La Cassazione, con sentenza n. 7467 del 15 marzo 2023, ha confermato la decisione della Corte d'appello di Milano che aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti della lavoratrice che aveva addebitato alla società datrice di lavoro spese di carburante per l'uso dell'auto aziendale non riferibili allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Il Tribunale aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione disciplinare, sottolineando che la società, pur ricevendo mensilmente i giustificativi delle spese di carburante, avesse omesso di svolgere tempestivi controlli, pregiudicando il diritto di difesa della dipendente. Il giudice di primo grado ha ritenuto che l'immediatezza della contestazione dovesse essere valutata in base al momento in cui il datore di lavoro ne ha avuto conoscenza, e non al verificarsi dei fatti contestati.
Secondo i giudici di appello, l'utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati costituiva grave inadempimento, atto a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario tra le parti e, pertanto, integrava una giusta causa di recesso.
Avverso tale sentenza, il dipendente ha proposto ricorso per cassazione, contestando, tra l'altro, la violazione del principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, ribadendo che, secondo la giurisprudenza consolidata, l'immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro e va inteso in senso relativo.
La tempestività della contestazione disciplinare deve essere valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza.
Inoltre, la Corte ha sottolineato che il datore di lavoro non ha l'obbligo di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione. Un simile obbligo, non previsto dalla legge, negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato.
La Corte di Cassazione ha dunque confermato la decisione della Corte d'appello di Milano, ritenendo che la valutazione sulla tempestività della contestazione disciplinare costituisca giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato.
il datore di lavoro abbia il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza.
Corte di Cassazione, sez. IV Civile, Ordinanza n. 7467 del 15/03/2023
Rilevato che:
1. La Corte d'appello di Milano ha accolto il reclamo proposto da Adler Ortho spa e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di O.L., volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole il (Omissis), per avere la stessa addebitato alla società spese di carburante per l'uso dell'auto aziendale negli anni 2015 e 2016 non riferibili allo svolgimento dell'attività lavorativa.
2. Il Tribunale (in fase sommaria e di opposizione) aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione disciplinare sul rilievo che la società datoriale, pur ricevendo mensilmente i giustificativi delle spese di carburante, avesse omesso di svolgere tempestivi controlli, così pregiudicando il diritto di difesa della dipendente.
3. La Corte territoriale, richiamati i precedenti di legittimità (Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 11583 del 2018) ed in sintonia con essi, ha ritenuto che l'immediatezza della contestazione dovesse valutarsi avendo riguardo non al verificarsi dei fatti contestati bensì al momento in cui il datore di lavoro ne ha avuto conoscenza; che, nel caso in esame, la società aveva preso cognizione dei fatti imputabili alla dipendente solo nel gennaio 2017, in occasione delle verifiche dei conti per la chiusura del bilancio del 2016; che era pertanto tempestiva la contestazione degli addebiti risalente al febbraio 2017; che la lavoratrice, nel fornire giustificazioni scritte, non aveva lamentato alcun pregiudizio al diritto di difesa connesso al tempo trascorso dai fatti addebitati.
4. Secondo i giudici di appello, l'utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati costituiva grave inadempimento atto a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, così da integrare una giusta causa di recesso.
5. Avverso tale sentenza O.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La Adler Ortho spa ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria, ai sensi dell'art. 380 bis.1 c.p.c..
Considerato che:
6. Col primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, e, in particolare, del principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare, nonché violazione e falsa applicazione del principi di correttezza e buona fede, per avere la Corte di merito valorizzato il momento in cui la società ha dichiarato, costituendo le prove a proprio favore, di aver rilevato i presunti illeciti e non il momento in cui tali infrazioni sarebbero state commesse e sarebbero divenute oggettivamente rilevabili e intellegibili.
7. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., per non avere la Corte di merito valutato gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta tenuta dalla lavoratrice nonché l'incidenza della stessa sulla compromissione del vincolo fiduciario; inoltre, per aver ritenuto leso il rapporto di fiducia senza accertare in concreto l'indebito utilizzo per scopi privati del denaro della società.
8. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c.; inoltre, l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Si censura la sentenza d'appello sotto il triplice profilo di: a) mancato accertamento dell'effettiva commissione dei fatti addebitati, data l'assenza di ogni positivo e concreto riscontro della appropriazione illecita di denaro da parte della lavoratrice, attraverso l'infedele compilazione di schede carburanti o l'indebito utilizzo della carta di credito aziendale; b) erronea valutazione di decisività del documento, tardivamente prodotto dalla società datoriale in sede di discussione, e costituito da una fattura in cui è riportato l'ammontare dei chilometri effettuati dall'autovettura in dotazione alla dipendente; c) erronea valutazione, come prova incontestabile degli addebiti, delle risultanze della c.t.u. che ha ritenuto sussistente una "assoluta incongruità" delle spese di carburante sulla base di un conteggio elaborato in base a dati presunti e senza alcun controllo sull'autovettura.
