di avere ricevuto istruzioni da terzi su ciò che si deve e si può raccontare alla autorità, a fronte delle quali non si può sbrigativamente opporre il difetto di allegazione (Cass. n. 24573 del 04/11/2020; Cass. n. 41863 del 29/12/2021; Cass. n. 676 del 12/01/2022).
E' vero che questa Corte ha costantemente affermato che l'onere di allegazione deve essere compiutamente assolto dal ricorrente, il quale è il solo a conoscere i dettagli della sua vicenda individuale e che il dovere di cooperazione da parte del giudice intanto sussiste in quanto il ricorrente abbia assolto al suo onere di allegazione (Cass. n. 17185 del 14/08/2020; Cass. n. 6736 del 10/03/2021; Cass. n. 25500 del 30/08/2022); ma la piena applicazione di questo principio presuppone che il richiedente sia libero di esporre la propria vicenda personale senza timore, oggettivamente fondato, di subire ritorsioni.
A tal fine, il giudice deve tenere in considerazione che in caso di tratta l'agente persecutore non è un individuo o un gruppo che agisce nell'ambito esclusivo del paese di origine, ma una organizzazione necessariamente radicata anche nel paese di destinazione, dove la persona "tratta" (cioè trasportata da un paese all'altro) è destinata allo sfruttamento.
La tratta è un fenomeno transnazionale, che non esaurisce i suoi effetti nell'ambito dei confini del paese di origine, a differenza di molte altre vicende persecutorie che sono inscindibilmente legate a situazioni locali (per es. regimi oppressivi, legislazione omofoba, fondamentalismo religioso).
In questi ultimi casi la vittima, fuggendo di sua volontà dal paese di origine e trovando rifugio in un paese democratico, può ragionevolmente ritenersi in salvo; invece nel caso della tratta il trasferimento (con coazione o inganno) della vittima dal paese di origine ad altri paesi è esso stesso parte di un quadro persecutorio, nell'ambito di una vicenda di sfruttamento che inizia nel paese di origine, continua nel paese di transito e prosegue nel pase di destinazione finale, sicché la vittima non si libera dalla soggezione all'agente persecutore giungendo in Italia, ma le occorre un aiuto ulteriore (ad es. il meccanismo di referral, nell'ambito del piano nazionale d'azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani, previsto dal D.Lgs. n. 24 del 2014, art. 9).
Il dovere di far emergere il fenomeno e di contrastarlo con gli strumenti opportuni ha un suo specifico quadro normativo Europeo: a tal fine sono stati adottati la decisione quadro 2002/629/GAI del Consiglio, del 19 luglio 2002, sulla lotta alla tratta di esseri umani; il piano UE sulle migliori pratiche, le norme e le procedure per contrastare e prevenire la tratta di esseri umani; la Direttiva 2011/36/UE del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani ove si prevede lo sviluppo di indicatori comuni generali dell'Unione per l'identificazione delle vittime della tratta.
10.- La tratta di esseri umani è infatti un fenomeno complesso che rileva nel sistema giudiziario penale e civile, sussistendo l'interesse dello Stato e della comunità internazionale alla punizione degli autori del reato e al contrasto del fenomeno, ma anche - e per certi versi prioritario - l'interesse alla protezione delle vittime. La base legale che consente - ed anzi impone - al giudice di esaminare i casi secondo speciali procedure è data da un articolato quadro normativo sovranazionale, con taluni specifici riscontri attuativi nel diritto nazionale.
Viene in rilievo, in primo luogo, l'art. 4 Cedu (divieto di riduzione in schiavitù, servitù e lavori forzati); il comma 1 in particolare, - appartenente al nucleo rigido delle garanzie inderogabili ex art. 15 Cedu, che non ammettono eccezioni - equipara il divieto di schiavitù a quello di servitù. Se il concetto di schiavitù richiama direttamente l'art. 1 della Convenzione di Ginevra e sottintende un processo di reificazione della persona, la definizione di "servitù", non contemplata nella suddetta Convenzione, è riempita di contenuti dalla giurisprudenza della Corte Edu che ha affermato che essa consiste nell'obbligo, imposto con mezzi coercitivi, di fornire a taluno un determinato servizio, cui si accompagnano una notevole restrizione della libertà personale e la sottoposizione a forme penetranti di controllo.
La più recente giurisprudenza di Strasburgo ha ricondotto entro l'ambito di applicazione della norma in commento le forme di schiavitù contemporanea, quali la schiavitù domestica e la tratta di esseri umani, in particolare a scopo di meretricio, anche quando dissimulata da rapporti lavorativi, da attività pseudo artistiche e ricreative; la Corte ha precisato che gli Stati contraenti sono tenuti a porre in essere tutte le misure idonee a scongiurare il pericolo che gli individui sottoposti alla loro giurisdizione siano ridotti in condizioni di schiavitù o di servitù o costretti al lavoro forzato (Corte Edu: Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010; Siliadin c. Francia, 26 ottobre 2005).
11.- Una moderna nozione di tratta (trafficking in persons) è data dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata del 2000, e dai relativi Protocolli, ratificata dall'Italia con L. 16 marzo 2006, n. 146, nonché dalla Convenzione di Varsavia del Consiglio d'Europa del 16 maggio 2005, dove esplicitamente si afferma in preambolo che la tratta di esseri umani costituisce una violazione dei diritti umani e un'offesa alla dignità e all'integrità dell'essere umano. Tanto il Protocollo alla Convezione Onu che la Convenzione di Varsavia precisano che l'espressione "tratta di esseri umani" indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'alloggio o l'accoglienza di persone, con la minaccia dell'uso o con l'uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, con la frode, con l'inganno, con l'abuso di autorità o della condizione di vulnerabilità o con l'offerta o l'accettazione di pagamenti o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un'altra, a fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù o l'espianto di organi.
Di particolare rilevanza è poi l'affermazione che il consenso della vittima della tratta allo sfruttamento è irrilevante in presenza di uno qualsiasi dei mezzi coercitivi o fraudolenti indicati nella norma definitoria.
11.2.- Anche il diritto Eurounitario si occupa della tratta, ed in particolare la Direttiva 2011/36/UE che contiene contestualmente disposizioni finalizzate alla repressione del crimine e alla prevenzione ed alla protezione delle vittime, dedicando particolare attenzione a quest'ultimo aspetto. La Direttiva accoglie la nozione di tratta già data dagli strumenti internazionali citati e la precisa ulteriormente, definendola "il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'alloggio o l'accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell'autorità su queste persone, con la minaccia dell'uso o con l'uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l'inganno, l'abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l'offerta o l'accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona su un'altra, a fini di sfruttamento".
E' inoltre previsto dalla suddetta direttiva (art. 11) che gli Stati membri debbano adottare "le misure necessarie per predisporre adeguati meccanismi di rapida identificazione, di assistenza e di sostegno delle vittime, in cooperazione con le pertinenti organizzazioni di sostegno".
Quanto al diritto nazionale, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, lett. h-bis), elenca fra le "persone vulnerabili" anche le vittime della tratta di esseri umani e ciò comporta, ai sensi dell'art. 15 dello stesso decreto, che il colloquio si deve svolgere "con la dovuta attenzione al contesto personale o generale in cui nasce la domanda, compresa l'origine culturale o la vulnerabilità del richiedente".
Inoltre il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 18, comma 1, prevede che nel caso di accertamento di situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un'associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il Questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilasci uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell'organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale.
E' questa una misura di protezione tipica, legata alla ricorrenza di specifici presupposti, che non esclude però, come appresso si dirà, l'applicabilità del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8 essendo piuttosto necessarie misure di coordinamento tra le amministrazioni che si occupano di tutela e assistenza delle vittime di tratta e quelle che hanno competenza in materia di asilo, secondo quanto dispone del D.Lgs. n. 24 del 2014, l'art. 10.
12.- Da questi strumenti normativi si ricava un dato di rilevanza fondamentale nell'esame dei casi di tratta, e cioè che l'allontanamento dal paese di origine non è una fuga in cerca di salvezza, ma parte essenziale del fenomeno e costituisce un atto persecutorio; ed è nella considerazione di questo specifico contesto che deve procedersi alla audizione e all'esame della domanda.
Pertanto, già l'accertamento che la vittima è stata trasferita, contro la sua volontà o con mezzi fraudolenti, dal suo paese ad un paese di transito (ad esempio la Libia) e poi infine condotta in Italia e che ivi non ha risorse economiche derivanti da lavoro (seppur eventualmente irregolare), deve orientare l'esame del caso verso la utilizzazione degli strumenti specifici che sono stati predisposti per far emergere e contrastare il fenomeno (nonché per tutelare le vittime) e cioè l'uso di quegli "adeguati meccanismi di rapida identificazione, di assistenza e di sostegno delle vittime", di cui al quadro normativo Europeo.