9. Con il quarto motivo di ricorso si addebita alla sentenza, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c.; inoltre, l'omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Si critica la decisione d'appello per avere condannato la lavoratrice alla restituzione di quanto percepito in esecuzione dell'ordinanza emessa all'esito della fase sommaria, oltre interessi legali, e per avere posto a carico della stessa le spese di tutti i gradi di giudizio.
10. Il primo motivo di ricorso è infondato.
11. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, in materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione, espressione del generale precetto di correttezza e buona fede, si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro (Cass. n. 19115 del 2013; Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 19424 del 2005; Cass. n. 11100 del 2006) e va inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, in ragione della complessità di accertamento della condotta del dipendente oppure per l'esistenza di una articolata organizzazione aziendale (Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007; Cass. n. 19159 del 2006; Cass. n. 6228 del 2004; n. 1562 del 2003; Cass. n. 12141 del 2003).
12. Si è inoltre sottolineato come il datore di lavoro abbia il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza (così Cass. 10069 del 2016; v. anche Cass. n. 28974 del 2017; Cass. n. 21546 del 2007). Difatti, l'affidamento riposto nella correttezza del dipendente non può tradursi in un danno per il datore di lavoro né può equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell'illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell'azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente (in tal senso Cass. n. 5546-2010).
13. Va infine segnalato che la valutazione sulla tempestività della contestazione disciplinare costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (Cass. n. 19115 del 2013 ed altre sopra citate).
14. La Corte appello si è attenuta ai principi enunciati da questa S.C. nel momento in cui ha giudicato conforme a buona fede il controllo eseguito dalla società sulle spese del 2016 nel momento della redazione del bilancio 2017. E' vero che i giustificativi di spesa erano consegnati dalla dipendente con cadenza mensile e che, in teoria, il datore era in condizione di controllare mensilmente le spese eseguite in relazione ai chilometri percorsi. Ma nel rapporto di lavoro in generale, e in particolar modo quando si assegnano al dipendente l'auto aziendale e la carta di credito intestata alla società, si fa affidamento sul corretto utilizzo di tali strumenti di lavoro, in funzione esclusiva delle esigenze connesse alla prestazione, non potendosi esigere un controllo costante di parte datoriale che presupporrebbe null'altro che una pregiudiziale sfiducia nell'operato del dipendente e quindi la negazione di quel patto di reciproca fiducia che sta alla base di ogni rapporto negoziale e del rapporto di lavoro in special modo.
15. Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono inammissibili in quanto pretendono una vera e propria revisione della decisione, nei suoi aspetti valutativi sulla sussistenza e sul contenuto del fatto disciplinare, nonché sulla concreta gravità della condotta ai fini della integrazione della nozione legale di giusta di causa.
16. La Corte d'appello ha accertato e ricostruito, in base alle prove documentali e alle indagini tecniche eseguite dal c.t.u., la condotta posta in essere dalla lavoratrice. Ha appurato, con l'ausilio del consulente tecnico, che il carburante acquistato dalla dipendente (la sentenza, a pag. 2, dà atto che la società aveva allegato di aver invitato la dipendente a non pagare in contanti con denaro prelevato tramite la carta di credito), in relazione alle caratteristiche di consumo dell'auto aziendale, avrebbe consentito di percorrere 278.094,83 km, a fronte dei 121.155,30 km risultanti dal tachimetro. Ha ritenuto che tale evidente sproporzione tra la spesa dichiarata dalla lavoratrice per i rifornimenti di carburante e i chilometri effettivamente percorsi dall'auto aziendale non avesse altra spiegazione né giustificazione se non quella dell'uso del denaro aziendale per scopi diversi da quelli inerenti all'esecuzione della prestazione.
17. L'acquisizione del documento prodotto dalla società nel corso dell'udienza di discussione, relativo al chilometraggio percorso dall'auto assegnata all'attuale ricorrente, è stata disposta in ragione del carattere indispensabile dello stesso e ciò in perfetta aderenza alla previsione dell'art. 437 c.p.c. e alla giurisprudenza di legittimità sull'argomento (v. Cass. n. 20055/16; n. 11994/18; n. 28439/19; Cass. n. 33393/19); non vi è alcuno spazio per ritenere integrata la violazione delle regole di formazione della prova di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. (v. Cass. 27000/2016; Cass. 13960/2014) e della regola dettata dall'art. 2697 c.c., essendo le censure unicamente rivolte alla valutazione di merito eseguita dai giudici di appello, non revisionabile in questa sede di legittimità.
18. La Corte d'appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; n. 6901 del 2016; n. 21214 del 2009; n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valutato la gravità della condotta e la specifica idoneità della stessa a far venir meno l'affidamento nel corretto futuro adempimento degli obblighi contrattuali.
19. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile perché non si specifica la ragione per cui sarebbe stato violato il disposto dell'art. 91 c.p.c. e neppure le ragioni per cui sarebbe non conforme a diritto l'obbligo, imposto alla lavoratrice, di restituire la somma versatale dalla società in esecuzione della sentenza di primo grado.
20. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto. Le spese sono regolate secondo il regime di soccombenza e liquidate come in dispositivo, con il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale il 24 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2023.