Altro dato fondamentale è la definizione della "posizione di vulnerabilità" fornita dalla sopra citata Direttiva (art. 2, comma 2), condizione in cui può trovarsi la vittima e di cui l'autore del reato può approfittare. La norma afferma che per "posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima". Si ribadisce altresì, al comma 4, che il consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante in presenza di uno dei mezzi di coercizione indicati nella disposizione stessa.
Ciò significa che ove la vittima sia assoggettata con violenza, minaccia, inganno o abuso di autorità non potrà mai parlarsi di prostituzione volontaria, il che è peraltro un coerente sviluppo di considerazioni che possono farsi sul fenomeno della prostituzione in genere. La Corte Costituzionale italiana, ad esempio, ha osservato che "nell'attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di "vendere sesso" trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell'individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali" (Corte Cost. 141/2019).
13.- Pertanto, non può revocarsi in dubbio che la tratta di esseri umani, e specificamente per quanto qui interessa quella finalizzata al meretricio, costituisca un fenomeno che reca pregiudizio ai diritti umani fondamentali quali la libertà, la integrità psicofisica, la stessa dignità umana; e la complessità con cui si articolano, nell'epoca attuale, le relazioni asimmetriche di sfruttamento di esseri umani, di maggiore o minore gravità secondo quanto è profonda la situazione di vulnerabilità personale delle vittime o la loro appartenenza ad un gruppo sociale debole, nonché la sempre maggiore capacità dei moderni schiavisti di dissimulare il fenomeno ricorrendo ad atti di limitazione della libertà personale altrettanto efficaci delle catene ma meno visibili, ha richiesto significative precisazioni sulle nozioni di schiavitù, asservimento e di cattura, e di riduzione in soggezione dell'essere umano. Con la ulteriore notazione che l'analisi del fenomeno si riempie di contenuti anche in relazione a quel processo di specificazione dei diritti umani proprio dell'età moderna, che presta speciale attenzione ai gruppi sociali che di per sé sono vulnerabili, quali i minori e le donne.
Da qui la rilevanza nel quadro normativo sopra illustrato della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con L. 27 giugno 2013, n. 77, poiché in essa si precisa che con l'espressione "violenza nei confronti delle donne" si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere, comprese le violenze sessuali di natura fisica, sessuale, psicologica o economica.
La definizione di violenza di genere, discriminatoria nei confronti delle donne, è qui rilevante perché ai fini della protezione internazionale non è indispensabile la verifica della sussistenza di un reato perseguibile ai sensi degli artt. 600 e segg. c.p., pur se l'esistenza di una indagine o di un processo penale in corso sono rilevanti e possono condurre, per autonoma via, al rilascio del permesso di soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 18; rileva invece la verifica della sussistenza del fenomeno della tratta e se per le concrete modalità in cui la vicenda si atteggia si ravvisano i presupposti della protezione internazionale per la vittima, posto che alle vittime di tratta può essere riconosciuto lo status di rifugiato purché siano soddisfatti tutti gli elementi contenuti nella definizione datane dagli artt. 2 e segg. del D.Lgs. n. 251 del 2007 e in particolare, qualora la tratta abbia come vittime le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere, essa può considerarsi atto persecutorio in quanto riconducibile alla appartenenza ad un "particolare gruppo sociale" costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata e cioè l'appartenenza al genere femminile (Cass. n. 676 del 12/01/2022; Cass.n. 17448 del 19/06/2023).
14.- Quanto sopra esposto consente di trarre alcune conclusioni sulle modalità di esame e valutazione delle vicende che riguardano giovani donne vulnerabili per condizione familiare o socio economica, trasferite con violenza o inganno dal paese di origine e che ricorrono al giudice nazionale chiedendo la protezione internazionale, allegando questi fatti, ma al tempo stesso mostrandosi reticenti sui dettagli.
14.1.- Non è necessario che la vittima sia in grado (o in condizione) di qualificare come tratta gli eventi che le sono accaduti e che racconta; così come non è rilevante che la vittima dichiari di essere consenziente, se al tempo stesso emerge oggettivamente dal racconto l'uso di mezzi di coercizione e di assoggettamento di cui si è detto; né è rilevante che la vittima ammetta esplicitamente di essere dedita alla prostituzione; è piuttosto il giudice che in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria deve analizzare i fatti allegati e compararli con le tutte le informazioni disponibili al fine di inquadrarli giuridicamente in modo corretto.
14.2.-Le informazioni appropriate ed attendibili di cui si dispone su questo fenomeno, sono desumibili dalle fonti normative nazionali e internazionali sopra citate, ma anche dagli gli studi elaborati dalle principali agenzie che si occupano di diritti umani, come le linee guida elaborate dall'UNHCR per la identificazione delle vittime di tratta, che sono da considerarsi "informazioni disponibili" di cui il giudice deve avvalersi al fine di un corretto inquadramento della fattispecie e di una corretta decisione del caso. Le linee guida UNHCR alla cui redazione ha partecipato anche il Ministero dell'Interno, Commissione nazionale per il diritto di asilo, richiamano il dovere di procedere ad una corretta identificazione delle vittime di tratta (art. 11 par. 4 della Direttiva 2011/36/UE), anche per mezzo dei c.d. indicatori di tratta e cioè elementi e circostanze sintomatiche di una determinata situazione e condizione della persona. Gli indicatori di tratta sono stati elaborati anche sulla base di un documento ufficiale dello Stato italiano e cioè il Piano d'azione nazionale contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani, adottato il 26 febbraio 2016 dal Consiglio dei ministri in attuazione della citata direttiva 2011/36/UE.
14.3.- Le linee guida costituiscono pertanto a tutti gli effetti informazioni di carattere generale derivanti da fonti attendibili che il giudice deve utilizzare nell'esame della domanda, posto che i parametri della specificità e della coerenza, in questo caso, perdono pregnanza, mentre assumono particolare rilievo le informazioni generali e specifiche pertinenti al caso, costituite dalle suddette linee guida e da ogni ulteriore informazione di analogo contenuto ed autorevolezza (v. Cass. n. 41863 del 29/12/2021; Cass. n. 676 del 12/01/2022).
14.4.- Una volta correttamente valutata ed esaminata la vicenda, se la persona è identificata come vittima di tratta, occorre individuare il pertinente strumento di protezione. Si deve qui ricordare che la persecuzione è ravvisabile in atti, se sufficientemente gravi, diretti a colpire un determinato gruppo sociale quale è il genere femminile, ovvero più nello specifico le donne che in una determinata area geografica appartengono a gruppi sociali ed economici svantaggiati, e che il giudicante deve valutare non solo la sussistenza degli atti persecutori, nei termini sopra precisati, ma anche del rischio di continuare ad essere (o di essere nuovamente soggette) a sfruttamento e della possibilità che in determinati contesti sociali le vittime di tratta anziché essere aiutate possano essere ulteriormente discriminate e sottoposte a vessazioni fondate sulla appartenenza ad un genere ancora più ristretto del genere femminile, e cioè le donne che hanno esercitato il meretricio, pur se costrette o ingannate; la particolare vulnerabilità che consegue all'essere state vittime di tratta comporta uno svantaggio sociale ed economico che in determinati contesti, da ricostruire tramite assunzioni di appropriate e pertinenti informazioni ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 può costituire un ostacolo all'esercizio di diritti fondamentali, quali trovare un lavoro, nutrirsi, mantenere o instaurare relazioni familiari. Se pertanto la persona già vittima di tratta rischia, in caso di rimpatrio, di essere sottoposta ad atti di grave aggressione alla sua incolumità psicofisica, alla libertà e dignità, fondati sulla appartenenza al genere femminile, e tra essi il rischio di essere nuovamente sottoposta a tratta, o di essere gravemente discriminata dal contesto sociale, o sottoposta a vessazioni per la particolare vulnerabilità conseguente alla tratta, deve concludersi che sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e non della protezione sussidiaria (Cass. n. 676 del 12/01/2022); e ciò fermo restando l'autonomia della protezione D.Lgs. n. 251, ex art. 14, lett. c) legata non già al rischio di un danno grave che interessa specificamente la persona del richiedente, per ragioni legate alla storia individuale, bensì al rischio generalizzato per i civili in caso di violenza indiscriminata derivante da conflitto (Cass. n. 13858/2018, Cass. n. 11103/2019; Cass. n. 5675/2021).
14.5-.- Se invece, pur accertandosi la vicenda storica legata alla tratta, deve escludersi un rischio attuale di atti persecutori, si potrà valutare, caso per caso, se sussistono i presupposti per la protezione speciale ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 nel testo ratione temporis vigente, valutandone l'attuale grado di integrazione sul territorio, gli eventi che caratterizzano la vita in Italia, (tra i quali la ricorrente deduce la nascita di un figlio) e ponendo particolare attenzione al fatto che le violenze subite, nel paese di origine, nel paese di transito o in Italia, possono essere state fortemente traumatiche e idonee ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona(Cass. 25734 del 22/09/2021), nonché sulla sua capacità di reinserirsi, preservando le inalienabili condizioni di dignità umana, nel contesto sociale di provenienza.
15.- Venendo ora al caso di specie, si osserva che il Tribunale, oltre a non aver tenuto in considerazione i documenti allegati da parte ricorrente, non ha rilevato che nel racconto reso dalla richiedente vi sono degli indicatori di tratta (la originaria condizione di vulnerabilità socio familiare, lo sfruttamento, il trasferimento non volontario dal paese di origine, il debito, l'assenza di proventi da attività lecita) e di conseguenza non ne ha valutato la credibilità secondo le specifiche procedure pertinenti, come precisate dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 676 del 12/01/2022 e Cass. n. 41863 del 29/12/2021) e non ha valutato - in esito ad un corretto giudizio della attendibilità - gli esiti traumatici delle vicende dedotte, né il rischio di subire, in caso di rimpatrio, ulteriori atti persecutori o discriminatori.
Il Tribunale si è limitato a rilevare che le circostanze non sono state "precisate" e altresì, non ha correttamente adempiuto al suo dovere di cooperazione istruttoria assumendo informazioni pertinenti, da fonti attendibili e aggiornate ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 posto che si limita a un generico riferimento su come in Nigeria siano state avviate azioni di contrasto a questo fenomeno, senza però considerare che, come sopra si diceva, la tratta di esseri umani è un fenomeno transazionale di particolare complessità, e quindi le informazioni che il giudice deve assumere ai fini di un corretto inquadramento della vicenda non possono limitarsi alle informazioni sul paese di origine ma devono necessariamente riguardare anche i paesi di transito - come peraltro prevede l'art. 8 cit. - e anche le informazioni sulla struttura del fenomeno, pertinenti ed adeguate ad una corretta ricostruzione dei fatti e alla valutazione del rischio nella sua dimensione attuale e concreta.
Infine, e per quanto la questione rilevi solo in via subordinata rispetto all'accertamento degli atti persecutori, il Tribunale non ha neppure verificato, anche al solo fine di escluderlo sulla base di informazioni pertinenti ed aggiornate, se nella zona di origine della richiedente sussista rischio derivante da violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato.
16.- Ne consegue, in accoglimento per quanto di ragione del ricorso, la cassazione del provvedimento impugnato e il rinvio della causa al Tribunale di Trieste in diversa composizione per un nuovo esame, attenendosi ai seguenti principi di diritto:
Nel caso in cui una richiedente protezione internazionale alleghi di essere stata trasferita dal paese di origine con la violenza o con l'inganno, abusando delle sue condizioni di vulnerabilità sociale e familiare, a fini di sfruttamento, il giudice è tenuto a valutare la attendibilità del racconto alla luce delle "Linee guida" sull'identificazione delle vittime di tratta elaborate dall'UNHCR e a darne corretta qualificazione, anche a prescindere dalla esplicita ammissione della richiedente di essere effettivamente impiegata nel meretricio, potendo riconoscersi, in caso di positiva identificazione come vittima di tratta, lo status di rifugiato; a tal fine il giudice è tenuto altresì ad assumere informazioni pertinenti ed aggiornate specifiche sul fenomeno della tratta, riguardato come fenomeno transnazionale e pertanto non solo informazioni relative al paese di origine ma anche al paese di transito e a quello di destinazione finale; il giudice è tenuto altresì a valutare, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, se sussiste il rischio per la vittima di continuare ad essere sottoposta a sfruttamento ovvero di essere discriminata o perseguitata per le vicende occorsele e per la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale; ove non si ravvisino all'attualità le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, si dovrà valutare se sussistano, anche in ragione di una persistente condizione di vulnerabilità, i presupposti per il riconoscimento della protezione speciale, ove siano comunque a esposti a rischio diritti fondamentali protetti dalla Costituzione e dalle Convezioni internazionali.
Il giudice del rinvio deciderà altresì sulle spese, in esse comprese quelle del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie per quanto di ragione il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia la causa per un nuovo al Tribunale di Trieste, in diversa composizione, il quale deciderà anche sulle spese in esse comprese quelle del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi della parte riportati nella ordinanza.
Così deciso in Roma, il 23 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2023.